Grand Hotel Pristina

Il ministro degli Esteri kosovaro Behgjet Pacolli porta il Kosovo all’arbitrato internazionale

di Giovanni Vale e Jack Davies, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso

Il ministro degli Esteri kosovaro Behgjet Pacolli si scontra con l’amministrazione dello stato sulla proprietà del Grand Hotel Pristina, simbolo della città e oggi semi-abbandonato. Una situazione che rischia di provocare un evidente conflitto di interessi

La penombra ed il silenzio accolgono i viaggiatori che varcano oggi le porte del Grand Hotel Pristina. Lontano dal chiasso del boulevard Madre Teresa, la principale arteria pedonale della capitale kosovara, nella hall dell’albergo regna un’atmosfera ovattata, così come al banco della reception, spesso deserto. Le chiavi di oltre trecento camere sono diligentemente appese nei loro spazi numerati, mentre i divani in pelle dormono vuoti e la moquette si perde tra le stanze non illuminate.

Il Grand Hotel, uno dei più grandi alberghi della Jugoslavia socialista, vegeta così, come abbandonato, da più di dieci anni. Eppure, pur di assicurarsi il controllo di questo palazzo da tredici piani nel cuore della capitale, il governo kosovaro sta per intraprendere una difficile battaglia legale. Una guerra giudiziaria, ma anche politica e tutta interna all’esecutivo di Pristina. Il ministero della Giustizia, incaricato di difendere gli interessi dello Stato, dovrà infatti vedersela con gli avvocati dell’imprenditore miliardario Behgjet Pacolli, che oggi siede sulla poltrona di ministro degli Esteri del Kosovo.

Liquidazione e arbitrato

Camminando lungo i corridoi bui e freddi del Grand Hotel, si stenta a credere a questa storia. Nel giorno in cui visitiamo l’albergo a cinque stelle, inaugurato nel 1978, soltanto cinque turisti hanno firmato il registro degli ospiti all’ingresso. “Ma è ancora metà pomeriggio”, ci dice l’impiegato della reception lanciando un’occhiata all’orologio. “Qualcuno potrebbe ancora arrivare”, aggiunge, seppur con aria poco convinta.

Il direttore Bojamir Hoxha è più disincantato. “La metà delle stanze sono chiuse, non abbiamo diritto di fare pubblicità e non possiamo nemmeno aggiornare il sito internet dell’albergo”, spiega Hoxha, che è stato nominato manager della struttura nel 2012, quando la proprietà è ripassata in mani pubbliche. “Tra cinque, sei mesi, la situazione dovrebbe chiarirsi. Ma per il momento, diciamo che il Grand Hotel non è in funzione”, conclude Hoxha, mentre ci fa strada tra i piani ancora accessibili e le poche camere pronte per essere affittate.

Stando all’Agenzia per le privatizzazioni del Kosovo (Privatisation Agency of Kosova, PAK) – l’attuale proprietario dell’hotel e il datore di lavoro di Bojamir Hoxha – la parabola del “Grand” dovrebbe concludersi a breve con una procedura di liquidazione.

“Tutte le questioni legali e contrattuali relative alla privatizzazione del NewCo Grand Hotel sono state completate e l’impresa è ora in fase di liquidazione”, conferma via mail un portavoce della PAK. Insomma, tempo “cinque, sei mesi” e lo stato di incertezza che aleggia nei locali sarà finalmente concluso… O forse no.

Perché mentre la PAK prosegue con la liquidazione, a Washington la proprietà dell’immobile è diventata un caso giudiziario presso il Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative agli investimenti (ICSID). Quest’istituzione, nata nel 1965 all’interno del Gruppo della Banca mondiale, ha infatti ricevuto quest’estate una richiesta di arbitrato da parte della Mabco Constructions SA, un’impresa svizzera di proprietà della famiglia di Behgjet Pacolli, l’attuale capo della diplomazia kosovara.

Il 21 luglio 2017, un nuovo caso è stato aperto con la dicitura: ARB/17/25. L’oggetto della disputa è l’acquisto di una proprietà, il settore economico di riferimento è il turismo e la parte citata in causa dalla Mabco è proprio la Repubblica del Kosovo, che ha ratificato la Convenzione dell’ICSID.

Una privatizzazione non riuscita

Come si è passati da Pristina a Washington nella guerra per il Grand Hotel?

La risposta va cercata nel processo di privatizzazione che ha coinvolto nel paese “oltre 500 imprese di proprietà pubblica” durante il passaggio dall’economia socialista a quella di mercato. Un processo all’interno del quale “gli esempi di privatizzazioni riuscite sono estremamente rari”, come indica uno studio del Group for Legal and Political Studies e del Balkan Investigative Reporting Network (Panic selling, 2016). In questo contesto, il Grand Hotel non fa eccezione.

Nel 2005, l’Agenzia per l’amministrazione fiduciaria del Kosovo (Kosovo Trust Agency, KTA) avvia la privatizzazione dell’albergo, che è acquistato l’anno successivo dalla compagnia kosovara NTP Unio Commerce di Zelqif Berisha per 8 milioni di euro. Berisha si impegna inoltre, entro il 2009, ad investire 20 milioni di euro e ad assumere 540 persone. Ma gli anni passano, il Kosovo proclama la sua indipendenza, la PAK succede alla KTA e comincia a controllare il caso dell’albergo, scoprendo che appena l’8,32% del capitale promesso è stato investito e che solo il 79,52% del personale indicato è stato effettivamente assunto.

