Un treno merci lanciato contro un furgone

di Andrea Geniola

Quella dello scontro fra treni è una delle metafore più consumate (e abusate) per descrivere l’attuale conflitto istituzionale di legittimità in corso tra Stato spagnolo e autonomia catalana.

Usata, abusata e, soprattutto, poco aderente alla realtà delle circostanze. La cronaca di questi giorni ci consegna piuttosto uno scontro tra un treno merci e un furgone della frutta fermo (testardamente o eroicamente a seconda delle opinioni) in mezzo ai binari. Pare evidente che da una parte c’è uno Stato, che usa la magistratura, le forze di polizia, la diplomazia e, in una parola, la legalità, per difendere l’integrità delle proprie frontiere da un nemico interno mentre dall’altra c’è un’istituzione regionale dotata di un’autonomia relativa.

Le due opzioni sul campo, quella della secessione e la sua negazione, si sono confrontate a lungo sul terreno dialettico e la soluzione democratica di un referendum accordato è stata rifiutata da Madrid in tutte le forme possibili. Questo il terreno dello scontro in atto, non altro.

 

Certamente quella in corso è anche una battaglia della narrazione.

La narrazione dello Stato si chiama “difesa della Costituzione e della legalità” in nome di quel prodotto ideologico chiamato patriottismo costituzionale. Quella della Generalitat si richiama a una “volontà del popolo catalano” che non potremo conoscere fino a quando non si celebri un referendum con tutte le garanzie (anche di incolumità personale), che lo Stato non ha alcuna intenzione di concedere. Da parte delle autorità dello Stato, e i partiti nazional-costituzionalisti (PP, PSOE e Ciudadanos) che lo puntellano, assistiamo a un progressivo compattamento nazionalitario attorno al dogma dell’indivisibilità della Spagna, con segnali reiterati davvero preoccupanti d’involuzione democratica.

E sarebbe arrivato il momento di distinguere tra uso della legalità (e sua torsione) e principi democratici, la cui divaricazione è quanto ci sta progressivamente mostrando la questione spagnola. In questi ultimi giorni governo spagnolo e catalano si sono rimpallati le responsabilità in quasi uguale misura. La Generalitat lo fa affermando una volontà di dialogo dinnanzi all’inesistenza di una dichiarazione d’indipendenza formale votata in Parlament; è oramai superfluo ricordare che la dichiarazione si è prodotta intenzionalmente a latere della seduta parlamentare ed assume le sembianze di una dichiarazione politica da parte dei parlamentari indipendentisti.

Il governo di Madrid invece di approfittare dell’apertura catalana, visibile a tutti nella non attuazione della Legge del Referendum, ha intrapreso la via dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione. Quando questa vicenda verrà letta con un grado inferiore di passionalità sarà chiaro a tutti quale delle due parti in campo ha fatto un passo indietro e quale ha invece cercato lo scontro o la resa incondizionata. Questo perché a nostro parere, e più avanti vedremo il perché, Madrid aveva una voglia spasmodica di sospendere l’autonomia catalana e Barcellona in realtà non aveva un piano B, né militare (per fortuna) né diplomatico, oltre la mobilitazione civile.

Gli ultimi dieci giorni sono stati quindi costellati da azioni repressive sotto la copertura della legalità vigente e reazioni a questa, civili e pacifiche, all’insegna della mobilitazione popolare di massa. I due schieramenti in campo, in definitiva, mettono in campo le forze di cui dispongono.

Le forze anti-indipendentiste, con le istituzioni dello Stato dalla loro e legalità alla mano, hanno prodotto almeno tre azioni. La prima, l’azione repressiva appunto, applaudita da PP, PSOE e Ciudadanos e direttamente ispirata dall’indissolubile legame vigente in Spagna tra potere esecutivo e potere giudiziario. Il 17 ottobre il Tribunale Costituzionale dichiara incostituzionale la Legge del Referendum, già sospesa d’ufficio. In serata i presidenti delle entità civiche responsabili delle manifestazioni pacifiche di massa degli ultimi sette anni, Jordi Sanchez (ANC) e Jordi Cuixart (Omnium Cultural), venivano tradotti presso il carcere di Soto del Real con l’accusa aulica di “alzamiento tumultuario pacifico”.

