Un racconto in due puntate, una visione d’insieme, per non limitarsi sempre all’ultimo frammento
di Alberto Savioli
Il 17 ottobre 2017 le Forze democratiche siriane (Sdf), composte da combattenti arabi e in prevalenza da milizie curde (Ypg) sostenute dagli Usa, annunciavano la liberazione di Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico.
In poco tempo le Sdf hanno conquistato i territori del califfato a est dell’Eufrate, mentre l’esercito siriano, Hezbollah e le milizie sciite conquistavano i territori a ovest del fiume, da Deir ez-Zor ad Abu Kamal, sul confine iracheno.
La caduta di Rawa nella regione occidentale di Anbar (Iraq), ultima città irachena in mano all’Isis, conquistata pochi giorni fa dalle truppe governative irachene e dalle milizie filo-iraniane, sancisce ufficialmente la fine dello Stato islamico anche se sono ancora presenti diverse sacche di resistenza.
Tutti annunciano la fine dello Stato islamico, è veramente così?
È innegabile che come entità statuale sia di fatto collassato, ma in Oriente i morti non muoiono mai e spesso resuscitano come Lazzaro.
Per evitare che risorga con altri nomi o in altre forme, come le Gorgoni a più teste, non è sufficiente recidere la testa di Medusa per mezzo della sconfitta militare, bisogna tagliare tutte le teste del mostro, anche quelle che hanno portato alla sua vittoria ideologia, le cause sociali e le diseguaglianze sulle quali ha fatto leva.
Tra le molteplici cause che hanno favorito il suo successo due vanno analizzate con attenzione: 1) lo scontro costante tra entità sempre in lotta tra loro che utilizzano un nemico contro un altro nemico, 2) un equilibrio di potere mai definitivo perché basato sulla diseguaglianza.
1) Il nemico del mio nemico è mio amico:
1a) “Barbe e spalline” nella stessa trincea.
In passato il regime siriano di impronta laica, ha più volte utilizzato l’estremismo religioso per convenienza politica; dal 2003 facendo da traghettatore e addestratore, tramite i servizi di intelligence, di jihadisti ed estremisti mandati a combattere gli americani in Iraq.
Nel 2012 l’ex ambasciatore siriano a Baghdad, Nawaf al-Faris, ha dichiarato che: “Tutti gli arabi e gli altri stranieri sono stati incoraggiati ad andare in Iraq attraverso la Siria, e i loro movimenti sono stati facilitati dal governo siriano”.
Al-Faris sosteneva di conoscere personalmente elementi delle mukhabarat (intelligence siriana) che agivano come “ufficiali di collegamento” e che ancora nel 2012 avevano contatti con al-Qa’ida: “Al-Qa’ida non svolgerebbe attività senza il supporto del regime. Il governo siriano vorrebbe utilizzare al-Qa’ida come merce di scambio con l’Occidente”.
Il braccio destro di uno di questi chierici salafiti reclutatore di combattenti e sospettato di essere un collaboratore dell’intelligence siriano, di nome Abu Ibrahim, nel 2005 ha detto che il supporto dato dal regime siriano avveniva perché “ci stavamo concentrando sul nemico comune”, che in quel momento era l’America (e Israele), quindi “le barbe e le spalline erano in una stessa trincea”.
Mahmud al-Naser, un ufficiale dei servizi segreti siriani che ha disertato, ascoltato nel 2016 dal premio Pulitzer Roy Gutman ha dichiarato: “Abbiamo ingaggiato alcuni imam che lavorano per l’intelligence siriana”.
Diab Serriya, imprigionato nel carcere di Saydnaya dal 2006 al 2011, ha raccontato che gli islamisti erano organizzati come fossero in un califfato, c’erano gruppi fedeli agli emiri.
Sui muri della cella avevano scritto slogan e a suo dire il loro obiettivo era chiaro: “Alcuni avevano l’illusione che dopo il loro rilascio, sarebbero andati direttamente a Damasco a stabilire un califfato”.
“Barbe e spalline” militari sembrano tornare nella stessa trincea nel 2011, durante le prime manifestazioni di piazza della Primavera araba siriana, in una fase contraddistinta dalla repressione delle forze governative e dall’arresto di oppositori, attivisti e manifestanti, il regime decide di liberare con una serie di amnistie un migliaio di jihadisti che erano stati arrestati dopo il loro ritorno dall’Iraq.
