Catalogna. Time Out o Game Over?

Dall’ottobre catalano al dicembre spagnolo.

di Andrea Geniola

La vicepresidente del governo spagnolo, Soraya Sáenz de Santamaría, che dichiara orgogliosa che è stato il suo partito, il PP, ad aver decapitato l’indipendentismo; un’ammissione dell’esistenza di prigionieri per motivi politici e del parallelo “deficit” nella separazione dei poteri che da settimane si denuncia.

Colei che ostenta la carica di presidente della Generalitat de Catalunya, in seguito alla sospensione dell’autonomia da parte di Madrid, è entrata così in campagna elettorale, presentando il suo partito come meritevole di un cospicuo premio in voti per aver sospeso diritti e averne messi sotto stretta sorveglianza altri in nome della salvezza della patria. Dal canto suo il socialista Josep Borrell, uno dei volti più conosciuti della piattaforma nazionalista “costituzionalista” e unionista catalana (e un po’ troppo trasversale) Societat Civil Catalana, ha sostenuto che prima di ricucire le ferite di questo intervento bisognerà passare per un periodo di sterilizzazione politica, con chiaro riferimento allo strappo indipendentista.

La candidata di Ciudadanos, il maggior partito unionista in lizza, Ines Arrimadas, fa sempre di più appello al voto etnico e castigliano-parlante di origine andalusa e al contempo al paradigma etno-culturale catalano del “seny”, mentre brandisce appelli alla restaurazione del libero mercato minacciato dallo spettro della secessione.

Una giunta elettorale centralizzata d’ufficio a Madrid ha impedito l’uso pubblico dei lacci gialli per la liberazione dei prigionieri politici e financo l’emissione di notizie al riguardo, arrivando a vietare successivamente espressioni come “presidente esiliato”, “consiglieri imprigionati”, “prigionieri politici”, ecc.

Sull’altro versante, quello indipendentista, il candidato alla presidenza di ERC, Oriol Junqueras, è ancora in carcere mentre altri suoi compagni di lista sono esiliati o sotto processo per reati politici, presentati nell’interpretazione della magistratura come “ribellione” e “sedizione”. Lo stesso dicasi anche per Junts per Catalunya (JPC), la lista costruita attorno all’ex presidente esiliato a Bruxelles, Carles Puigdemont. E in queste condizioni le entità sociali indipendentiste hanno fatto appello a un controllo strettissimo del voto nel timore di sbrogli. Frattanto le manifestazioni unioniste sono sparite dallo scenario politico, sostituite da piccoli quotidiani atti degni della più nostrana strategia della tensione.

Insomma, le elezioni per rieleggere i membri del Parlamento regionale autonomo catalano convocate per il 21 dicembre prossimo non sono elezioni normali. Non lo sono a cominciare dal fatto che si celebrano in un giorno lavorativo in cui gli elettori dovranno chiedere un permesso specifico per andare ad esercitare il diritto di voto. A questo si aggiunge il problema logistico per le famiglie con bambini, soprattutto nelle aree metropolitane, di trovarsi le scuole chiuse (perché sede di seggio) in un giorno lavorativo, o per i pendolari che dovranno spostarsi dal posto di lavoro al seggio dove sono registrati.

La scelta del 21 dicembre è forse una delle espressioni più chiare dello stato di relativa emergenza in cui si celebrano queste elezioni.

In seguito al voto referendario del primo ottobre e alle sue condizioni di celebrazione, un poderoso movimento sociale a favore della costituzione di una repubblica indipendente aveva solcato le strade e le piazze della Catalogna. A partire dal referendum, e passando per lo sciopero generale del giorno 3, la costruzione di una repubblica catalana stava prendendo le sembianze di un movimento di massa che, una volta archiviato l’europeismo di fondo, stava assumendo la secessione come un processo di rottura sistemica.

