Lo sfruttamento dietro il Made in Europe

Il nuovo rapporto di Clean Clothes mostra lo sfruttamento dietro l’etichetta “Made in Europe”

Di Clara Capelli

Dalle maquiladoras in Messico alla tragedia del Rana Plaza in Bangladesh, dai lavoratori migranti impiegati nelle zone economiche speciali in Giordania alle fabbriche cinesi in Egitto. Il tessile è forse il settore che mostra in modo più intuitivo quanto mobile sia il capitale nel definire una nuova geografia del lavoro a basso costo, che assembla e confeziona per mercati “altri”. Un mondo dove i costi della logistica per trasportare la merce dal luogo di produzione a quello di vendita sono più che compensati dai bassi salari.

Il crollo del Rana Plaza nel 2013 con oltre un migliaio di vittime e duemila feriti ricordò al mondo quanto misere siano le condizioni di lavoro dietro i prezzi contenuti dell’abbigliamento di massa.

L’ondata di indignazione è rientrata e i riflettori si sono spenti, ma rimane diffusa la strategia di marketing di molte compagnie di fare leva sul “made in Europe” come sinonimo di qualità e rispetto dei lavoratori.

L’ultimo rapporto di Clean Clothes, ombrello di associazioni e ONG attive nel campo dei diritti dei lavoratori, rappresenta un utile strumento per esplorare le tante ombre di questa pratica. Europe’s Sweatshops fornisce utili dati e schede sulle condizioni di oltre 1,7 milioni di lavoratori del tessile in Europa centrale e meridionale, con particolare riferimento ai casi di Serbia, Ucraina, Ungheria. Brand italiani e tedeschi che si occupano di ideare il prodotto, lo fanno confezionare a basso costo e lo rivendono con significativo ricarico di prezzo sui mercati domestici e internazionali.

Tutto questo spesso senza curarsi né della sicurezza sul posto di lavoro né della stabilità dei contratti.

In particolare, lo studio mostra che sebbene le retribuzioni mensili siano sostanzialmente in linea col salario minimo dei Paesi che ospitano la fabbrica, tale cifra sia ben al di sotto della soglia necessaria ad assicurare i bisogni primari.

Si crea lavoro ma non si costruisce niente sul territorio, non si trasferisce tecnologia, non si crea potere d’acquisto. E frequentemente queste imprese sono aperte con generosi incentivi e contributi da parte dello Stato recipiente dell’investimento, come nel caso dello stabilimento di Geox a Vranje in Serbia. Senza dimenticare la sorte dei troppo “costosi” lavoratori in Italia o Germania, rimpiazzati da operai più a Est.

 

 

L’indagine di Clean Clothes costituisce una buona occasione per iniziare a comprendere cosa abbia comportato la globalizzazione di molte attività produttive, un fenomeno storicamente non nuovo, ma che si è esasperato negli ultimi decenni.

Fare il punto sul funzionamento di questo sistema economico e sulla distribuzione geografica e sociale di vinti e vintori è quanto mai di cruciale importanza, anche per rendersi conto che non si può praticare consumo responsabile se non ci si interroga anche sulla produzione e sulle condizioni contrattuali dei potenziali acquirenti.

E finché questi saranno pagati con salari al ribasso e occupati in lavori precari, l’abbigliamento confezionato a salari sotto la sussistenza sarà una delle poche soluzioni praticabili. In una corsa al ribasso tra consumo e sfruttamento in tutti gli angoli del globo.