Il gioco pericoloso di Trump con l’Iran

La mossa di Trump di pochi giorni fa rischia di compromettere un accordo che sta funzionando e che ha posto fine ad anni di posizione oltranziste che non hanno sortito alcun risultato

Di Annalisa Perteghella

Inutile e dannosa la mossa del presidente Trump, che in un discorso dall’elevato impatto mediatico ha notificato agli americani e al mondo la propria decisione di non certificare l’accordo sul nucleare iraniano.

Un obbligo al quale è sottoposto dall’Iran Nuclear Agreement Review Act (INARA), una legge del 2015 che permette al Congresso americano di avere voce in capitolo nell’implementazione dell’accordo sul nucleare raggiunto nel luglio 2015 da Iran e P5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito). L’INARA obbliga il presidente a certificare al Congresso ogni 90 giorni che l’Iran si sta attenendo all’accordo e che esso rimane coerente con l’interesse nazionale statunitense.

Al presidente Donald Trump però quell’accordo non è mai andato giù, tanto da definirlo “il peggiore che gli Usa abbiano mai contratto”.

Dimenticando però o forse ignorando che non di accordo bilaterale tra Usa e Iran si tratta, bensì di un “Piano d’azione congiunto globale” (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA) concordato tra l’Iran e i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, incasellato in una risoluzione Onu e dunque frutto di un processo multilaterale e di portata globale.

Un’intesa congiunta che, è bene ricordarlo, è stata raggiunta dopo oltre dodici anni di negoziato, mettendo fine a un periodo di grande tensione in cui tra le opzioni per “gestire” il problema del nucleare di Teheran figurava anche l’attacco preventivo ai siti di arricchimento iraniani (un’operazione che avrebbe potuto trasformarsi in scontro aperto). Un’intesa che, in definitiva, ha dimostrato al mondo che può essere possibile risolvere le controversie per via negoziale, con il solo utilizzo dell’arte della diplomazia, senza ricorrere all’arte della guerra.

Di successo, dunque, si è trattato, perché ha risolto l’annoso problema del nucleare iraniano, allontanato lo spettro di un’altra guerra mediorientale, e segnalato al mondo che i cinque detentori del potere in sede Onu potevano raggiungere un’unità d’intenti e fare quello che la carta Onu nel 1945 aveva delegato loro di fare: scongiurare un’altra guerra.

È nei confronti di tutto questo che Trump ha ribaltato il tavolo, scompigliato le carte, seminato il caos, forse solo per vedere l’effetto che fa. Non sembra esserci infatti una vera e propria strategia dietro la “nuova strategia per l’Iran” annunciata lo scorso venerdì: un insieme di accuse verso Teheran – ormai per la verità trite e ritrite – frutto di un racconto della storia parziale e malandrino, seguite dalla decisione di ordinare nuove sanzioni sui membri del Corpo dei guardiani della rivoluzione e di passare poi la palla al Congresso che dovrà ora emendare l’INARA sottraendo il presidente dall’odiato compito della certificazione periodica del deal e al contempo introducendo nuove misure che permetteranno agli Usa di reimporre immediatamente le sanzioni relative al nucleare nel caso in cui Teheran venga trovata in violazione dell’accordo.

Un gioco pericoloso, quello di Trump, che interviene come un bulldozer su un delicato castello di carte – come significativamente rappresentato in questa vignetta dell’Economist. La mossa di Trump è dannosa perché antepone i giochi della politica interna americana alla sicurezza globale, rischiando di sacrificare un processo negoziale condiviso e multilaterale sugli altari del sacro egoismo dell’America First.

L’Accordo che Trump sta prendendo a picconate è un accordo che sta funzionando: lo ha certificato otto volte fino a oggi l’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), l’unico organismo internazionale incaricato di vigilare sull’implementazione e di pronunciarsi su di essa.

Sebbene per ora l’accordo non sia stato toccato, il gesto di Trump affonda un colpo durissimo in quelle fondamenta immateriali che sono proprie di ogni accordo: il rapporto di fiducia tra le parti. Il presidente Usa dimostra una volta di più all’Iran e agli iraniani che dell’America non ci si può fidare, che la politica mediorientale di Washington viene fatta a Tel Aviv e a Riyadh, e che non conta quanti gesti di moderazione il loro paese possa portare avanti, nel mirino degli Usa ci sarà sempre e solo il regime change.

Tenere separato il dossier nucleare dagli altri dossier aperti con Teheran è ciò che due anni fa ha permesso di raggiungere l’accordo: ora Trump, mischiando nuovamente i piani, rischia di vanificare i progressi compiuti sul fronte del nucleare e al contempo suscitare una rinnovata ostilità da parte di Teheran.

All’uso criminale che Trump fa della storia si accompagna infatti una profonda ignoranza della stessa: ignoranza del fatto che 38 anni di ostilità – tanti ne sono passati dalla rottura delle relazioni nel 1979 – non sono serviti a nulla se non a esacerbare lo scontro.

L’unica cosa che ha scalfito il regime, portandolo a negoziare, è stata la enorme pressione economica derivante dallo sforzo congiunto della coalizione Usa-Ue-Cina-Russia. Una pressione che oggi non è possibile replicare perché gli Usa sono da soli nella loro missione suicida.

Su tutto, poi, prevale la profonda ipocrisia da parte dell’amministrazione di un Paese che per decenni ha destabilizzato il Medio Oriente, appoggiando dittatori, supportando guerriglieri, infiltrando spie, e no, questo paese non è (solo) l’Iran.