Il voto dei catalani: restaurazione democratica e diritto all’autodeterminazione

Le elezioni e il senso delle stesse

di Andrea Geniola

Il voto dei catalani ci ha riconsegnato due maggioranze concentriche e potenzialmente convergenti: una maggioranza parlamentare indipendentista (Junts Per Catalunya, Esquerra Republicana de Catalunya e Candidatura d’Unitat Popular) con 70 seggi su 135; una parlamentare e percentuale a favore del diritto all’autodeterminazione di 78 seggi e il 56% dei consensi.

Nonostante lo stato di eccezionalità e l’altissima belligeranza con la quale istituzioni e mass-media hanno sostenuto le opzioni unioniste, i partiti contrari all’autodeterminazione sono stati sconfitti.

Oggi sappiamo che l’unionismo ha raggiunto il suo tetto elettorale e che questo è rappresentato da un 43,5% dei voti, che si articola in una rappresentanza parlamentare di 57 deputati su 135.

All’indomani dell’importante appuntamento elettorale possiamo affermare che la maggioranza sociale dei catalani, per come questa si è espressa elettoralmente, è a favore dell’autodeterminazione e contraria all’imposizione della sovranità spagnola mentre l’unionismo, pur essendo una forza importante, rappresenta una minoranza, più o meno “silenziosa”.

Se queste elezioni erano state convocate come un plebiscito a favore dell’applicazione dell’articolo 155 e delle iniziative (giudiziarie, politiche e poliziesche) contro “la minaccia della secessione” i catalani hanno mandato un messaggio chiaro contro queste scelte, l’ennesimo.

Oltre questa valutazione generale è però necessario farne altre, di uguale importanza. In primo luogo la vittoria indipendentista non rappresenta un viatico chiaro e definitivo a favore della secessione.

Ciononostante, il 56% sovranista e il 47,5% indipendentista all’interno di questo, ottenuti sull’81,9% del censo elettorale, rappresentano una massa critica di enormi proporzioni rispetto alla minoranza unionista mobilitata non già attorno ad un progetto politico concreto bensì in nome della difesa dello statu quo stato-nazionale al di sopra di qualsiasi altra cosiderazione. In secondo luogo, la battaglia interna ai blocchi l’hanno vinta le opzioni più a destra dei rispettivi raggruppamenti nazionali, anche se non “a destra” con la stessa intensità.

Tra gli unionisti hanno vinto gli ultra-liberisti nazionalisti spagnoli di Ciudadanos in maniera chiara, con ben dodici
punti percentuale sulla lista social-democristiana.

Tra gli indipendentisti la lista trasversale (ma ideologicamente liberale) del presidente destituito ha avuto la meglio per soli 12.000 voti su ERC. Interessante l’articolazione ideologica interna dei due blocchi. Nel blocco unionista 40 seggi vanno a destra o centro-destra e solo 17 all’alleanza tra socialisti e democristiani. Nel blocco indipendentista 34 seggi vanno al centro-destra (JPC) e 36 alle sinistra, anche se in questi 36 c’è una grande varietà; 4 sono della CUP e tra i 32 di ERC vanno considerati i cristiano-sociali di Democràtes de Catalunya.

Diciamo che la catalogazione “a sinistra” di ERC e PSC è in queste elezioni discutibile, proprio per la presenza nelle loro liste di candidati di tradizione ideologia democristiana. Ne consegue che, in terzo luogo, sia estremamente complicata una definizione “a destra” o “a sinistra” delle liste in lizza e quindi capire se il nuovo Parlament sarà progressista piuttosto che conservatore.

Tenendo comunque a mente la presenza di sensibilità democristiane o cristiano-sociali tra socialisti e repubblicani e quella di personalità progressiste all’interno della lista di Puigdemont, potremmo dire che 61 deputati sono variamente progressisti e 74 variamente conservatori. Ciononostante, risulterebbe poco aderente alla realtà fattuale mettere sullo stesso piano ideologico o di attitudine sociale partiti come Ciudadanos e il PP, da una parte, e JPC, dall’altra.

Allo stesso modo, sull’altro versante, non sono comparabili le agende sociali radicali di CUP e Catalunya En Común-Podem (CEC) con la cultura, di fondo laburista, di repubblicani e socialisti. Quello che sì appare però chiarissimo da queste elezioni è il maggior pluralismo interno all’indipendentismo rispetto all’unionismo.

Questo pluralismo politico merita un’analisi dei risultati dal punto di vista dell’evoluzione del voto rispetto ai precedenti appuntamenti elettorali.

