Vukovar, due passi nel passato ancora presente

Una passeggiata nel centro simbolo dell’indipendenza croata, tra confini fisici, disegnati e una memoria nazionale ben scolpita nel paesaggio urbano

Testo di Martina Napolitano, Marco Carlone e Simone Benazzo; foto di Marco Carlone

Sugli schermi televisivi del Central Café, la Dinamo Zagabria scalda gli animi dei clienti, ragazzi giovani che sorseggiano birra Osječko e Cedevita. Una cartolina per niente originale, inviabile da una qualsiasi cittadina di un qualsiasi Paese d’Europa non fosse per quella strana torre diroccata che si scorge dietro ai gazebo.

A pochi metri dal vociare, i tavoli di plastica e gli ombrelloni marchiati Coca-Cola lasciano il posto all’argine di un fiume, verde, circondato da alberi. È il Danubio, re dei fiumi europei, che qui segna il confine tra Croazia e Serbia, e sempre qui riceve le acque del torrente Vuka, da cui il nome del centro: Vukovar, letteralmente “la fortezza sul Vuka”.

Vukovar non è una città conosciuta per il suo elegante castello di Eltz, né per il sito archeologico di Vučedol, luogo dove circa 3000 anni prima della nascita di Cristo si sviluppò un’antica comunità indoeuropea. Oggi il nome di Vukovar si conosce soprattutto per l’assedio che la ridusse in macerie nel corso del conflitto 1991-1995 tra Croazia e Serbia, periodo durante il quale il centro storico venne quasi interamente distrutto dagli scontri a fuoco.

Vukovar era allora una città e oggi tale vuole rimanere. La storia recente di questo agglomerato urbano, capoluogo dell’omonima provincia che oggi si trova nell’estremo Est della Croazia, è oltremodo complessa.

Nelle vie che oggi fan bella mostra di sé con vetrine e luci al neon, serbi e croati inscenarono uno dei capitoli più sanguinosi della carneficina con cui la Croazia guadagnò la propria indipendenza.

Probabilmente solo l’assedio pluriennale di Sarajevo e il genocidio di Srebrenica strapparono alla città croata la corona di vittima per antonomasia del conflitto che ad inizio anni ‘90 insanguinò l’ex-Jugoslavia, nel nome di un’idea monolitica di stato-nazione, che prevedeva l’esistenza di uno stato dove a dominare avrebbe dovuto essere una ed una sola comunità nazionale.

Ancora oggi, nella città che fu prima jugoslava, poi distrutta, quindi serba e infine croata, continuano a coesistere diverse comunità. Come convivano, è un altro discorso.

Passeggiando sulla centralissima via Franjo Tuđman, dedicata al primo presidente della Croazia indipendente, si intuisce da subito chi oggi è considerato vittima e chi carnefice. I palazzi, di chiara ispirazione asburgica, crivellati da colpi di mitraglia sono ormai un vecchio ricordo.

Vetrine di negozi da cui fuoriescono musica e profumi dolciastri si stagliano sotto alle pareti verniciate di nuovo. Nel punto in cui termina la via dello shopping, una piazza ordinata, austriaca, diventa un parco a tema nazionale dove i simboli cari alla Croazia si sprecano.

Di fronte al ponte sul Vuka, che sfocia nel Danubio in pieno centro, una curiosa installazione composta da tubi di metallo consente a turisti e locali di suonare l’inno nazionale croato, percuotendo un grande xilofono. Davanti al ponte, un busto dal cognome francese: è Jean-Michel Nicolier, un ragazzo che nel 1991 prese un treno per Zagabria di sua sponte e da lì si diresse al fronte per combattere con le forze indipendentiste croate.

Ferito da una granata, fu uno dei tanti che, prelevati dai serbi all’ospedale della Vukovar ormai caduta, vennero uccisi in un hangar poco lontano, a Ovčara, là dove oggi sorge un memoriale dedicato alle vittime.

 
 
 
 
 

Proprio dove confluiscono il Vuka e il Danubio, una imponente croce in marmo bianco svetta sul fiume, decorata da tipici intarsi e scudo a scacchiera nazionale; su di essa si legge un’incisione in glagolitico, l’alfabeto ideato nel IX secolo da Cirillo e Metodio, da cui nacque poi il cirillico.

A differenza di altre tradizioni linguistiche di area slava, che nei secoli optarono per il cirillico, il croato – soprattutto nella liturgia – ha mantenuto fino in epoca piuttosto recente il glagolitico, anche per differenziarsi dall’orbita religiosa ortodossa e ribadire la propria particolarità di comunità slavofona cattolica.

