È la fine dello Stato islamico? – 2

Un racconto in due puntate, una visione d’insieme, per non limitarsi sempre all’ultimo frammento

di Alberto Savioli

cliccare qui per leggere la prima parte

2) Un equilibrio mai raggiunto (comprensione del fenomeno):

2a) Il “riassorbimento” dei combattenti dello Stato islamico.

Ma un nuovo fenomeno sta avvenendo e non è possibile prevedere quali ripercussioni possa avere per il futuro, ossia il “riassorbimento” in ambito locale di esponenti e combattenti dello Stato islamico e di altre brigate islamiste.
Ad agosto un comunicato di cui è difficile confermare l’autenticità, ha detto che 100 miliziani di Jabhat Fateh al-Sham (ex-Jabhat al-Nusrah), parte di un convoglio partito dal Libano e diretto a Idlib, si sono uniti all’esercito regolare siriano.

Nel 2016 invece il Syrian Observatory for Human Rights (Sohr) ha dato notizia di un centinaio di combattenti dello Stato islamico che hanno disertato per unirsi alle Sdf nelle campagne di Dei ez-Zor. Il newspaper filo-governativo al-Masdar, ha riferito di combattenti tribali dello Stato islamico disertati alle Sdf nei pressi del campo petrolifero di al-Omar (Deir ez-Zor).

Il canale russo RT ha mostrato i video di un combattente del califfato, Adham al-Nu’imi di Aleppo (probabilmente della tribù Nu’im), ora impegnato in programmi assistenziali tra le fila delle Sdf.

Un tentativo (fallito) di riconciliazione locale si è avuto ad Atarib (Aleppo), aveva l’obiettivo di reintegrare i sostenitori locali dello Stato islamico nella comunità: potevano continuare a vivere nella città se denunciavano il gruppo e smettevano di combattere per questo.

Per comprendere questo fenomeno, forse non dobbiamo guardare alla casacca dei combattenti ma dobbiamo pensare che in questa zona del paese è l’elemento tribale a caratterizzate i rapporti e le relazioni.

Molti disertori dello Stato islamico ad esempio provengono dal clan al-Sheitaat della tribù Aghedaat, che inizialmente si era scontrato con l’Isis, tentando di resistere alla sua avanzata nella campagna nord-occidentale di Der ez-Zor, avevano subito una disfatta nell’estate 2014 con l’uccisione di 700 uomini.

Lo sforzo compiuto dallo Stato islamico per ottenere l’egemonia sulle tribù non ha completamente superato le dinamiche locali e anzi ha alimentato la competizione tra i clan.

Nelle campagne di Deir ez-Zor l’Isis si è avvalso del supporto del clan Bu Kheyr della tribù Aghedaat, nello stesso momento massacrava il clan al-Sheitaat della stessa tribù, che non voleva sottomettersi. Un anno dopo gli al-Sheitaat sono stati costretti ad una pace con per ottenere il perdono, per reimpossessarsi dei loro campi e delle case, e per venire reintegrati nell’Isis.

Per questo motivo, quando si parla di combattenti dello Stato islamico in quest’area, non è di secondaria importanza capire di quale tribù fanno parte e quale sia stata la loro storia.

E infatti, lo stesso regime siriano ha tentato di attirare i membri al-Sheitaat dello Stato islamico, istituendo un programma di addestramento militare a Palmira chiamato Resistenza popolare (al-Muqawama al-Shabiyya) aperto agli al-Sheitaat.

Anche la rivista di propaganda dello Stato islamico, Rumiyah, ha scritto che il regime ha avuto incontri con diversi leader tribali di Deir ez-Zor e Raqqa per formare milizie tribali, seguendo l’esempio delle tribù sunnite che si unirono alle Unità di mobilitazione popolare (Pmu) in Iraq per combattere l’Isis.

