Catalunya. Si vuole rompere un rapporto immodificabile

di Angelo Miotto
traduzione Silvina Grippaldi

Joan Subirats è un sociologo, insegna a Barcellona, ha partecipato e studiato da vicino il 15-M e gli sviluppi socio-politici  delle pratiche degli indignados. Joan Subirats è catalano e a lui abbiamo voluto chiedere una lettura dei fatti che hanno fatto precipitare la situazione dal 20 settembre in poi sotto un particolare tipo di lente: quella di una ‘rottura’ che nelle istanze indipendentiste riunisce desideri e vocazione più ampie di quanto è stato rappresentato in maniera spesso e volutamente semplificata, o semplicistica. Il referendum del Primo ottobre e il braccio di ferro, la richiesta di indipendenza e repubblica come una strada di rottura rispetto alla forma di stato spagnola, di politica spagnola, contro un potere soffocante e corrotto come quello del Partito popolare al governo. Ecco le sue risposte.

Dal tuo osservatorio di attento studioso dei movimenti sociali come si è formata nella società una curva di partecipazione così compatta rispetto alle richieste di indipendenza/repubblica?

Non è stato un processo rapido e nemmeno omogeneo. In Catalunya è sempre esistita una parte della popolazione che si sentiva indipendentista ma negli ultimi decenni, questa percentuale è aumentata. Possiamo dire che nei primi anni del secolo XXI, quando ebbe inizio questo ciclo, la percentuale oscillava tra il 15 e il 20% dell’elettorato. Quando cominciarono le prime difficoltà nella riforma dello Statuto dell’Autonomia di Catalunya nel 2006, per cui sarebbero aumentate le capacità di autogoverno, questa percentuale crebbe perché la gente vide la chiusura del governo spagnolo. Coincise inoltre con la crisi economica che produsse diversi tagli nelle politiche educative e sanitarie facendo sì che il rumore sul deficit del finanziamento della Generalitat (istituzione del governo catalano), crescesse velocemente. Il punto cruciale fu nel settembre del 2012: dopo la sentenza del Tribunale Costituzionale riguardo il nuovo Statuto di Autonomia (precedentemente approvato dal Parlament de Catalunya, dalle Corti Generali e confermato dalla popolazione catalana con un referendum), che rifiutava il concetto di nazione di Catalunya e tagliava le competenze, una moltitudine di catalani si riversarono sulla strada per chiedere l’indipendenza. Da quel momento la percentuale dei catalani favorevoli all’indipendenza ha continuato ad aumentare oscillando tra il 40 e il 45% della popolazione. Vedremo cosa succederà dopo le elezioni del 21 dicembre.

Dal catalanismo al nazionalismo, dal nazionalismo all’indipendentismo: un percorso storico che ha avuto un’accelerazione grazie a quali molle sociali e politiche? C’è stata una fusione fra diversi ambienti sociali? E se sì quali e perché? 

È davvero ampia la combinazione dei fattori e, come vi ho già detto, ci sono diversi elementi che hanno influenzato. Da una parte, c’è la sensazione di sottofinanziamento nel momento in cui s’impongono le politiche di austerità mentre la situazione economica dei Paesi Baschi e Navarra è migliore grazie al suo regime fiscale speciale. Dall’altra, c’è l’offensiva accentratrice del PP, protagonista del ricorso per incostituzionalità contro lo Statuto di Autonomia di Catalunya. L’ultimo fattore è la crisi politica dello Stato spagnolo (soprattutto quella del 2011, quando il movimento degli Indignati riempì tutte le piazze della Spagna). Gran parte della popolazione catalana non ha più speranza nella riforma dello stato spagnolo, perciò cerca una strada nell’indipendenza. Per questo motivo, diversi settori sociali hanno abbracciato l’indipendentismo, dalla classe media, la quale vede con preoccupazione il suo futuro, ai settori delle piccole imprese che sono state danneggiate dalla crisi bancaria fino alle aree popolari che vogliono difendere le politiche sociali.

Una delle principali critiche che leggiamo nei detrattori della causa catalana è quello di tipo economico (indipendenza per stare meglio degli altri territori) e il solito argomento delle piccole patrie, dove si sprecano i paragoni con la situazione balcanica. È una rivoluzione ‘egoista’?