I passi che il governo della Generalitat era tenuto a dare rispetto alla road map elaborata però non sono stati fatti. Il 10 ottobre il Parlament si limitava a una dichiarazione formale, i cui effetti venivano sospesi in attesa dell’apertura di un dialogo che poi non c’è mai stato. Frattanto l’Unione Europea prendeva sempre di più partito a favore della legalità vigente e l’integrità della Spagna. Si arrivava così al giorno scenicamente chiave, e in un certo senso fondazionale, della situazione attuale. Il 27 ottobre il Parlament dichiarava la costituzione della Repubblica di Catalogna e il governo del PP, con l’appoggio di PSOE e Ciudadanos, applicava l’inedito articolo 155 per sospendere l’autonomia catalana, sciogliere il Parlament e convocare nuove elezioni. Questi passaggi possono adesso essere letti con maggiore chiarezza e rendono possibile la formulazione di ipotesi che aiutino a comprendere meglio lo scenario attuale della questione catalana. Tra gli interrogativi che si accumulano alcuni sono specialmente importanti.

 

 

La scansione degli eventi mostra una pressione da parte del movimento di massa costituitosi attorno al referendum (e nello specifico tra l’autorganizzazione per permetterlo e la celebrazione dello sciopero generale passando per la resistenza popolare dinnanzi ai seggi) e un tentativo di aprire un negoziato, tirando il freno a mano degli eventi o proseguendo per inerzia, da parte della Generalitat. In questo senso vanno la mobilitazione in difesa del Parlament circondata da forze di polizia spagnole del giorno 10 di ottobre, l’appello disatteso all’intervento europeo e la sospensione degli effetti del risultato referendario.

Questo stesso scenario si riproduceva il giorno 27 ma con una serie di insolite circostanze. In primo luogo la mancanza assoluta di effettività della dichiarazione della repubblica, a cominciare da elementi simbolici come il mancato ritiro della bandiera spagnola dagli uffici pubblici. In secondo luogo la mancanza di appello alla difesa delle istituzioni fatto da quelle che sarebbero dovute essere le nuove autorità repubblicane. Nel giro di pochi giorni le autorità spagnole hanno (ri)preso possesso dell’autonomia catalana senza che nessun atto di resistenza si producesse. Le possibili spiegazioni sono due, probabilmente complementari.

Da una parte, le autorità catalane non se la sono sentita di produrre uno scenario che avrebbe portato ad una repressione ancor più dura e indiscriminata di quella dell’1 ottobre, e forse dai costi umani più gravosi. Dall’altra, una parte dell’indipendentismo e di quei settori sociali che comunque s’identificano con l’autonomia catalana hanno percepito che in uno scenario di rottura traumatica i costi sociali sarebbero stati inassumibili e che tale situazione avrebbe aperto la porta ad una situazione prerivoluzionaria cui solo la CUP sarebbe stata disposta ad assumere. Ovviamente le dimensioni di questa componente in via di definizione saranno difficilmente misurabili ciononostante è possibile metterne a fuoco alcuni contorni.

Si tratta di ampi settori sociali che hanno avuto il loro battesimo del fuoco a partire dai giorni immediatamente precedenti al referendum e che si sono aggregati attorno ai Comitati di Difesa del Referendum, poi ribattezzati Comitati di Difesa della Repubblica (CDR). Si tratta di una radicalità il cui momento costituente è stato quello della convulsione rappresentata dalla socializzazione pratica dei limiti delle democrazia formale spagnola e, soprattutto, dalla fine dell’illusione europeista; è un dato significativo che oggi quella che era una delle zone tradizionalmente più “europeiste” del continente veda il prestigio dell’UE ai minimi storici.

Quindi, alle origini di questa sorta d’inibizione o inerzia potrebbe esserci questo doppio timore da parte delle classi dirigenti catalane. E financo il tentativo di costruire una sorta di pista di atterraggio a favore di un dialogo diventato poi impraticabile a causa della voglia da parte di Madrid di avere una scusa per mettere finalmente le mani su una “regione ribelle”, non potendolo fare elettoralmente.