Forse in quest’ottica di “riassorbimento” dell’elemento tribale siriano tra le fila dello Stato islamico, in accordo quindi con le comunità locali, va visto il comunicato delle Forze Democratiche siriane (Sdf) del maggio scorso, assicurava la protezione dei miliziani e delle loro famiglie, se si fossero arresi prima della fine del mese. L’accordo è stato poi prorogato su richiesta della popolazione di Raqqa per “concedere questa opportunità al maggior numero possibile di coloro che sono stati ingannati o costretti a partecipare”.

2b) Ex-baathisti con l’Isis e l’opposizione delle tribù.

Nel 2006 in Iraq erano state create le forze sahwa (risveglio), dette anche consigli tribali anti al-Qa’ida, erano milizie sunnite sostenute dagli americani nell’operazione “The Surge”, che aveva lo scopo di sconfiggere l’estremismo con mezzi locali.

Nella provincia di Anbar e in altre aree a maggioranza sunnita, gli americani cercarono di togliere risorse alla base qai’dista, finanziando e armando le tribù contro gli estremisti, queste milizie hanno avuto un ruolo decisivo nella sconfitta almeno parziale del fenomeno qai’dista ad Anbar.

Ma negli anni, il governo iracheno sempre più confessionale del premier Nuri al-Maliki (sciita), il vero responsabile politico del tracollo iracheno, ha provocato un malcontento sunnita che è andato ad alimentare il nascente Isis.

Nel giugno 2014 al-Maliki escludeva la possibilità di formare un governo di unità nazionale al fine di coinvolgere gli arabi sunniti per cercare di frenare l’avanzata islamista. L’invasione di questi territori infatti è avvenuta con pochi scontri, sono state conquiste incruente di città e villaggi, che hanno aperto le porte non tanto all’Isis quanto alle milizie sunnite.

Infatti nei combattimenti nella provincia di Ninawa (Mosul), a sostegno dell’Isis c’era il Jaysh al-Tariqa al-Naqshbandia (noto come l’Esercito dell’Ordine degli uomini di Naqshbandi) al comando di Izzat Ibrahim al-Douri, ex vicepresidente iracheno sotto Saddam Hussein, oltre ad ex ufficiali sunniti baathisti e gruppi tribali della provincia.

La figlia maggiore di Saddam, Raghad Saddam Hussein, in riferimento alla presa di Mosul (10 giugno 2014) dell’Isis si esprimeva con queste parole sul quotidiano al-Quds: “Queste sono vittorie degli uomini di mio padre e di mio zio Izzat al-Douri”!

Ali Hatem al-Suleiman, lo sheikh della tribù Dulaim della provincia di Anbar, vedeva nell’Isis una colpa di al-Maliki, responsabile di aver liberato decine di detenuti dalle prigioni di Abu Ghrain e Badush, ma nello stesso tempo metteva in guardia poiché “all’Isis non può essere permesso di diventare uno strumento per vendicare le ingiustizie dei sunniti perché prima o poi l’Isis brutalizzerà anche i sunniti”.

Se ci sono stati elementi sunniti che si sono appoggiati all’Isis e lo hanno sostenuto, anche in Iraq come in Siria dei gruppi tribali lo hanno invece combattuto strenuamente.

Alle porte della città di Haditha, l’Isis ha chiesto la resa allo sceicco del potente clan Jeghayfa (Dulaim), questi ha risposto “combatteremo fino alla vittoria o alla morte qui ad Haditha”.

L’assedio alla città è stato rotto nel maggio 2016, i Jeghayfa hanno resistito alla conquista per due anni. Questa tribù negli anni ha dovuto lottare con diversi movimenti islamisti (Ansar al-Sunnah, Jaish Muhammad, Kata’eb Thorat al-Ashrin, al-Tawhid wal-Jihad), questi gruppi hanno riempito il vuoto creatosi nel caos post-Saddam. Anche i Jeghayfa come ad esempio gli al-Bu Nimr si erano uniti al movimento “risveglio” (sahwa) contro l’estremismo sunnita.