Questa “sollevazione tumultuosa pacifica” cui si riferisce l’Audiencia Nacional (AN, erede del Tribunal de Orden Público franchista) è il presidio pacifico, come la stessa disposizione giudiziaria sottolinea, del 20 settembre scorso dinnanzi all’occupazione militare e giudiziaria (con relativi arresti) del Ministero di Economia della Generalitat, nel contesto delle operazioni per impedire la celebrazione del referendum dell’1 ottobre. Sulla vicenda a nulla è servita la documentazione prodotta dalla difesa degli accusati, inclusi i video nei quali si osservavano i due Jordi che, in qualità di responsabili della piazza, garantivano in ogni momento l’agibilità dell’entrata e uscita dell’autorità giudiziaria dall’edificio.

I due, con una lunga traiettoria alle spalle di associazionismo civile, pacifismo e militanza in movimenti di sinistra o di base, sono in regime di carcere preventivo con l’accusa, su tutte, di “sedizione”, un reato che prevede tempi lunghissimi di carcerazione preventiva (da due a cinque anni) ad assoluta discrezionalità dell’autorità giudiziaria. Senza entrare nella discussione circa la contestazione di un reato come quello di “sedizione” nell’Europa del 2017, sono più che legittimi i sospetti che si tratti di una disposizione d’ispirazione politica che fa di Sanchez e Cuixart due prigionieri politici o qualcosa che ci si avvicina moltissimo. Dall’altro lato della trincea politica l’indipendentismo ha messo in campo le uniche “armi” di cui dispone, le manifestazioni di piazza e l’attivazione dell’opinione pubblica.

Nello stesso clima pacifico di sempre si sono svolte le manifestazioni contro gli arresti di Sanchez e Cuixart disseminate per la geografia catalana, fino a quella di Barcellona del 21 ottobre, quando 450.000 hanno raccolto l’appello alla mobilitazione fatto dalla Taula Per la Democràcia. Anche l’anti-indipendentismo è sceso in piazza mostrando le sue reali capacità di mobilitazione in assenza dell’apporto di manifestanti provenienti dal resto della Spagna: 65.000 persone per la “hispanidad” della Catalogna il 12 ottobre (Fiesta Nacional, già Día de la Hispanidad franchista) e 2.000 il 18 a sostegno degli arresti.

 

 

Se lo Stato spagnolo, con i tre quarti della rappresentanza della sovranità nazionale che accaparrano al momento PP, PSOE e Ciudadanos, stanno andando a grandi passi verso il più tipico caso di difesa della democrazia formale attraverso vie legali ma con conseguenze deleterie e dirompenti per la democrazia stessa, non da meno si sta mostrando il contributo in tal senso da parte dell’Unione Europea. Quella dichiarazione fatta da Tusk il 10 ottobre nell’ambito dell’assemblea delle regioni pare si sia risolta in un semplice appello a risolvere la questione attraverso una riforma costituzionale dentro della legalità spagnola vigente.

Il 12 ottobre il Consiglio d’Europa poi aveva in tal senso criticato l’uso della violenza e fatto di nuovo appello al dialogo. Ma a rimettere le cose al loro posto sono arrivate le posizioni espresse dalle più alte cariche dell’UE nei giorni successivi. Il 16 ottobre arrivava una nuova dichiarazione di non intromissione da parte dell’UE negli affari interni spagnoli. E il cerchio si chiudeva con un fatto simbolicamente importante come la concessione il 20 ottobre del Premio Principessa delle Asturie per la Concordia all’UE, nelle persone di Juncker, Tajani e Tusk. In occasione della consegna del premio lo stesso Tajani dichiara fermamente che l’Unione non si offrirà mai come mediatrice tra Stato e Generalitat. Insomma, un atto di gratitudine simbolico da parte dei Borbone per l’appoggio ottenuto dai propri alleati.

Ma la chiave della questione crediamo si possa individuare qualche giorno prima. Dinnanzi alle difficoltà insite nel vendere all’opinione pubblica europea l’inibizione delle istituzioni comunitarie nella ricerca di una soluzione democratica effettiva al conflitto politico in corso, alcune voci iniziavano a levarsi a favore di un qualche tipo d’intervento. Tra queste quella del Primo Ministro belga Charles Michel, liberale francofono non suscettibile di simpatie secessioniste, che si offriva come mediatore, suscitando le ire della diplomazia spagnola.

