La contraddizione del capitalismo

L’economia è forse una delle discipline peggio divulgate al mondo. Arroccata su tecnicismi per sacerdoti, oppure approssimata a qualche slogan anticapitalista. Tuttavia, il capitalismo va capito nei suoi meccanismi più complessi se si desidera elaborare un’alternativa alla profonda crisi che stiamo vivendo.

Questa rubrica racconterà in modo semplice ma quanto più possibile rigoroso alcuni concetti chiave del capitalismo mondiale, con particolare riferimento al periodo che segue la seconda metà degli anni Settanta. Una mappa ragionata per comprendere le sfide economico-sociali che dobbiamo affrontare e provare a proporre un vocabolario che smonti i luoghi comuni e faccia da bussola per il futuro prossimo.

Di Marco Missaglia e Clara Capelli

 

Il famoso ottimismo della teoria economica tradizionale che ha fatto sì che l’economista sia considerato come un Candide che dopo aver lasciato questo mondo per la coltivazione dei suoi giardini, insegni che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili purché si lascino le cose andare da sole – credo vada anch’esso ascritto all’aver trascurato l’ostacolo alla prosperità che può provenire da un’insufficienza della domanda effettiva
J.M. Keynes, Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936)

 

La scimmia del quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutto il culo

La domenica delle salme, Fabrizio De André

 

A dieci anni dallo scoppio della crisi i problemi che ci troviamo ad affrontare sono numerosi e complessi. Disoccupazione, impoverimento, precarietà, disuguaglianza sono diventate parole ricorrenti del nostro vocabolario, ormai quasi ripetute in modo pressoché automatico, a indicazione di quanto profondamente le radici della crisi abbiano attecchito nel nostro spirito. Dall’altra parte, ci sono le espressioni legate alla “cura” per la malattia della crisi: innovazione, nuovi mercati, disciplina fiscale, flessibilità, investimenti. Orientarsi fra questi due mondi e queste due narrazioni in contraddizione fra loro non è semplice: dove collocarsi allora? Che bussola seguire?

Al fine di meglio comprendere le dinamiche del capitalismo contemporaneo è necessario quindi fare un passo indietro e provare a osservarne con attenzione i meccanismi.

Vendere le proprie merci e i propri servizi e realizzare profitto – preferibilmente cospicuo – è la normale aspirazione di qualsiasi capitalista al mondo. Per questo, il funzionamento ordinato di un sistema economico richiede che si riescano innanzitutto a vendere i beni e i servizi prodotti al suo interno. Ma a chi? A chi ha partecipato al processo produttivo e possibilmente anche ad altri acquirenti. Tuttavia, è necessario che questi compratori abbiano un potere d’acquisto tale da permettere loro di assorbire la produzione. Altrimenti il sistema scricchiola, proprio come sta scricchiolando ora. Lo diceva già più di centocinquant’anni fa Karl Marx: la contraddizione del capitalismo è che il suo motore, il profitto, implica una contrazione dei salari (o, in termini più moderni se si vuole, delle retribuzioni dei lavoratori), ma questo a suo volta riduce il potere d’acquisto di chi dovrebbe comprare i beni e servizi prodotti dai capitalisti alla ricerca del profitto.

Perché il capitalismo “funzioni” è dunque cruciale che i lavoratori (siano essi occupati, disoccupati, precari, partite IVA, etc.) vedano assicurato un potere d’acquisto adeguato e che, possibilmente, considerino accettabili – e possibilmente migliorabili! – le loro condizioni di vita, così da non essere tentati di voler rovesciare lo stato delle cose. E magari accettarlo, disciplinandovisi in qualche modo.

Facciamo subito un esempio. In un celebre libro del 1979, l’economista francese Jean Fourastié chiamò il periodo che va da 1946 al 1975 “I Trenta Gloriosi”, parlando di una “rivoluzione invisibile” che aveva portato ad anni di sostenuti tassi di crescita, profondi cambiamenti sociali e maggiore stabilità economica.

A mo’ di esempio: tra il 1949 e il 1974 il reddito medio pro capite degli italiani si moltiplicò per quattro, un impressionante processo di crescita nell’arco di una sola generazione (per capirsi: dal 1861 al 1951, quasi un secolo, lo stesso reddito si moltiplicò soltanto per due [1]).