L’altissima partecipazione è il segno della discesa in campo di quel voto d’ordine che si è mobilitato per difendere l’unità nazionale spagnola ma che solo in parte si converte in mobilitazione sociale, partecipazione civile quotidiana o progettualità riformista o trasformatrice.

Rispetto alle elezioni del 2015 l’indipendentismo perde lo 0,3% ma guadagna voti mentre l’unionismo ne guadagna il 3,6%. A perdere davvero queste elezioni sono state le opzioni “estreme” e quella che non ha voluto definirsi tra indipendentismo e unionismo. Nel primo caso escono fortemente ridimensionate la CUP e il PP, anche se con conseguenze e ragioni affatto comparabili, e che dovranno condividere uno scomodo gruppo misto in parlamento.

La CUP passa dall’8,2% (10 seggi) al 4,5% (4 seggi). L’organizzazione che ha spinto più di tutte per la celebrazione del referendum, la dichiarazione della repubblica e la mobilitazione sociale in sua difesa viene profondamente ridimensionata dal voto, ben al di sotto di previsioni e aspettative. Ciononostante, i suoi 4 deputati saranno comunque imprescindibili per eleggere governo e presidenza e per garantire la maggioranza indipendentista in parlamento.

Inoltre, il risultato del 2015 fu un caso di sovrarappresentazione dovuta al contesto elettorale. L’ingresso di ERC nella coalizione Junts pel Sí permise alla CUP di raccogliere tutto il voto di sinistra contrario a una coalizione egemonizzata dalla vecchia CDC.

Per questa ragione il raffronto andrebbe fatto con le elezioni del 2012, quando la CUP ottenne il 3,4% con una partecipazione di molto inferiore a quella di oggi, del 67,8%. Opposta la situazione del PP. Il partito che ha governato d’ufficio la Generalitat in questi due mesi ha ottenuto i peggiori risultati della sua storia, ultimo partito parlamentare, con il 4,2% e 4 seggi; ne perde 7 rispetto al 2015 e 15 rispetto al 2012.

Un risultato ben al di sotto delle più nere aspettative, stimate attorno ai 7 deputati. Il partito che governa a Madrid e che ha applicato l’articolo 155 è oggi una forza residuale, ai margini dell’irrilevanza, in Catalogna.

Ancora differente il profilo della sconfitta di CEC. Il partito erede della coalizione che aveva avuto più consensi alle ultime elezioni spagnole in Catalogna (espressione del movimento politico della sindaca di Barcellona, Ada Colau, e appoggiato da Podemos) non riesce nemmeno a confermare i voti della lista di cui era erede e supera al ribasso le più nere aspettative della vigilia.

CEC ottiene il 7,4% (8 seggi) contro l’8,9% (11 seggi) del 2015; il peggior risultato dal 2003 dell’area politica della sinistra alternativa e rosso-verde erede in qualche maniera della tradizione del comunismo catalano, quando ICV ottenne il 7,3% (9 seggi).

Un risultato che rappresenta un pessimo viatico per le ambizioni politiche di un partito che fino alla vigilia aspirava a governare la Catalogna e forzare Madrid a una riforma federalista della Costituzione che potesse includere il diritto di autodeterminazione e derivare in un referendum accordato.

La vittoria di Ciudadanos come partito di maggioranza relativa, con il 25,4% (36 seggi), ne fa il partito di riferimento dell’unionismo, ben al di là delle più rosee aspettative che gli assegnavano 32 deputati. Nonostante i festeggiamenti in grande la notte delle elezioni, in cui la candidata Ines Arrimadas è stata acclamata come futura presidente della Generalitat, Ciudadanos non potrà governare i catalani senza ulteriori applicazioni del 155.

Per quanto concerne i social-democristiani di PSC-PSOE-UPA, la giocata fatta dai socialisti d’integrare i democristiani ha sortito l’unico effetto di recuperare i voti che questi avevano ottenuto nel 2015 ma che non gli permisero di entrare in parlamento. Il partito che nel 1999 aveva ottenuto il 37,8% (52 seggi) e che partiva dal peggior risultato della sua storia ottenuto nel 2015 (12,7%, 16 seggi) oggi ha un peso pari al 13,9% (17 seggi). Ciudadanos non solo ha cannibalizzato il PP ma anche il voto socialista in difesa della nazione spagnola e che il PSC non è riuscito a recuperare.

Sul fronte indipendentista la differenza di voti tra JPC ed ERC è in sé irrisoria: un 21,7% (34 seggi) contro 21,4% (32 seggi), che si sostanzia in 32.000 voti di differenza. Però il suo valore politico è notevole e rappresenta la contrazione della crescita dei repubblicani e sancisce una tappa importante della rifondazione dell’indipendentismo post-pujolista.