Dalle rive del Danubio il profilo dell’antica torre idrica, perfettamente restaurata, si affianca a quella più recente, in mattoni, volutamente lasciata con le ferite dell’artiglieria ben in vista.

Tra le due, lo scheletro del grande hotel Dunav, uno dei primi luoghi dove i giornalisti, guidati dai colonnelli serbi, vennero condotti fieramente per documentare gli esiti della rovinosa battaglia che dichiarò la caduta della città nel novembre del ‘91, come ricorda l’inviato dell’Independent Marc Champion.

Ma il simbolo della Vukovar vittima è proprio quella torre in cemento e mattoni che si scorge in lontananza, riprodotta anche nei souvenir locali e sui totem turistici in metallo, con i buchi dei bombardamenti ben in vista e nella stessa identica posizione rispetto all’originale.

L’acquedotto, costruito negli anni ’60 fu uno dei bersagli più colpiti nel conflitto; oggi porta con fierezza i circa 600 fori inflitti dall’artiglieria.

Rimane lì “intatto”, nonostante le velleità di ricostruzione avanzate in origine dal neopresidente croato Tuđman, non appena Vukovar tornò all’interno dei confini nazionali nel 1998.

Sulla strada dei locali e dei ristoranti, un pannello informativo per turisti in inglese racconta la storia della città, dedicando metà della descrizione ai soli cinque anni di conflitto per l’’indipendenza.

Le sventagliate dei mitra rimasero – volutamente – per anni impresse su alcune facciate, giustificando un nutrito turismo della memoria soprattutto per i croati, che qui si recavano per onorare i caduti nel nome della nascente patria.

L’ufficio turistico di Vukovar conferma che con il passare del tempo e con il progressivo allontanamento dagli anni della guerra, il numero di turisti locali è andato però calando, mentre crescente è stato il flusso di turisti stranieri.

A confermarlo è anche l’agenzia turistica Danubium tours, che annovera tra le proprie proposte il pacchetto “Path of defenders of Vukovar”, un tour guidato molto richiesto, che porta i visitatori sulle tracce del conflitto. Anche Vukovar non sfugge a quella nuance noir che colpisce svariati luoghi resi celebri da tragedie, misfatti o eventi catastrofici.

A confermare questa impressione, la quasi inesistente presenza dei turisti serbi, vicini di casa che non a tutti sembrano graditi: nel 2010, sempre secondo le stime dell’ufficio turistico locale, solo 26 turisti serbi hanno visitato la cittadina. Numeri non proprio impressionanti per una città che qui ospita una radio ed una televisione serba, il consolato, una tv e locali serbi.

Da queste parti il cirillico pare proprio non riuscire a farsi spazio, nonostante al 2011 la popolazione serba superasse ampiamente il 30%. La città rimane divisa tra gli abitanti delle due bandiere, che – ispirandosi viziosamente ai cugini bosniaci – non comunicano tra di loro, hanno scuole diverse e locali diversi anche per uscire a bersi una birra.

Del resto, il pannello turistico pare indicare chiaramente quale sia l’orientamento delle ultime opere di ristrutturazione e riqualificazione cittadine: vi si legge di un ritorno all’originario stile barocco di Vukovar, uno stile che farebbe “rivivere il suo aspetto culturale tipico di una città dell’Europa Occidentale”, spostando un po’ più ad Oriente – forse appena oltre il bel Danubio blu – quel confine immaginato tra Est ed Ovest che tanti grattacapi storici ha creato.

Martina Napolitano scrive dal 2014 su East Journal, dove ha fatto la caporedattrice fino a settembre. Nella vita, fa il secondo anno di dottorato in Slavistica all’Università di Udine/Trieste. Vive e ama Pordenone.

Marco Carlone fa il redattore e il fotografo per Rivista Trekking&Outdoor, ama i treni e fotografare l’Est Europa. Ha alle spalle una grassoccia dose di viaggi nel Vecchio Continente. Fa base a Torino. Ha scritto per Le Courrier des Balkans, TPI, Osservatorio Balcani e Caucaso.

Simone Benazzo, diplomato al Collegio d’Europa di Varsavia, ama, viaggia e studia il mondo dell’Europa Orientale. I suoi interessi spaziano dal post-socialismo all’islamofobia, dalle politiche di memoria ai nuovi nazionalismi in ex-Jugoslavia ed Europa Centrale. Ne ha scritto per Il Tascabile, Prismo, The Towner, East Journal, Pagina 99, New Eastern Europe e The Post Internazionale.