In altre parole: i Trenta Gloriosi furono un’epoca di ordinato e sostenuto sviluppo economico, caratterizzata da politiche “socialdemocratiche” etichettate, a volte correttamente a volte impropriamente, come “keynesiane”, ossia di significativo intervento pubblico nell’economia, dagli investimenti alle politiche di impiego e welfare.

I Trenta Gloriosi sono anche anni in cui lo spettro del comunismo faceva molta paura a politici e capitalisti, rendendoli molto più sensibili alle condizioni di cittadini e lavoratori. E molto più disposti ad accettare un “compromesso” che allontanasse le società dalle sirene rivoluzionarie. “Posso essere sensibile a ciò che io considero essere giusto e sensato; ma la lotta di classe mi troverà dalla parte della borghesia istruita” diceva proprio Keynes nel pamphlet Sono un liberale?. Il compromesso, l’ordinato funzionamento del capitalismo, era dunque concepito da alcuni anche come un modo per pacificare le società, fosse questo il risultato dell’operato di politici lungimiranti e preoccupati del bene comune o un contentino per sedare ogni tentativo di rivoluzione.

Il mondo, tuttavia, è profondamente cambiato rispetto ai Trenta Gloriosi. A partire dalla fine degli anni Settanta, la cosiddetta “svolta neoliberale” cavalcata da Thatcher e Reagan e la caduta del Muro di Berlino hanno progressivamente portato all’abbandono e persino al ripudio delle politiche socialdemocratiche di welfare e di compromesso keynesiano. È una storia di liberalizzazioni – e in particolare si pensi alla libertà dei capitali di muoversi per il mondo – e privatizzazioni e arretramento del pubblico da qualsivoglia ruolo economico che ben conosciamo.

Una storia che ha determinato quasi ovunque un significativo peggioramento della distribuzione cosiddetta funzionale dei redditi, cioè a favore del capitale e a detrimento del lavoro.

Anche nei luoghi del capitalismo periferico, all’impetuoso sviluppo industriale e capitalistico si è accompagnato un peggioramento della distribuzione[2]: la torta è cresciuta, anche rapidamente, ma la fetta destinata ai lavoratori è rimasta sempre la stessa o è addirittura diminuita.

Ma se il potere d’acquisto della potenziale massa di consumatori si restringe, come hanno risolto i capitalisti il problema di vendere la loro produzione? Quando la distribuzione peggiora, infatti, la domanda complessiva tende a diminuire: se 100 dollari che prima stavano nelle mie tasche, di me che sono povero, finiscono nelle tasche di un ricco, la domanda totale di beni e servizi si abbassa perché io quei 100 dollari giocoforza li avrei praticamente spesi tutti, mentre il ricco consuma una frazione inferiore del proprio reddito (benché ovviamente il livello assoluto delle sue spese sia più elevato) e, dunque, una parte di quei 100 dollari non li spenderà – li metterà in banca, in cassaforte o li destinerà a qualsiasi altro impiego finanziario.

Insomma, è bensì vero che a pagar meno i lavoratori si realizza un risparmio di costi, poi però bisogna pur venderle a qualcuno le merci e i servizi prodotti. Ma a chi?

Il capitalismo mondiale ha cercato di dare risposte concrete e diverse a questo problema. Una risposta americana, una risposta tedesco-cinese, una risposta “terzomondiale”. Nelle prossime uscite del blog esploreremo queste diverse opzioni, in un’analisi delle tante crepe che l’esasperazione delle contraddizioni del capitalismo ha prodotto in tutto il mondo. Con i risultati che stiamo attualmente vivendo.

 


[1] Questi dato sono tratti da “Ricchi per caso”, a cura di Paolo di Martino e Michelangelo Vasta, Il Mulino, 2017. 

[2] Secondo i dati riportati nel blog del Fondo Monetario Internazionale, la quota di reddito totale spettante al lavoro si è’ ridotta a partire dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso pressoché ovunque: nei paesi ricchi, in quelli “emergenti” (la Cina, per esempio) e in quelli che a emergere fanno più fatica. In media si è trattato di una riduzione del 4% circa, ma in alcuni importanti paesi si è andati ben al di là di questo dato. In Germania, per esempio, tra il 1980 e il 2007 il lavoro ha perso l’11%, in Giappone ha perso il 15%, eccetera (si veda uno studio molto completo dell’economista  Engelbert Stockhammer).