Tutto ciò però non spiega tutto il resto. Tutti gli elementi dello scenario dell’ottobre catalano indicano che l’applicazione del 155 sarebbe stata non solo profonda (com’è stata) ma anche lunga e temporalmente indefinita.

Inoltre, con i responsabili politici della Generalitat in carcere o rifugiati a Bruxelles, lo sciopero generale dell’8 novembre riusciva a bloccare il paese. Anche qui, due le letture possibili in parallelo. Da un lato, i CDR (e non più l’ANC od Omnium) mostravano una grande capacità di mobilitazione, organizzazione e controllo del territorio. Dall’altra, le autorità spagnole rinunciavano a contrastare questo controllo come avevano fatto l’1 ottobre, se non altro per evitare di consegnare ancora una volta alla stampa internazionale immagini di vecchiette malmenate, proiettili di “gomma” sparati ad alzo zero e schizzi di sangue sull’asfalto.

Tutto cioè lascerebbe pensare che l’intervento dell’UE abbia avuto un duplice sinigificato. Da un lato che abbia pubblicamente (e platealmente) appoggiato il governo di uno Stato membro mentre dall’altro ha chiesto (e ottenuto) una serie di garanzie politiche da Madrid. Infatti le dichiarazioni ufficiali di quei giorni contengono sempre, oltre all’appoggio a Rajoy anche un secondo elemento più sottotraccia come quello dell’insistenza sull’assenza di violenza. Sebbene le autorità spagnole avessero cercato di minimizzare (ben oltre il ridicolo come nel caso della BBC) le immagini dell’1 ottobre e cercato di accusare l’indipendentismo di essere (anche giudiziariamente) un movimento violento, era evidente a tutti che il messaggio europeo poteva interpretarsi della maniera seguente: noi vi appoggiamo, anche perché ci conviene, ma voi ci garantite una via d’uscita che metta fine a questo scenario d’instabilità politica.

Infatti, ciò che importa maggiormente all’UE è che la Spagna paghi i suoi debiti (politici ed economici) e per far questo la Catalogna non solo non si deve separare ma deve smettere di essere elemento d’instabilità geopolitica. In questo percorso, intestardendosi sulla questione dell’unità della nazione Madrid ha perso ulteriori pezzi di sovranità, essendo oggi un chiaro esempio di Stato sotto tutela e in debito con la diplomazia europea, ma anche israeliana, russa, cinese…

Significativo da questo punto di vista il ritiro dell’Eurorden per Puigdemont e i membri del governo catalano presenti a Bruxelles. La frizione tra le accuse mosse dalla magistratura spagnola e le pratiche garantiste di quella belga stavano mettendo in cattivissima luce la separazione di poteri in Spagna, già sotto il focus di una stampa internazionale a tratti incredula (anche se sempre benevola) rispetto al modus operandi spagnolo.

Leggere sotto questa luce le ragioni della convocazione di elezioni in un intervallo così rapido non ci deve far dimenticare lo stato di autentica “democrazia vigilata” in cui oggi si vive in Catalogna e di disparità evidente tra le due parti in campo.

Se i mezzi di comunicazione spagnoli (pubblici e privati, pari al 70% dello share massmediatico) hanno via libera nella loro informazione unidirezionale i mezzi pubblici catalani (il restante 30% di share) sono oggetto di continue ingerenze; solo una delle evidenti disparità oggi imposte d’autorità. Ciononostante, e a conferma della surreale morbidezza con la quale l’indipendentismo ufficiale ha affrontato la convocazione di elezioni, viene la sparizione degli appelli al boicottaggio e disobbedienza contro il 155. Di certo può trattarsi di una sorta di time-out pragmatico, in cui tutti attendono il risultato delle elezioni, nonostante la mancanza di pari opportunità (o di “normalità” se si preferisce) in cui queste si celebrano.