Presentatesi assieme nel 2015 nella coalizione Junts pel Sí l’unico raffronto possibile è quello con le elezioni del 2012, quando ERC ottenne il 13,7% (21 seggi), e quelle spagnole del 2016 quando ottenne il 18,17%. Nonostante la notevole crescita, le aspettative di voto dei repubblicani erano molto più alte, dell’ordine dei 35 seggi. Stesso discorso, anche se in senso contrario, per quanto riguarda JPC.

Impossibile il raffronto con le elezioni del 2012, quando la disciolta CiU ottenne il 30,7% (50 seggi), bisogna andare alle elezioni spagnole del 2016, quando CDC ottenne il 13,92%; questi i voti di cui era accreditata all’inizio della campagna la lista guidata da Puigdemont. In questo scenario il fatto che JPC abbia superato ERC e superato il tetto di aspettative di 32 deputati mette sul tavolo la restaurazione di Puigdemont come presidente ma soprattutto, a livello partitico, pone le basi per la ricostruzione trasversale del PDECat come il “grande partito delle sovranità”, qualcosa di molto simile in termini strategici al progetto della Casa Gran del Catalanisme lanciato da Artur Mas nel 2007 e rimasto sostanzialmente sulla carta.

Con il candidato di ERC (Junqueras) in carcere accusato di “ribellione” e “sedizione” Puigdemont ha goduto di mano libera ed enorme visibilità, anche internazionale, dall’esilio belga, contribuendo a mettere in discussione la credibilità della separazione di poteri in Spagna e l’indipendenza della magistratura, usata in queste settimane come un’arma da parte dello Stato per combattere l’indipendentismo. Se Ciudadanos non potrà costruire alcuna maggioranza democratica proveniente dal voto del 21 dicembre toccherà con tutta probabilità a JPC proporre un’alternativa.

La questione della governabilità sarà infatti chiave nelle prossime settimane. È possibile che le autorità spagnole ritornino sulla strada dell’uso del 155 in caso di assenza di una maggioranza di governo. Di fatti, potrebbero semplicemente procrastinare sine die la consegna di poteri tra gestione commissariale e nuovo mandato democratico.

La ragione di fondo è ovviamente quella che a Madrid e alle forze unioniste non piace quello che i catalani hanno espresso attraverso il loro voto. Quindi alla lista del presidente destituito starebbe interpretare il voto come una reintegrazione delle istituzioni catalane sospese dal governo spagnolo. Le possibilità politico-aritmetiche sul terreno sarebbero tre. La prima, un nuovo governo indipendentista costituito da JPC, ERC e CUP. Sotto questo aspetto però l’accordo non pare essere poi così facile.

Non è un caso che i primi due partiti abbiano affrontato le elezioni separatamente ma soprattutto i 4 seggi della CUP sono legati a un’agenda molto chiara e rigida: attivazione della dichiarazione d’indipendenza, costruzione della repubblica e processo costituente. Un’agenda che durante la campagna elettorale è entrata in contraddizione spesso con gli ondivaghi appelli al dialogo di JPC ed ERC.

La seconda, una nuova stagione di dialogo che farebbe rientrare in gioco CEC sostituendosi alla CUP. Questa ipotesi sembra lontana dato che il candidato dei “comuns” (così vengono chiamati i membri del movimento) ha più volte dichiarato che non avrebbe votato Puigdemont come presidente.

Ciononostante, nel momento in cui Puigdemont ha sospeso gli effetti del referendum, durante la seduta parlamentare del 10 ottobre, si è potuta notare una certa complicità con questi ambienti sulla linea di un non meglio definitivo “dialogo”. Cosa che farebbe pensare che lo stesso Puigdemont vedrebbe di buon occhio un alleato meno scomodo rispetto alla CUP e soprattutto non in concorrenza sul piano dell’indipendentismo. Una terza possibilità potrebbe essere quella di un governo di minoranza guidato da Puigdemont con accordi a geometria variabile a seconda dell’agenda politica. In questa prospettiva JPC potrebbe appoggiarsi a ERC e la CUP sul versante nazionale e su ERC e social-democristiani su quello delle politiche sociali.

Dipendendo dal grado di volontà sovranista che il nuovo governo catalano metterà in campo e dalla sua legiferazione in materia dipenderà (e il PP l’ha già ribadito) una nuova applicazione del 155, che sembra essere entrato nelle relazioni tra Barcellona e Madrid per restarci.

Se Puigdemont ha chiesto l’apertura di un dialogo e un incontro con Rajoy in campo neutro, a causa del mandato di arresto tuttora attivo su territorio spagnolo, questi ha risposto sfidando il presidente destituito a rientrare in Spagna per essere investito. E qui troviamo un’altra possibile chiave per comprendere le prossime mosse.