Questi erano incarcerati a Saydnaya (Damasco) e accusati di salafismo; tra loro diversi esponenti dello Stato islamico tra cui Nadim Balous e Amr al-Absi, e del gruppo islamista Jabhat al-Nusrah come il suo leader Abu Mohammad al-Jolani, l’ideologo Abu Musʻab Al-Suri, Abu Lukman uno dei fondatori, Mahmoud al-Khalif del settore della sicurezza, Haj Fadel al-Agal responsabile delle relazioni sociali, Abu Abdulrahman al-Hamwi emiro nella provincia di Hama, Abu Hussien Zeniah responsabile delle operazioni nel Qalamoun.
1b) Ribelli e salafiti aprono le porte all’Isis.
Ma a prendere per mano jihadisti e islamisti sono alcune brigate dell’Esercito siriano libero (Esl), che con questi si alleano nel comune obiettivo di sconfiggere il regime siriano.
Raqqa viene conquistata dai ribelli il 6 marzo 2013, in un’operazione congiunta tra l’Esl e i gruppi islamisti, Jabhat al-Nusrah e Ahrar ash-Sham. Ma già ai primi di agosto diventa la capitale dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) che rapidamente aveva scacciato le milizie ribelli. Era il preludio di ciò che sarebbe accaduto nella Siria dell’est (Jazirah), allora in mano all’Esercito siriano libero, con i gruppi qai’disti a dividersi la Jazirah.
Anche a Deir ez-Zor, dove fin dall’ottobre 2013 erano in corso scontri tra ribelli ed esercito governativo, le operazioni militari avvenivano con il supporto di Jabhat al-Nusrah. Ma nelle località “liberate” dal regime nelle campagne di Deir ez-Zor non vi era distinzione tra la Nusrah e l’Isis. Ad Abu Kamal ad esempio, la città era controllata dalla Kata’ib Junud al-Haq (Brigata dei Soldati della Giustizia), inizialmente costituitasi come gruppo affiliato alla Nusrah.
Questa brigata era altresì impegnata nel marzo 2013 con l’Esl, nel tentativo di conquista del villaggio di Kabajib, lungo la strada che collega Deir ez-Zor con Palmira.
Ma a maggio 2013 la Kata’ib Junud al-Haq rivendicava la propria autonomia dalla Nusrah affiliandosi all’Isis. E addirittura, nel villaggio di al-Quria (al-Mayadin), in una manifestazione avvenuta il 21 giugno 2013, le bandiere dell’Isis sventolavano accanto a quelle dell’Esl; la stessa cosa accadeva in una manifestazione ad al-Mayadin (14 giugno), con le effigi dell’Esercito siriano libero, degli islamisti di Harakat Ahrar ash-Sham al-Islamiyah e dell’Isis.
In poco tempo la marea nera costituita dalle bandiere del califfato ha sommerso i territori dell’est siriano, che i ribelli avevano strappato alle forze governative.
1c) L’Isis usato come “grimaldello” dal regime.
A fine dicembre 2013, tre potenti alleanze di gruppi ribelli stavano tentando un’offensiva contro l’Isis, gli attivisti l’hanno denominata “seconda rivoluzione”.
Nei primi giorni dell’attacco l’Isis venne espulso dai posti di blocco e dalle loro basi in tutta le provincia di Aleppo, Idlib e Hama. Tre fatti sembravano spostare l’ago della bilancia a favore dei ribelli: la defezione di combattenti siriani dall’Isis, la presa di posizione di Jabhat al-Nusrah contro l’Isis, l’alleanza tra alcuni gruppi dell’Esl e i combattenti curdi.
Durante i sei mesi in cui avvenne l’attacco congiunto, le forze governative siriane non solo si tenevano a distanza non attaccando l’Isis nelle aree a contatto con i suoi territori, ma erano impegnate a bombardare le fazioni ribelli.
Un conoscente impegnato in quella battaglia nei ranghi della Jabhat al-Tahrir al-Furat al-Islamiyya (sotto “l’ombrello” dell’Esl), mi spediva video che mostrava i bombardamenti dell’aviazione di Asad sui villaggi da loro conquistati, quando invece era l’Isis a catturarli i bombardamenti cessavano.