Difficile non definire queste elezioni come “eccezionali” ma altrettanto difficile sarà proiettarle come “definitive”, proprio per lo stato di “eccezionalità” in cui si celebrano, a cominciare dall’ambiguità stessa con la quale le autorità spagnole e i partiti “nazional-costituzionalisti” e unionisti parlano di un possibile mantenimento sine die del 155 in caso di maggioranza o governo indipendentista.

Dal canto loro le forze programmaticamente indipendentiste non sembrano concordare sul da farsi. Si ha la sensazione che mai come in queste elezioni sarà il risultato a determinare le attitudini politiche delle liste in lizza piuttosto che il contrario. In realtà queste elezioni si stanno celebrando come una sorta di grande plebiscito a favore delle forze unioniste e contro la sovranità catalana. Così appaiono nella maggior parte dei mezzi di comunicazione, pubblici e privati, di fedeltà nazionale spagnola.

E, dato che questi hanno un dominio pressoché totale dello share giornalistico e opinionistico, il clima che si respira a livello formale e ufficiale va in questa stessa direzione. Le forze sovraniste catalane stanno di fatto gestendo queste elezioni in maniera resistenziale, a volte con discorsi ondivaghi e non precisamente chiari e limpidi circa il da farsi. Ben oltre questa semplificazione però esiste una grande complessità accresciuta dall’enorme volatilità del voto e dai risultati imprevedibili di sondaggi che oramai servono a determinare l’opinione dell’elettorato piuttosto che a rappresentarla. E questo accade sia in termini negativi che positivi rispetto ai flussi che potrebbero favorire il cosiddetto “voto utile”.

 

Ma partiamo dalle forze in campo.

Nel fronte unionista, oltre al PP e Ciudadanos, un certo grado di novità è rappresentato dalla lista comune tra PSC-PSOE e Units per Avançar (PSC-PSOE-UPA). Sebbene i socialisti abbiano cercato di smorzare gli effetti di questa alleanza pescando in tutto l’arco unionista di sinistra, soprattutto attorno al gruppo Federalistes d’Esquerres e alcuni ex Podemos, il progetto politico che offrono si presenta come il tentativo di recuperare tutti i cocci di un antico catalanismo autonomista in crisi, oramai senza base sociale reale quando non viene appoggiato strumentalmente dall’unionismo in stato puro. La lista socialista è fortemente determinata da due fattori, entrambi fonte di voti una volta perso il 50% dell’elettorato, in parte verso Ciudadanos in parte verso ERC. Il primo è quello che la spinge a recuperare voti nel campo unionista, l’unico possibile dopo l’appoggio al 155.

Il secondo è il tentativo di accaparrarsi i voti andati alle ultime elezioni alla liquidata UDC, di cui UPA è erede diretta. Si tratta di una formazione democristiana, favorevole alle scuole private che separano i bambini per sesso tra le altre cose. La proposta social-democristiana si concentra sull’obiettivo della rifondazione dell’autonomismo attraverso la fusione a freddo delle due tradizioni politiche che dal 1980 al 2012 avevano rappresentato il sistema bipolare catalano; di fatto si tratta di un’alleanza tra quello che resta dell’epoca politica precedente, nella fusione tra socialdemocrazia in crisi e post-pujolismo anti-indipendentista.

La via d’uscita proposta dai social-democristiani è quella di un ritorno allo Statuto di Autonomia già sfoltito dal Tribunal Constitucional nel 2010. Nel fronte unionista il partito più votato sarà quasi certamente Ciudadanos, se non altro perché rappresenta un voto “nuovo” a un partito che non ha mai governato, rispetto a popolari (accusati di lassismo fino ad oggi e colpiti da una corruzione sistemica) e social-democristiani (poco vendibili come “il nuovo”). Ma in questo il partito della Arrimadas capitalizza il fatto incontestabile di essere nato come forza anti-catalanista e aver fatto dell’unionismo il suo vero e unico tratto distintivo.