È senz’altro vero che gli indipendentisti hanno la maggioranza assoluta dei seggi ma è anche vero che le investiture di giocano sul filo dei voti e in seconda convocazione sono sufficienti maggioranze semplici. Una serie di deputati eletti sono oggi in carcere mentre altri in esilio, tra cui lo stesso papabile presidente Puigdemont.

Insomma, non è chiaro in questo momento se un certo numero di futuri deputati potranno prendere effettivamente possesso dei loro rispettivi seggi e svolgere una normale attività parlamentare, il che potrebbe alterare in maniera artificiale ed antidemocratica le maggioranze espresse dagli elettori e i lavori parlamentari.

Inoltre è di questi ultimi giorni l’annuncio da parte della magistratura dell’allargamento delle indagini della causa per “ribellione” e “sedizione” ad altri quaranta rappresentanti politici e parlamentari senza responsabilità dirette di governo.

Non mancano ovviamente le implicazioni statali del voto catalano, dove l’unico partito vittorioso è proprio Ciudadanos, adesso pronto a dare l’assalto alla maggioranza popolare a Madrid. Sconfitti, e pesantemente, tutti gli altri; il PSOE perché appiattito sulle posizioni del PP, questi perché annullato in Catalogna e Podemos perché senza supporto sufficiente proprio nel suo principale bacino di voti, o presunto tale.

Il futuro del progetto dei “comuns” e di Podemos, così fondato com’è sulla riforma costituzionale, esce da queste elezioni con un forte ridimensionamento che potrebbe lasciar presagire l’inizio di un declino generale. Podemos ha coraggiosamente difeso a livello statale la celebrazione di un referendum accordato, pagando un prezzo dinnanzi all’opinione pubblica spagnola, ma le sue posizioni “equidistanti” sul campo in Catalogna non hanno sedotto l’elettorato indipendentista di sinistra e nemmeno quello unionista federalista.

Insomma, non pare esserci all’orizzonte né un dialogo né tantomeno una soluzione ordinata dalla questione. L’orizzonte di un referendum accordato e di una riforma federale della costituzione si allontana a causa della debolezza elettorale dei loro stessi fautori.

Altrettanto improbabile sembra la via d’uscita di un’autonomia fiscale che possa accontentare l’indipendentismo centrista e laburista, perorata in campagna dallo stesso candidato del PSOE-PSC-UPA. Una volta concessa l’autonomia fiscale alla Catalogna, lo Stato dovrà pur ripianare questo deficit e potrà farlo solamente attraverso un sostanziale ridimensionamento dell’autonomia fiscale basco-navarra, che è precisamente uno degli obiettivi di Ciudadanos a livello statale. La permanenza dei baschi in Spagna è legata a doppio filo al riconoscimento dell’autonomia fiscale, molto di più che a questioni linguistiche, culturali o storiche.

Insomma, la negazione di una soluzione negoziata in Catalogna si è convertita in una necessità per Madrid, per evitare danni maggiori all’unità della patria. Ma questa stessa strategia rischia di avere conseguenze negative sul lungo periodo per il progetto nazionale spagnolo.

Sarebbe comunque errato dare una lettura unicamente elettoralistica di queste elezioni, così dominate dal voto utile (verso Ciudadanos o verso il presidente destituito) e dalla paura per una vittoria di uno dei due blocchi, e che ha certamente pregiudicato le opzioni con un progetto politico più definito o strutturato, di contenuto sociale, CUP e CEC in primis. Quella elettorale può essere un’espressione ma non la sola di un processo politico in corso.

La Spagna, come progetto politico nazionale, ha perso legittimità in Catalogna. E il voto del 21 dicembre ha certificato, con la sua enorme partecipazione, l’espressione elettorale di un plebiscito quotidiano che ha decretato un ridimensionamento forse irreversibile della nazione spagnola in Catalogna come progetto inclusivo. Una partecipazione dell’81,9% rappresenta un patrimonio di legittimità di molto superiore al 42,61% con cui è stato eletto l’attuale parlamento europeo (45,9% nella circoscrizione spagnola) o al 66,48% delle elezioni politiche spagnole del 2016.

Ma nei prossimi tempi sarà fondamentale la partecipazione popolare diretta, la mobilitazione civile e la dinamica di crescita politica di ampi strati di popolazione. Il 47,5% dei voti può non essere interpretabile come un avallo alla secessione ma rappresenta una massa critica più che sufficiente per costruire un nuovo progetto stato-nazionale.