A mettere le cose al loro posto arrivava il 13 ottobre la conferenza di Juncker dinnanzi ad una scelta platea di studenti universitari lussemburghesi. Dichiarava il presidente della Commissione Europea che nel fondo non voleva mediare per evitare di creare un precedente che avrebbe aperto la porta a un’UE di 90 piccoli staterelli e che questo l’Unione non se lo poteva permettere. Questa la ragione vera, di fondo. Ovviamente molte sono le considerazioni che si potrebbero fare al riguardo. Verrebbe da chiedersi da dove il Presidente della Commissione Europea abbia tirato fuori i 90 potenziali staterelli. Ma soprattutto è significativo che chi fa queste dichiarazioni abbia la nazionalità di uno staterello appunto di 550.000 abitanti e più piccolo della provincia di Campobasso. Più che una ragione, quindi, un puro arbitrio geopolitico o geostrategico.

È questo il percorso che ci porta all’applicazione dell’articolo 155 decisa dal governo, con l’appoggio numericamente non necessario ma politicamente significativo di PSOE e Ciudadanos, la cui vidimazione da parte del Senato è prevista per il 27 ottobre.

Nei giorni precedenti la stampa ha interpellato giuristi di varie scuole e impostazioni per cercare di prevedere quale sarebbe potuta essere l’applicazione pratica di un articolo piuttosto vago e comunque mai applicato finora. Recita il suddetto articolo al punto 1 che se una regione non compie gli obblighi che leggi statali e Costituzione gli impongono, pregiudicando l’interesse generale della Spagna, il governo dello Stato può adottare le misure necessarie per obbligarla al compimento forzato della legalità vigente.

Al punto 2 si afferma che il governo dello Stato potrà dare istruzioni in materia ai governi regionali interessati dal provvedimento. Le ipotesi di applicazione sul tavolo andavano dall’assunzione da parte di funzionari statali di attività concrete dell’amministrazione catalana (soprattutto mezzi di comunicazione, economia e ordine pubblico) e la convocazione di nuove elezioni autonomiche. I giuristi interpellati hanno sottolineato come l’applicazione stessa dei precetti dell’articolo dovessero sottostare alle competenze e procedimenti contenuti nell’attuale Statuto di Autonomia, che ha rango di legge organica dello Stato.

Quindi, lo scioglimento del Parlament, la convocazione di nuove elezioni e la seduta d’investitura di eventuali nuove cariche istituzionali si dovrebbero produrre nel rispetto dell’attuale camera autonoma e suoi procedimenti. In sintesi solo l’attuale President, anche con il 155 in vigore, potrebbe convocare elezioni anticipate.

L’applicazione presentata sabato dal governo di Madrid ha quindi le caratteristiche di una sospensione de facto dell’autonomia e un commissariamento totale delle sue attività.

Gli effetti in questo senso sono riassumibili in nove.

Primo, il presidente catalano eletto sarà destituito e il governo di Madrid nominerà direttamente un suo sostituto, che potrebbe essere la vicepresidenta spagnola, Soraya Sáenz de Santamaría, l’attuale delegato di Madrid a Barcellona, Enric Millo (PP), o una terza persona designata ad hoc.

Secondo, la destituzione in blocco del governo catalano con l’assunzione delle rispettive competenze da parte dei membri dell’esecutivo di Madrid o persone da questi designate in loro rappresentanza.

Terzo, il Parlament viene ribassato a mero organismo consultivo e tutelato dal Senato che avrà diritto di veto su qualsiasi iniziativa parlamentare; il Governo di Madrid, che sarà de facto la nuova Generalitat, non dovrà sottomettersi ad alcun controllo parlamentare né mozione di fiducia.

Quarto, sarà questa nuova autorità a convocare nuove elezioni in maniera anticipata o a portare la Generalitat commissariata fino a fine legislatura; e in questo senso la tempistica dei partiti “costituzionalisti” differisce di molto, tra un PP che data la sua irrilevanza elettorale in Catalogna non ha alcun interesse a stringere i tempi e Ciudadanos che spinge per delle elezioni immediate, convito di poterle vincere.

Quinto, il controllo immediato dei Mossos e in caso di resistenza la loro sostituzione diretta con Policía Nacional e Guardia Civil; è nel mirino di Madrid il percorso che in questi anno ha fatto dei Mossos un corpo di polizia molto controllato nella gestione della piazza, a fronte di un passato poco edificante.

Sesto, il controllo di radio e tv pubbliche dipendenti dalla Generalitat in due punti essenziali e ciononostante discrezionali come il rispetto della pluralità e la diffusione dei valori e principi della Costituzione; sebbene la qualità informativa dei media pubblici catalani sia oggettivamente maggiore rispetto a quelli spagnoli Madrid in realtà pretende che si applichino criteri di pluralismo tenendo conto agli equilibri politici presenti in tutta la Spagna poiché lo squilibrio riscontrabile non sta nella qualità informativa catalana bensì nella sostanziale differenza tra realtà politico-sociale catalana e spagnola.