Nel 2014, subito dopo la presa di Hit, l’Isis ha giustiziato 150 uomini degli al-Bu Nimr (Dulaim), il gruppo si era opposto all’entrata dell’Isis nei loro territori, ma la conquista islamista è stata solo rimandata per il ritardo con cui il governo iracheno ha fornito armi e attrezzature militari. Il governo si rifiutava di armare le tribù sunnite a meno che queste non si unissero alle milizie sciite Hashd al-Shaabi, affiliate alle forze di sicurezza.

Haian Dukhan, un esperto del mondo tribale siriano, si è espresso in questo modo sul ruolo delle tribù: “Le tribù vedono che l’Iran sostiene un regime confessionale a Damasco e a Baghdad. Devono scegliere il male minore tra i due mali. (…) Per molti l’Isis rappresenta un’alleanza di convenienza per il momento attuale, finché non vedranno che un governo a Damasco tiene conto delle loro necessità. (…) Le tribù temono che una volta tornato a controllare il Paese, il governo si vendicherà contro di loro”.

Le tribù sono cruciali nel tessuto della società araba e semplicemente non possono essere ignorate.

2c) Il Dawlat Hajim, il cuore della Siria tribale.

Come Raqqa è stata la capitale siriana dello Stato islamico, così era stata la “capitale” del Dawlat Hajim (Stato di Hajim) uno stato a base tribale sorto sulle rive dell’Eufrate e durato soli due anni (1920-21) a causa di rivalità interne e per l’opposizione dei francesi che avevano ottenuto il mandato sulla Siria.

I notabili di Raqqa firmarono un documento, la “Dichiarazione di Raqqa”, che stabiliva il confine dello Stato: a ovest Jarablus, a nord la linea ferroviaria, a est il fiume Khabur e a sud l’oasi di Sukhnè; un’assemblea rappresentativa della regione diede il comando all’amir Hajim ibn Muhayd della tribù Fed’an con il titolo di leader del Movimento Nazionale, alla base del quale vi era un sentimento anti-coloniale e quindi anti-francese. Dalle forze arabe beduine che combattevano per il re della Siria, Faysal I, questo era percepito come il centro dello Stato, e Raqqa, non Damasco, era sentita come capitale.

Quanto sia ancora attuale questo sentimento, traspare dalle parole di Daham Hadi al-Jerba, a capo delle forze al-Sanadid (inglobate nelle Sdf) e leader della tribù Shammar, sostiene che le tribù non sono un blocco statico e possono facilmente cambiare lealtà: “Non esiste un leader tribale che sostenga l’interesse nazionale e quello del popolo siriano”, per cultura è più radicato il legame “di sangue” e la dinamica locale piuttosto che nazionale.

Ancora più importante quindi, all’indomani del crollo dello Stato islamico, è coinvolgere i gruppi tribali le comunità locali sia che abbiano sostenuto il califfato sia che lo abbiano combattuto, nella creazione delle proprie alternative e soluzioni alle radicate ed errate politiche, confessionali, economiche, sociali e culturali che hanno visto crescere e prosperare i gruppi estremisti.

Ma non ci sono solo le dinamiche culturali, anche i fattori economici sono stati determinati. Allo scoppio della “Primavera araba siriana” (2011) le regioni rurali e urbane del nord-est, i governatorati di Aleppo, Deir ez-Zor, Hasakah, Idlib e Raqqa, erano le più colpite dalla povertà, il 58% dei poveri di tutta la Siria vivevano in queste aree, che hanno aderito alla rivolta e che hanno vuisto il sorgere dei gruppi islamisti.

Il malcontento sunnita cresciuto in questi anni e sfociato per alcuni nel sostegno allo Stato islamico, potrà essere tenuto a bada solo da quei gruppi sunniti che si sono opposti all’islamismo, integrandoli in un governo di unità nazionale e andando incontro alle loro esigenze sociali ed economiche.

Ma questo non è quello che si vede all’orizzonte, né a Damasco né a Baghdad, dove le spoglie dei due paesi per scelte politiche sono tenute in piedi dalle milizie sciite, da Hezbollah e dall’Iran.

Il califfato non esiste più e le bandiere nere hanno smesso di sventolare, ma una nube nera e fosca continua a velare l’orizzonte e il futuro dei territori siro-iracheni.