Il fattore economico ha avuto il suo peso. Qualcosa di simile era successo in Germania dopo la riunificazione, perché i Länder più ricchi si sono lamentati del fatto che dovevano sopperire alle necessità dei Länder piú poveri dell’Est, minacciando così di uscire dall’unione. La sentenza del Tribunale Costituzionale di Karlsruhe obbligò l’applicazione di quello che fu chiamato il principio de ordinalidad, nel senso che non doveva essere alterato l’ordine di ricchezza dei diversi Länder dopo la ridistribuzione delle risorse. In questo modo, sebbene la distanza tra i Länder si fosse ridotta dopo la ridistribuzione, non si sono verificati cambiamenti nel ranking. Il PP ha sempre rifiutato questo principio e anche la maggioranza del PSOE, pertanto in Spagna, se la Catalunya occupa il 3° o 4° posto nella classifica di generazione di ricchezza, dopo la ridistribuzione crollerebbe al 6° o all’8° posto a seconda del periodo. Possiamo dire che nel movimento indipendentista non c’è stata una mancata solidarietà bensì una sensazione di abuso di quella solidarietà, se teniamo conto, come ho già detto prima, della situazione dei Paesi Baschi e Navarra che erano e sono, in maniera eccezionale, altamente benefici per questi territori.

1-O: ti aspettavi una risposta dura da parte di Madrid? Gli arresti del 20 settembre hanno aperto le danze in un confronto che ci ha portato ad arresti e all’applicazione dell’Art.155. Ma c’era un’altra strada? Ci ha colpito l’autorganizzazione ai seggi. Come valuti la risposta delle persone sotto questo aspetto? Barcellona, ma anche le altre comunità più piccole hanno una storia di reti sociali che si sono trovate pronte? E se sì da dove vengono?

Il 1-O è il risultato di una pianificazione che doveva portare alla dichiarazione d’indipendenza e alla proclamazione della Repubblica catalana dopo la vittoria di questa opzione nel referendum. Il Consiglio Nazionale di Transizione composto di specialisti delle diverse aree, finì le sue sessioni con quattro punti fondamentali perché questa dichiarazione unilaterale potesse avere effetti reali: realizzazione di un referendum che avesse le garanzie necessarie per essere riconosciuto legittimo; un chiaro sostegno sociale in quella consultazione; il riconoscimento internazionale dei paesi di tutto il mondo e le strutture di uno stato che riuscissero a sostenere, dopo la dichiarazione dell’indipendenza, il nuovo stato.

Il referendum del 1° ottobre è stato il risultato delle leggi sul referendum e sulla transizione votate il 6 e il 7 settembre 2017. Queste leggi sono state approvate in mezzo a grossi problemi di legalità e parecchie trasgressioni del regolamento del Parlamento catalano. Le detenzioni del 20 settembre sono state l’inizio della controffensiva del governo centrale, il quale considerò di avere motivi sufficienti per intervenire, trasferendo a Barcellona migliaia di poliziotti e di guardia civile.

Il governo e le forze politiche che lo appoggiavano, insieme a una fitta rete di volontari arrivati dalle organizzazioni civili sostenitrici dell’indipendenza, ANC e Omnium, sono stati capaci di organizzare il referendum nonostante i tentativi della polizia di evitarlo. La trama sociale è molto attiva e fitta, soprattutto nella Catalunya rurale e quella base di volontari connessi dai social network è stata la chiave per spiegare che, nonostante gli inseguimenti e la repressione da parte della polizia, sia stato possibile realizzare e difendere il referendum.

Infatti, le consultazioni del 1° ottobre sono state realizzate nel segno di una repressione molto dura ed era evidente che non c’erano le garanzie procedurali necessarie perché si potesse fare come era stato previsto. Le conclusioni della stessa commissione internazionale convocata dal governo catalano per controllare il referendum dicevano che quel che era successo non poteva considerarsi totalmente valido.

Dei cinque milioni e mezzo di persone con diritto a votare, poco più di due milioni hanno votato. I voti favorevoli alla scelta indipendentista hanno raggiunto i due milioni, molto simile al numero ottenuto delle consultazioni del 9 novembre 2014 e delle elezioni chiamate plebiscitarie di settembre del 2015.

Poi il governo catalano decise di andare avanti con la dichiarazione d’indipendenza, mentre il governo spagnolo mise in moto l’applicazione dell’art. 155 della costituzione, il quale autorizza a sospendere l’autogoverno di qualsiasi comunità autonoma e intestarsi le funzioni.

Giovedì 26 ottobre è stata fatta la DUI (Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza) e, con la proclamazione della Repubblica, venerdì 27 ottobre il governo Rajoy avvia l’art. 155, sospende l’autonomia, dissolve il parlamento catalano, priva dei poteri l’esecutivo catalano e si convocano le elezioni per il 21 dicembre.