Mi raccontava: “Asad e Da’ish non combattono mai tra loro, quando al-Bab e Manbij sono controllate da Da’ish il regime non bombarda, quando siamo noi a riconquistare le città gli aerei dell’aviazione siriana ricominciano a bombardare. Questa guerra con Da’ish ci impedisce di combattere contro Asad”.
La scrittrice siriana Samar Yazbek è stata testimone di questi fatti, nel 2013 incontra un combattente dell’Esl nello Jebel Zawiyah (Idlib): “Il regime attacca dal cielo con gli aerei, i barili e i missili, questi battaglioni islamisti da terra. La popolazione è allo stremo”.
Per quasi un anno non sono avvenuti scontri tra truppe governative e Isis.
Anche nel 2017 è stato replicato questo modello: Le Forze democratiche siriane (Sdf) hanno accusato il regime e l’Isis di aver raggiunto un accordo a danno delle Sdf, all’indomani dell’annuncio del governo siriano della liberazione di Deir ez-Zor. Il regime avrebbe favorito il trasferimento di mercenari dalle aree confinanti con la città, alle aree in cui erano presenti le Sdf.
Il 18 aprile 2017, le Sdf hanno individuato un convoglio dell’Isis presso Salhiya, stava abbandonando un’area controllata dall’esercito siriano per entrate in un’area controllata dalle Sdf, è avvenuto uno scontro a fuoco e il convoglio è stato bloccato.
È chiaro che questa strategia miope mira a sconfiggere i gruppi di opposizione al regime siriano, i veri nemici, e l’Isis è funzionale alla loro sconfitta.
Il regime di Asad, oltre il campo di battaglia, ha adottato un approccio pragmatico allo Stato islamico, ha intrattenuto rapporti con questo per necessità, fin da subito infatti ha acquistato carburante dalle strutture petrolifere controllate dal califfato, inoltre i due principali operatori di telefonia mobile operavano ancora a Raqqa nel 2015 e inviano ingegneri regolarmente.
Un’amica rientrata dalla Siria e originaria dell’area di Hims, in territorio governativo, mi racconta un fatto confermato da più fonti, i distributori di gasolio della zona forniscono due tipi di prodotto, il “mazut watani” (diesel nazionale) e il “mazut daeshi” venduto a 50 centesimi al litro (diesel raffinato dall’Isis, di qualità più scadente). Tutto è legale e avviene alla luce del sole.
1d) Connivenze turche.
Molto si è scritto del supporto turco dato all’Isis, soprattutto nella prima fase del califfato, quando uomini e Tir carichi di merci e armi passavano il confine tra Turchia e Siria senza alcun controllo. Jihadisti di oltre 100 paesi sono transitati per Turchia spesso indisturbati, e i loro feriti sono stati curati in cliniche private turche. Ahmet el-H., uno dei massimi comandanti dell’Isis e in rapporti col braccio destro di al-Baghdadi, è stato curato in un ospedale di Sanliurfa assieme ad altri miliziani.
Lo stato turco ha pagato per il loro trattamento sanitario. Nell’inchiesta sul traffico di organi della giornalista Lucaroni per l’Espresso (4 ottobre 2017), un soldato peshmerga (milizia curdo-irachena) a cui è stato rubato un rene mentre si trovava in una clinica turca, dice: “(…) Il personale mi ha detto che ci sono stati capi di Da’ish (Isis) e che ho sbagliato a farmi ricoverare lì”.
Nel maggio 2015 il quotidiano Cumhuriyet ha pubblicato dei filmati e documenti che mostravano agenti dell’intelligence turco (MIT) mentre tentavano di contrabbandare armi in Siria, intercettate dalle guardie di frontiera.
Il Guardian nel 2016 ha evidenziato come l’Isis gestiva sofisticate operazioni di immigrazione sul confine tra Turchia e Siria: I documenti sequestrati dalle forze curde datati dicembre 2014-marzo 2015 hanno timbri dell’Isis “dipartimento dell’immigrazione” e “dipartimento dei trasporti”.