Anche nel fronte indipendentista ci giocano diverse partite parallele. Tra queste c’è senza dubbio quella per l’egemonia ideologica tra liberal-laburisti e liberal-democratici. Fino a questo momento è parso a tutti che la corrente indipendentista del post-pujolismo fosse sovra-rappresentata e che il timone della secessione dovesse essere preso da forze di sinistra, maggioritarie nell’indipendentismo. ERC, che non ha voluto accettare una riedizione della lista indipendentista unitaria con il PDECat, è accreditata come la forza politica più votata assieme a Ciudadanos, secondo la media dei sondaggi.

I repubblicani hanno aggregato gran parte degli indipendenti dell’antica Junts pel Sí, alcuni dei quali ruotavano già attorno al partito; tutta la diaspora proveniente dai settori catalanisti del PSC-PSOE (MES, Avançem, ecc.) è entrata nelle liste di ERC. Inoltre la corrente indipendentista della vecchia UDC, Demòcrates de Catalunya, pure si è incorporata nella lista repubblicana. Dal canto loro gli indipendentisti post-pujolisti del PDECat (exCDC) hanno delegato a Puigdemont la costruzione di una lista trasversale presidenziale, Junts per Catalunya (JPC). Questa, ha agglutinato tutta quella parte della società civile che aveva creduto in una soluzione morbida e negoziata sotto gli auspici dell’UE e che oggi appare quantomeno disorientata.

Partita maluccio nei sondaggi, ferma a quel 13% che era stato il patrimonio elettorale di CDC nelle ultime elezioni spagnole, JPC è andata rosicchiando voti ad ERC, soprattutto grazie alla presenza mediatica dell’ex presidente garantita dalle reti sociali e tutta la vicenda dell’esilio a Bruxelles; presenza che Junqueras non ha potuto avere a causa della carcerazione preventiva cui è sottoposto. Nessuno dei due partiti ha voluto (o saputo) concretizzare cosa vorrà fare stavolta con i voti che otterrà, oscillando entrambi tra l’apertura di un negoziato, l’abbandono della via unilaterale o il ritorno ad essa…

Ovviamente, in questo ha pesato la minaccia penale sui candidati repubblicani, alcuni in libertà sotto cauzione, altri in carcere o in esilio. Una situazione che non aiuta alla chiarezza programmatica, o forse in alcuni casi addirittura la sconsiglia. Quello che sembra giocarsi invece i due partiti, oltre all’egemonia nel campo indipendentista, sembra essere il loro stesso consolidamento come i due grandi partiti di centro-sinistra e di centro-destra (rispettivamente) di fedeltà nazionale catalana. Nel caso di ERC sembra oramai in dirittura d’arrivo la sua definizione come il grande partito centrale del liberal-laburismo catalano. In quello del PDECat la questione appare molto più complessa.

Dopo lo scioglimento della coalizione CiU e la trasformazione di CDC nel nuovo partito, il processo non sembra aver avuto grandi risultati. Queste elezioni rappresentano quindi per il catalanismo liberal-democratico l’opportunità di ricostruirsi attorno alla battaglia per l’amnistia, il ritorno degli esiliati e la restaurazione dell’autonomia, prima che attorno a un programma secessionista integrale o realizzabile nel medio periodo. Nella trasversalità e nella difesa degli interessi della Catalogna, che sono gli assi di JPC, il PDECat potrebbe trovare la via per portare a termine una (ri)fondazione che tuttora pare essere incompiuta.