Niente di tutto quello che era stato previsto dal Consiglio Nazionale per la Transizione si è avverato. Non c’è stata una consultazione con le dovute garanzie, non c’era la maggioranza sufficiente, non c’è stato nessun riconoscimento internazionale e non sono mai esistite le strutture di stato capaci di sostenere questa dichiarazione d’indipendenza.

Non si può considerare positivo il bilancio di questo processo. E allo stesso tempo è evidente che né la repressione né le elezioni del 21 dicembre abbiano risolto la questione. Questa situazione resterà. Il sistema delle autonomie in Spagna non funziona più bene. Non è stato risolto l’incastro della realtà nazionale catalana ed è inevitabile che si finisca per votare, anche se la strada potrebbe essere lunga.

La posizione della sindaca Ada Colau è stata molto sottolineata nel dibattito internazionale perché cercava e cerca un punto di sintesi. Può essere alla lunga quella che incontrerà il favore di chi vuole una mediazione politica?

La logica dominante è la bipolarizzazione, quindi la posizione di Ada Colau e dei comuni è molto complessa perché ci sono persone indipendentiste e altre che non lo sono. Non è facile rifiutare la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza e allo stesso tempo opporsi all’applicazione dell’articolo 155 e alla repressione che ciò comporta, mentre la logica degli altri partiti è il confronto tra i due blocchi. Dobbiamo vedere come si svolge la campagna elettorale e se la tendenza è costruire ponti o se prevale la logica del muro contro muro.

È troppo presto per prevedere lo sviluppo dei fatti. Questo spazio intermedio tra indipendenza sì – indipendenza no, che allo stesso tempo difende la democrazia, può avere successo oppure può restare sepolto dalla dinamica polarizzatrice.

C’è un problema politico irrisolto: allora la domanda è: si vuole l’indipendenza, o l’indipendenza è la chiave per politiche diverse e più libertà rispetto a quello che rappresenta, oggi, la Spagna del Pp (o del Psoe)?

L’indipendenza racchiude in sé molti aspetti e tanti desideri di cambiamento, ma la sua base di partenza è la considerazione che questo Paese è immodificabile. Questo fatto causa diversi problemi ai partiti che, come il caso di Podemos, cercano di introdurre nel nostro Paese l’idea di plurinazionalità perché si sentono isolati dagli altri partiti, i quali tengono conto soltanto della sovranità unica e indivisibile della Spagna. Amador Fernández-Savater diceva: Che cosa vuole la Catalunya, separarsi dalla Spagna o da ‘questa’ Spagna? La risposta che in molti danno dalla Catalunya è: “dalla Spagna, perché non ne conosciamo un’altra”. Questo è un punto importante: vedere se la crisi catalana possa aiutare a modificare la situazione politica generale spagnola e la crisi evidente del regime politico dopo la transizione.

Hai votato? Cosa pensano i giovani in classe?
Io ho votato il 1° ottobre e ho votato no. Il mio voto è la risposta all’azione della polizia nonostante considerassi che quel referendum non avesse le sufficienti garanzie. I miei studenti sono pluralisti come lo è la società catalana. Le opinioni sono variegate. Prevalgono quelli che vorrebbero rompere con la Spagna però ci sono anche quelli che pensano che ci sia un eccesso di dibattito sull’indipendentismo dimenticandosi di temi importanti come quelli sociali o tecnologici.

L’Europa continua a esprimersi per bocca dei suoi vertici definendo la questione un problema interno. È evidente, però, che non può esserlo. Cosa teme Bruxelles? La Catalunya è il caso scatenante della conclamata crisi dello Stato-Nazione? Ci vuole una rivoluzione indipendentista, quindi che si richiami all’identità, per mettere in risalto l’egoismo di un’Europa schiava ancora dello Stato-nazione?

Faccio fatica a parlare di Europa come un tutt’uno. Le istituzioni europee hanno reagito contro perché non vogliono moltiplicare i vari problemi che hanno già. Le crisi degli Stati-Nazione sono evidenti così come lo è l’incapacità dell’Unione Europea di proteggere i cittadini dalla globalizzazione e dalla mercificazione. Secondo me, un dibattito sulla sovranità dello Stato-Nazione è meno importante che discutere sulle sovranità sostanziali: tecnologica, energetica, alimentare, idrica ecc. In quest’ambito la crisi catalana può aiutare a far nascere questi dibattiti se la situazione non si incancrenisce.

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