Mostrano che i suoi combattenti si sono spostati liberamente attraverso le aree di confine, cosa peraltro confermata dai miliziani stessi, nel 2014 un comandante dell’Isis ha dichiarato al Washington Post: ”La maggior parte dei combattenti che si sono uniti a noi all’inizio della guerra sono arrivati attraverso la Turchia, così come le nostre attrezzature e forniture”.
Ad un certo punto i contatti con l’Isis erano talmente stretti da permettere alla Turchia nel 2015 di entrare con un convoglio militare di carri armati, droni, aerei da ricognizione e truppe di terra, per 37 km all’interno dei territori del califfato per rimuovere la tomba di Suleyman Shah (nonno di Osman I fondatore dell’Impero ottomano nel 1299) da Kara Kusak sull’Eufrate al confine turco.
Il motivo per cui la Turchia ha di fatto dato sostegno all’Isis è che Erdogan non ha mai considerato un problema l’estremismo islamico sunnita, che è stato sostenuto contro i curdi, questi si considerati il vero problema interno dalla Turchia.
1e) I pullman verdi.
Una recente inchiesta della Bbc ha rivelato i dettagli dell’accordo fra le Sdf (con l’avvallo degli Stati uniti) e i combattenti dello Stato islamico lasciati fuggire da Raqqa. L’accordo, arrivato dopo quattro mesi di combattimenti che hanno ridotto la città a un cumulo di macerie quasi priva di persone, avrebbe risparmiato vite e permesso di conquistare la città un mese prima del previsto.
Video girati con i cellulari mostrano i pullman verdi (usati per l’evacuazione di combattenti a Hims e Aleppo), sono parte di un convoglio di 50 camion (di cui 10 carichi di munizioni), 13 pullman e un centinaio di veicoli per il trasporto di 250 combattenti con le loro famiglie verso Abu Kamal.
Questo accordo che ha previsto l’uscita dei miliziani, tra cui pare alcuni foreigh fighters, ha fatto clamore sulla stampa italiana, ma accordi simili sono stati stipulati in precedenza a Tabqah e Mambij quando le Sdf hanno acconsentito affinché i combattenti lasciassero le città assediate. Questa strategia (giusta o sbagliata che sia) rientra nelle cosiddette “dinamiche belliche”.
A Tabqa i negoziati hanno portato al ritiro di circa 70 miliziani dell’Isis, la consegna di armi pesanti e lo smantellamento di tutti i congegni esplosivi. A Mambij era in corso una battaglia terribile costata alle Sdf diversi morti, e l’Isis aveva una discreta base di appoggio. Sono accordi che scandalizzano, ma secondo un’ottica bellica, servono ad ottenere riconquiste più rapide e un minor numero di morti.
La Russia e il regime siriano lo scorso anno hanno accusato gli Usa, che stavano dando copertura all’offensiva su Mosul, di aver lasciato intenzionalmente sguarnito il lato ovest della città affinché i combattenti dello Stato islamico potessero ritirarsi in massa attraverso il confine verso la Siria.
Ma un simile accordo è stato fatto anche dal regime siriano con Hezbollah, con l’avvallo della Russia, quando lo scorso agosto hanno scortato pullman carichi di jihadisti dello Stato islamico con le loro famiglie, dalla zona di Qara (Qalamun) al confine con il Libano fino alle loro roccaforti nella Siria orientale.
Il convoglio di 17 bus (questa volta bianchi) con a bordo 308 combattenti armati e 330 parenti, più 12 ambulanze per i 26 feriti, era rimasto per quattro giorni bloccato nel deserto mentre tentava di raggiungere Deir ez-Zor per l’opposizione degli americani che minacciavano di bombardare il convoglio, criticavano il regime per quest’operazione di trasferimento dei mujahedin.
Hezbollah e il canale Russia Today (RT) accusavano gli Stati Uniti di mettere a rischio la vita di donne e bambini bloccati nei pullman.
Il colonnello dell’esercito americano Ryan Dillon, portavoce della task force a guida Usa, dichiarava alla stampa “l’Isis è una minaccia globale e il trasferimento dei terroristi da un posto all’altro non è una soluzione duratura”, prima di realizzare una simile operazione a Raqqa.
#seguirà la seconda parte