So Contemporary/Diego Rivera

L’artista degli ultimi

di Giusi Affronti

1922 – 1955, Città del Messico. Lavora sette giorni su sette, anche diciotto ore al giorno, Diego Rivera.

Sui ponteggi da pittore mangia, fa l’amore e dorme. Dipinge con la stessa naturalezza con cui respira, parla, suda.

Il murale ad affresco della scalinata del Palacio Nacional di Città del Messico assurge a manifesto dell’arte della Rivoluzione, a poema per immagini attraverso cui squadernare la storia di un popolo. Tenendo sotto mano i libri di Storia e nascondendo tra i tubetti di colore le munizioni da recapitare ai péones degli eserciti irregolari di Orozco, Zapata e Pancho Villa in lotta contro il regime di Porfirio Diaz.

Il Messico, con le sue luci e il suo paesaggio che dal mare attraversa gli altipiani e sale fino alle montagne di Guanajuato, per Rivera, equivale al centro del mondo della bellezza. In ogni volto meticcio, nella folla al mercato o alle fiestas, nella quotidianità del lavoro nei campi, affonda la sua arte, capace com’è di trasferire, in scala, i suoi schizzi a carboncino dalla carta alla parete.

Sulla scalinata del Palacio Nacional, in un all over di colori e volumi, Rivera immortala l’identità e la storia del Messico dalla conquista alla Rivoluzione, epoca dopo epoca: Madero, Huerta, Carranza, Obregòn e Calles.

In alto, come in una Trasfigurazione atea, deus machina della società contemporanea, dipinge il ritratto di Karl Marx.

La scoperta della cultura delle antiche civiltà preispaniche trasforma il folklore in poesia poiché l’arte sa essere autentica solo quando affonda le sue radici nella natura. Non può esistere arte, secondo Rivera, che non provenga dalle corde della propria indole.

L’esperienza del Cubismo praticata a Parigi, non a caso, lo annoia poiché la pittura di Picasso e Braque è intellettuale e non si mischia con la vita reale della povera gente. Nelle vene di Diego Maria de la Concepciòn Juan Nepomucenos Estanislao de la Rivera y Barrientos Acosta y Rodrìguez, detto “chilebola” (peperoncino piccante), scorre sangue misto: quello dei pellerossa, dei bianchi e dei neri.

E’ un omone immorale e blasfemo, classe 1886, pesa fino a 135 kg ed è un ingordo della vita tanto da cibarsi di carne umana, in un giovanile esperimento per fortificare la propria cagionevole tempra. Impara a leggere sui libri di ostetricia della madre e a undici anni entra all’Academia de Bellas Artes.

Disegna, fin da bambino, su mobili, porte e pareti.

L’arte l’avrebbe scovato ovunque fosse andato, fino al fronte dell’esercito messicano dove si arruola per un po’.

Assertore di un’arte sociale, certo della pubblica utilità della pittura monumentale murale, costituisce il Sindacato de Obreros, Tecnicos, Pintores Y Escultores, che equipara gli artisti agli imbianchini. Appassionato militante del Partito Comunista, ne viene presto espulso. Uomo febbrile al punto che si addormenta solo al rumore del ticchettio di un orologio sotto il cuscino.

Angelina Beloff, Lupe Marìn, Frida Kahlo ed Emma Hurtado sono, in ordine cronologico, le donne che sposa.
Le tradisce tutte e per tutta la vita, donnaiolo incallito e amante vorace. Nonostante i flirt con le “insegnanti d’inglese”, le modelle gitane, le assistenti di buona volontà e le allieve interessate a imparare l’arte della pittura, l’amore della sua vita resta Lei, Frida Kahlo.

Li un unisce un amore che proviene dalle viscere, verso l’Altro, verso il Messico e verso la pittura.

La vita e la morte, la Rivoluzione e la religione, il Realismo e il misticismo, della pittura dell’uno e dell’altra, si completano in una bamba senza fine.

Si sposano due volte, nel 1929 a Cayoacàn e nel 1940 a San Francisco. Una tragedia stradale, tre aborti e quattordici operazioni in sedici anni segnano il loro ménage.

“Ho avuto due gravi incidenti nella mia vita. – scrive Frida – Il primo fu quando un tram mi mise al tappeto, l’altro fu Diego”.