Settimo, formalizzare attraverso disposizioni legali quello che era già accaduto a partire dal 20 settembre, il commissariamento delle finanze catalane e il taglio alle sovvenzioni a entità culturali e associazioni che non incontrano i favori del governo dello Stato.

Ottavo, controllo diretto delle telecomunicazioni e servizi digitali e telematici interni.

Nono, dovere di fedeltà assoluta da parte del corpo di funzionari pena la contestazione di responsabilità penali. Come si può notare si tratta di un’applicazione estremamente ampia e discrezionale del 155, come ha sottolineato il giurista Xavier Arbós.

 

foto Victor Serri

 

Di certo attorno all’applicazione di questo articolo il governo di Madrid ha messo in campo una narrazione che vorrebbe presentare agli osservatori (interni ed esterni) uno scenario in cui una democrazia minacciata mette in essere i procedimenti legali (e democraticamente controllati) di cui dispone per far fronte alla ribellione territoriale delle autorità autonome catalane. In realtà le cose si presentano più complesse.

Si ha la sensazione che i partiti “costituzionalisti” vogliano cogliere l’occasione per conquistare d’imperio un’istituzione che non riescono a conquistare attraverso le elezioni.

È utile ricordare che la somma dei voti ottenuti da Ciudadanos, PSOE e PP, in ordine di grandezza, è del 39,11% dei voti in Catalogna, pari a 52 deputati su 135. Se poi pensiamo che chi governerà la Generalitat commissionata sarà un PP, che già a Madrid governa in minoranza appoggiato per questioni di ragion di Stato da Ciudadanos e PSOE, e che in Catalogna ha l’insignificante peso elettorale dell’8,49% e solo 11 deputati su 135, ci si può rendere conto della dimensione di quello che se non è un colpo di Stato (concetto abusato prima dagli unionisti e poi dagli indipendentisti) prende tutte le sembianze di una tipica disposizione costituzionale che, per risolvere un problema costituzionale, decreta la morte della Costituzione stessa o di sicuro dell’essenza della democrazia.

Se questo era nei piani dell’indipendentismo per far esplodere tutte le contraddizioni, di certo abbondanti, della Spagna di oggi, allora la secessione è solo questione di tempo, e magari di forme, ma sembra essere un processo irreversibile. Per il momento però la reazione delle forze politiche e sociali catalane, dagli indipendentisti ai semplici democratici, passando per coloro (la maggioranza assoluta di popolazione e forze politiche) che sono a favore di un referendum, è stata quella del compattamento attorno alle istituzioni democraticamente elette dai cittadini catalani e l’autonomia politica e legislativa della Generalitat.

Quello che si sta aprendo da parte dello Stato è lo scenario della “segunda transición” disegnata da Aznar nel 1996, in cui la Catalogna è solo il primo passaggio obbligato, nonché il più duro. La messa in esercizio del 155 per come è stata disegnata sarà fonte inesauribile di conflitti nonché precedente utile a assere usato contro qualsiasi autonomia, a cominciare da quelle basca e navarra. In primo luogo perché lo Stato vorrà assumere competenze che difficilmente sarà in grado di esercitare sul terreno senza l’uso della forza militare e l’apertura di un ampissimo fronte giudiziario che porterebbe un numero incalcolabile di persone dinnanzi ai tribunali. In secondo luogo perché la stessa discutibile perizia e scarsa conoscenza del terreno mostrata finora da Madrid non farà appunto che ampliare il fronte di scontro politico, istituzionale e sociale. E poi, la madre di tutte le incognite è la possibilità ventilata da settori del PP dell’illegalizzazione dei partiti indipendentisti o lo scenario più che plausibile di una nuova vittoria indipendentista alle elezioni autonomiche convocate con il 155 in vigore.

Una volta reso impossibile uno scenario di mediazione europea, dopo l’impossibilità di celebrare un referendum pattato con tutte le garanzie d’incolumità per i cittadini elettori, sembra difficile la prospettiva di una qualche soluzione negoziata o diplomatica.