 

 

Differente la partita che giocano la CUP e Catalunya En Comú-Podemos (CEC), due maniere distinte di vedere la rottura rivoluzionaria, la sovranità, la disobbedienza e di leggere l’attuale fase politica. La CUP è l’unica lista che scommette per la sovranità totale e l’uscita dall’UE nel processo di costruzione di una repubblica indipendente. In questo percorso ha intercettato differenti movimenti che dal primo ottobre in poi hanno fatto la scelta di campo della secessione. Tra questi Procés Constituent (il movimento da cui proviene il candidato presidente di CEC, Xavi Domènech), Som Alternativa (la metà critica di Podem che non è entrata in CEC) e numerosi settori di base dei CDR in progressiva fase di maturazione.

La scommessa della sinistra indipendentista si gioca tutta sul recupero dell’accelerazione rappresentata dai momenti di scontro e rottura addensatisi da settembre a ottobre. Rallentata o ritardata a causa delle paure delle classi dirigenti la rottura, che non potrà che essere traumatica e anti-UE, va immediatamente riattivata secondo la sinistra indipendentista. Per questo motivo la CUP solo entrerebbe in un governo che attivi la secessione repubblicana e un processo costituente, stavolta anche accettando responsabilità dirette di governo. Dal canto suo CEC ha cercato di ritagliarsi uno spazio di “equidistanza” tra il partiti anti-indipendentisti sostenitori dell’applicazione del 155 e la dichiarazione della repubblica. Nel suo programma, il ristabilimento dell’autonomia pre-155, la libertà dei prigionieri politici, un governo progressista per la Generalitat e l’apertura di un processo di riforma della Costituzione spagnola che incorpori il diritto all’autodeterminazione.

La dimensione del progetto è tale che la sua realizzazione sembra essere oggi più utopistica della secessione stessa, essendo necessari i due terzi delle camere spagnole solo per avviarlo.

 

 

Molte, moltissime, le incognite di queste elezioni. Innanzitutto la partita si gioca tra blocco unionista e blocco indipendentista.

Una vittoria del primo significherebbe che la società catalana ha avallato l’applicazione del 155, la repressione politica e il ritorno nell’alveo di un’autonomia comunque da rinegoziare. Una vittoria indipendentista rappresenterebbe una conferma delle precedenti decisioni istituzionali prese dalla Generalitat nei due anni precedenti. Nel mezzo i voti raccolti da CEC saranno interpretabili, a seconda dei casi e dei consensi che questa raccoglierà, come una diga contro il blocco del 155 ma anche come una rete di contenzione contro l’opzione secessionista. In secondo luogo, si gioca una battaglia politica interna ai blocchi stessi per l’egemonia ideologica ma che avrà delle conseguenze indirette anche sull’importante vittoria simbolica per quale sarà la lista di maggioranza relativa tra ERC e Ciudadanos.

Le ultime tendenze nei sondaggi del voto, in un momento in cui questi sono sempre meno affidabili, assegnano un testa a testa tra questi due partiti con una tendenza favorevole ai secondi. Infatti nonostante gli sforzi profusi dal PSC-PSOE-JPA solo una piccola parte dei voti socialisti ritornerebbe a casa mentre il PP verrebbe letteralmente cannibalizzato dalla rampante candidata di Ciudadanos. In una tendenza contraria si starebbe orientando l’appoggio a ERC. Questa perderebbe voti a favore di un recupero da parte di JPC, che sta capitalizzando la rivendicazione della legittimità del presidente destituito.

Se il “voto utile” unionista sta andando a Ciudadanos non è ancora del tutto sicuro quindi che il “voto utile” indipendentista” vada a parare tutto ad ERC. Mentre la dialettica tra CUP e CEC vive di una dinamica di chiarificazione/distinzione tra sinistra alternativa di riforma e sinistra anticapitalista di rottura. La posizione di CEC sembra avere tutte le caratteristiche di un neo-processismo, ovvero della tendenza ad eternizzare una situazione di negoziato senza via d’uscita nella speranza di poter guadagnare progressivamente consensi elettorali e quote di potere per realizzare un programma sociale keynesiano-riformista. Secondo la CUP invece l’unica via di recupero della sovranità popolare è la secessione costituente.