Il 31 maggio 2012, la PAK decide perciò di esercitare un’opzione di acquisto (Share Call Option) sulla proprietà del Grand Hotel, annullandone la vendita. Seguono delle battaglie legali tra l’impresa di Berisha e la PAK, nelle quali quest’ultima esce vincitrice a più riprese: nel 2012, nel 2013, nel 2014 e nel 2015 (arrivando fino ad un giudizio di non ammissibilità da parte della Corte costituzionale del Kosovo).

Il caso sembrerebbe chiuso, con l’hotel sprofondato nel suo limbo in attesa della liquidazione e Bojamir Hoxha incaricato di amministrare un albergo “non in funzione”, ma nella questione, nel frattempo, è subentrata la Mabco Costructions SA e quindi la figura di Behgjet Pacolli (che a Pristina possiede già l’hotel Swiss Diamond, costruito nel 2011 all’altro capo del boulevard Madre Teresa).

Nel gennaio 2007, infatti, Zelqif Berisha ha sottoscritto un accordo con la Mabco e con l’impresa tedesca Eurokoha-Reisen accettando di vendere loro il 60% delle proprie quote del Grand Hotel. Lo stesso Pacolli, in un post pubblicato quest’estate sul proprio profilo Facebook, ha spiegato di aver pagato all’epoca 5,1 milioni di euro per la propria quota del 40%. E nel 2009, la comproprietà è stata confermata dal tribunale locale di Pristina.

Ma quando la PAK decide di riprendere il controllo dell’albergo nel 2012, dopo aver constatato le inadempienze di Zelqif Berisha, la Mabco e l’Eurokoha sono escluse dai giochi. La loro richiesta di intervenire nel processo tra la PAK e la NTP Unio Commerce (l’impresa di Berisha) è infatti respinta dalla Corte suprema nel 2014, così come accade al ricorso presentato presso la Corte costituzionale nel 2015. Nell’estate del 2017, la Mabco decide dunque di portare il caso all’attenzione dell’ICSID a Washington, perché, come spiega lo stesso Pacolli su Facebook, “non c’era altro modo qui in Kosovo”.

Per l’attuale ministro degli Esteri, l’investimento della Mabco non è stato possibile a causa “dei gruppi mafiosi e politicamente protetti che esistono in Kosovo” e che “hanno bloccato tutto con i loro meccanismi”. A questo proposito, Pacolli sostiene che “qualcuno trovò il coraggio di chiedere una mazzetta da 3,6 milioni di euro, affinché il problema del Grand Hotel fosse legittimamente risolto”. “Ho rifiutato e ho denunciato il caso a EULEX”, conclude l’imprenditore nel suo post.

Verso un conflitto di interessi?

Quest’estate, quando si lamentava del clima mafioso nel suo paese, Behgjet Pacolli non ricopriva ancora una carica governativa. Ma nelle ultime settimane, l’uomo più ricco del Kosovo ha deciso di abbandonare i banchi dell’opposizione e di unirsi alla cosiddetta “coalizione dei veterani”, permettendo la nascita del governo Haradinaj. In contemporanea, a Washington, sia la Mabco che l’esecutivo di Pristina hanno nominato i propri rappresentanti legali.

Tutto è avvenuto nello spazio di pochi giorni: il 4 settembre è nata la nuova maggioranza governativa; il 5 settembre, l’impresa svizzera ha inviato all’ICSID l’avvocato italiano Gianrocco Ferraro, mentre il 26 settembre, è toccato al ministero della Giustizia kosovaro scegliere l’austriaco August Reinisch per la propria difesa. E anche se i dettagli dell’arbitrato non sono ancora stati resi noti e, al riguardo, l’Agenzia per le privatizzazioni del Kosovo ha rifiutato di rilasciare un commento, quel che è certo è che per i portavoce del governo kosovaro, il caso rappresenterà una sfida non da poco.

Quale sarà la posizione ufficiale dell’esecutivo di Pristina? E quella di Behgjet Pacolli? Il ministro degli Esteri è un azionista della Mabco e ne è stato il presidente fino al 2010, quando ha lasciato l’incarico ad un parente stretto. Come potrà conciliare l’impegno politico (e costituzionale) a fare gli interessi del Kosovo con l’esigenza di difendere una delle sue imprese?

Queste domande, una volta passate le porte dell’hotel conteso, provocano appena un sospiro rassegnato. Al bar aperto al primo piano, una foto appesa al muro ricorda i tempi in cui il segretario dell’ONU Kofi Annan dormiva nella suite numero 444, nel lontano 2001. Oggi, quello stesso appartamento con due camere e due bagni è in affitto a 300 euro per notte in alta stagione, ma da almeno cinque anni non ci dorme nessuno. Sullo stesso piano, si trova anche la stanza in cui dormì una volta il maresciallo Tito, “senza Jovanka”, come precisa divertito il direttore Bojamir Hoxha.

Di aneddoti di questo tipo, il Grand Hotel, con il suo glorioso passato, ne avrebbe a centinaia. Ma il torpore del presente e l’incertezza del futuro – su cui pende ora un nuovo processo, non più kosovaro ma internazionale – sembrano aver definitivamente stregato sia l’albergo che i suoi 81 dipendenti. Nei corridoi, l’ordinaria amministrazione degli spazi prosegue dunque per inerzia, al punto che quando entriamo nella camera 423, l’ultima del nostro tour ispettivo, le nostre guide si accorgono che il riscaldamento non funziona, anche se la stanza è inserita tra quelle da affittare.