Le istituzioni catalane hanno già dichiarato che non si sottometteranno alla sospensione e con tutta probabilità, parallelamente al processo di applicazione del 155 secondo le modalità previste da Madrid, la Generalitat dichiarerà l’indipendenza. Sarà da vedere in che forma e con che contenuti e tempi questo accadrà. La forma potrebbe essere quella della dichiarazione della Repubblica Catalana con immediata apertura di un processo costituente.
Su questo passaggio si giocano le possibilità di attivazione della Taula per la Democràcia e del fronte referendario oltre la semplice dinamica difensiva nei confronti della sospensione dell’autonomia, che pure è un’ipotesi sul terreno. Inibitasi l’Unione Europea potrebbero scendere in campo attori extraeuropei, se non altro per interessi geostrategici propri, come Russia, Cina o Venezuela, proprio in quel campo lasciato irresponsabilmente libero dall’Unione nella sua volontà di appoggio (o forse controllo/tutela indiretto) nei confronti della Spagna. Non bisogna dimenticare che con l’appoggio totale i poteri forti dell’UE hanno anche fatto capire a Rajoy che la questione va risolta piuttosto che trascinata, e questo rappresenta una lama a doppio taglio per Madrid.

A quanto pare l’intervento europeo e quello del PSOE si sono limitati a strappare sottobanco all’esecutivo di Rajoy la promessa di una riforma costituzionale, che pure appare nei piani di Podemos e dei “comuns” catalani.

Si tratta a mio parere di un’ipotesi illusoria e forse meno praticabile come soluzione duratura di quanto non fossero soluzioni come, ad esempio, la libera associazione confederale costruita in maniera negoziale e bilaterale. In primo luogo, per il clima politico che si respira in Spagna; un paese con intellettuali, partiti, stampa, oligarchie economiche, magistratura, polizia, militari… mobilitati in difesa dell’unità territoriale difficilmente può prestarsi a soluzioni di maggior decentramento, federalizzazione o addirittura riconoscimento del diritto di autodeterminazione e conseguente celebrazione di un referendum in materia, come propone Podemos.

In secondo luogo per la profonda divisione all’interno del fronte “costituzionalista” stesso e un parlamento quantomeno frammentato. Nella fattispecie, Ciudadanos rivendica un profondo processo di ricentralizzazione e svuotamento delle autonomie, che vorrebbe trasformare in più innocue regioni con competenze simmetriche. Il PSOE si è mostrato quantomeno vago nella definizione di una proposta pratica, presentata come una via federale dove però il riconoscimento nazionale si ferma laddove comincia la difesa dell’unità nazionale spagnola, in un esercizio continuo di equilibrismi dialettici che poco aiutano a chiarire la posizione socialista e renderla visibile. Questa esce tra le altre cose molto toccata dall’appoggio dato all’applicazione del 155. Per quanto concerne il PP, questi ha più volte affermato che la Costituzione sta bene dov’è e come sta; curioso il dato che il partito erede di AP, che non votò a favore della Costituzione ora la difenda a spada tratta. In questo scenario la riforma costituzionale può trasformarsi in un processo eterno e senza uscita o direttamente in una regressione piuttosto che un passo in avanti.

Una volta persa l’opportunità di ricondurre il conflitto nell’alveo della diplomazia e della mediazione riprende forza lo scenario della rottura totale.

Questa porta con se una serie di elementi di evoluzione nella coscienza politica degli attori nel campo indipendentista e pro-referendum e delle masse sociali implicate nel processo in corso. Questi si possono riassumere in quattro essenzialmente. Primo, la conferma fattuale della non-riformabilità dello Stato. Secondo, la presa d’atto della fine dell’illusione europeista che potrebbe trasformarsi in un senso di tradimento e sfociare in anti-europeismo. Terzo, la fine della favole della secessione indolore, senza strappi né traumi.

E infine, l’aggregazione di un fronte di forze progressiste che, come durante il tardofranchismo, potrebbe diventare egemonico politicamente e socialmente e organicamente dirigente in una prospettiva di rottura democratica. La costruzione di questo percorso potrebbe darsi attraverso la condensazione di istanze di autogoverno alternative come potrebbe essere un’assemblea di parlamentari, sindaci e consiglieri comunali come organismo rappresentativo oltre e nonostante le istituzioni.

La forza dell’indipendentismo starà nel rendere allo Stato e all’UE la non-indipendenza più costosa dell’indipendenza. Questa la battaglia in corso, in un territorio importante con una delle grandi capitali economiche e culturali d’Europa e con delle ripercussioni immaginabili in tutti gli ambiti. Se il furgone catalano fermo sui binari non si sposta il treno in arrivo potrà anche investirlo ma non potrà evitare di deragliare.