Oltre i sondaggi elettorali, più o meno “cucinati”, ci sono però gli studi sulla partecipazione e le incertezze di un voto volatile ed estremamente sensibile a traumi e tensioni, e financo a decisioni dell’ultimo momento.

A quanto pare una forte partecipazione, oltre quella già storica di due anni fa, modificherebbe in maniera sostanziale le tendenze elettorali consolidate a partire dal 2010, almeno dal punto di vista della lettura in chiave indipedentismo/unionismo delle elezioni. Facendo una stima sulla base delle elezioni del 27 settembre 2015 e la partecipazione dell’1 ottobre l’indipendentismo otterrebbe la maggioranza assoluta di voti o seggi solo con una partecipazione, comunque altissima, attorno al 72-73%.

In nessun caso l’unionismo otterrebbe la maggioranza assoluta, essendo la posizione di CEC contraria al 155 e (almeno formalmente) propensa all’autodeterminazione. Queste elezioni metteranno alla prova la forza elettorale dell’unionismo piuttosto che quella dell’indipendentismo. Se sul terreno della mobilitazione di massa l’indipendentismo è più forte dell’unionismo questo può contare su altri punti di forza. Se infatti all’indipendentismo è necessaria una grande e continua mobilitazione per spostare l’asse politico all’unionismo basta fare in modo che l’avversario non vinca, e così garantire lo statu quo e mostrare alla comunità internazionale che, nel fondo, i catalani quest’indipendenza non la vorrebbero affatto.

È l’antica dialettica tra costruttori di alternative e sostenitori della conservazione. Me nel caso catalano attuale c’è un dato in più, che ha fino a questo momento reso invisibile la portata dell’unionismo, anche agli occhi stessi di un indipendentismo che si è creduto anche numericamente egemonico. Quella dell’indipendentismo è un’egemonia sociale profonda, articolata attraverso un associazionismo molto capillare. Vi è stata una sovrapposizione tra associazionismo civile e indipendentismo che ha dimenticato tutta quella fetta di popolazione che non partecipa attivamente alla vita civile, associativa, al dibattito politico e, diciamocelo, nemmeno alle lotte sociali in difesa del welfare.

Questa componente è entrata in gioco solo nel momento in cui i mezzi di comunicazione di riferimento l’hanno chiamata in causa, suonando la carica in difesa della nazione spagnola e agitando lo spettro della caduta di un benessere già pregiudicato dalle stesse politiche statali. Se questa è una “maggioranza silenziosa” o invece una “minoranza sediziosa” lo sapremo a breve. Ma sarà difficile che questa parte della società catalana si mantenga mobilitata con continuità come ha fatto finora l’indipendentismo. E questo soprattutto perché l’unionismo appare al momento carente di progettualità politica, sempre che non “compri” la via d’uscita proposta de CEC, cosa che non sembra essere all’ordine del giorno.

Un altro fattore di cui tenere conto è quello dell’investimento economico che c’è dietro ad ogni partito in lizza. CUP e CEC sono gli unici due partiti che non dipendono dal finanziamento delle banche e quindi libere da queste, e sono anche i partiti che meno spenderanno in queste elezioni: rispettivamente 430.000 e 790.000 euro. In testa alle spese Ciudadanos, con ben 2.100.000 euro, quantomeno strano per un “partito nuovo che vuole lottare contro lobby e corruzione”. ERC, PP e social-democristiani e PDECat spenderanno rispettivamente 1.800.000, 1.740.000 e 1.400.000 euro.

Il blocco dotato di più budget è quello unionista, che spederà il 60% del totale delle spese elettorali stanziate. La sera del 21 dicembre si scioglieranno solamente una parte ridottissima dei dubbi che, in definitiva, oggi più che mai dipendono dallo stato di eccezione e democrazia vigilata oggi in vigore nella Catalogna spagnola.