Com’è profondo il lago #3

Tabula rasa romantica bucolica

di Matteo Spertini

Tzetzerleg, Mongolia

Il chai scuro con burro di yak e sale, senz’offesa ai locali, non è esattamente la mia passione.
Ho aspettato per tutta la mattina nella bufera un fottuto passaggio. Poi il venditore di pelli che è seduto dentro a questa bettola mi ha raccattato, con un ampio sorriso entusiasta e curioso.

Me la immaginavo più fredda la steppa nel nevischio. Viaggiando sul camioncino cinese del mio salvatore ho visto decine di bambini, nei pascoli ai lati della strada, a cavallo dentro i loro deel – gli abiti tradizionali – radunare le greggi in una pastorizia abbastanza romantica da lasciarli crescere analfabeti.

Insomma il mio ospite, sua moglie ed io, siamo seduti a un tavolo di questa bettola con il pavimento di terra battuta. Il menù prevede carne di montone cucinata in tutti i modi tranne quello igienico.

Un sorriso ironico mi campeggia in viso ogni volta che immagino un ispettore ASL italiano capitare in uno di questi locali per un improbabile controllo, alla maniera che si usa da noi poveri di anticorpi. Credo che dovrebbero ricoverarlo subito dopo, questo poveraccio!

A Kharakhorin ho dormito in una jurta adibita per i turisti. Quattro euro cena, letto, stufa accesa, doccia, colazione. La doccia era rotta e mi ha consentito di battere un nuovo record di tempo senza lavarmi completamente.
Tzetzerleg – dove un francese trovato su couchsurfing mi aspetta – è piuttosto vicina ma lo stato delle strade, quando ci sono, rende i viaggi interminabili e scomodi.

Facendo l’autostop, con il mio solito sorriso idiota, identico in tutti gli stati abbia bisogno di un passaggio, le auto di strada si fermano a chiedermi quanto gli offro, per farmi portare laggiù. Si propongono di accompagnarmi apposta, a costo di ritornare vuoti. Duecento chilometri su strada sterrata per una modesta manciata di soldi.

Nella mensa risuonano i versi dei mongoli aspirare le zuppe grasse in una sinfonia primitiva. Ho addosso gli occhi di tutto il locale, non indagatori ma di una curiosità pura quanto asfissiante.
Finisco il chai-burro-sale, cerco di capire dove si trova il bagno e dalla finestra del locale intravedo gli uomini lasciarsi andare sparsi nel prato adiacente mentre alcune donne si accovacciano più in là e altre fanno la fila davanti a una piccola struttura di legno intorno a un buco zeppo di escrementi.
Faccio in fretta, torno e mi siedo sui gradini d’ingresso, con un’altra tazza tiepida in mano.

Ho uno scambio di sguardi con una signora anziana. Una nomade apparsa dall’orizzonte senza che me ne accorgessi.
I suoi stivali con le punte in su portano decori intarsiati e profondi come quelli formati dalle rughe sul suo viso di cuoio.
Squadra lo straniero mentre allo straniero pare di vedere una luce rara attraversarle gli occhi a fessura.

Una serenità utopica per la gente come me che nuota nel consumismo materialista di quella parte di mondo senza steppe né aria pulita che viene quaggiù  a stupirsi davanti a queste creature esotiche di cui non si vuole sapere altro che stanno meglio di noi; lasciandoci cullare dal banale fascino per il diverso, spargendo tonnellate di CO2 nell’atmosfera per ficcarci nelle foreste, sdraiarci nelle praterie eccetera, a respirare profondamente e lamentarci del comodo asfalto di casa, ammantati del patetico ambientalismo reclamato dalle camicie pastello e dalle scarpe da trekking.

Offro un sorriso umile e ammirato.

Non c’è modo di comunicare se non con gli occhi ma vorrei chiederle di non raccontarmi della durezza del clima e della vita, della sua probabile ottusità mentale, dei suoi figli morti prematuramente, del tasso di analfabetismo del suo popolo, degli effetti dell’incredibile recente crescita del PIL, dei minatori locali schiavi dei nostri imprenditori, delle squallide vite dei nomadi accampati ai bordi di Ulaanbaatar dei cani ammazzati per imbottire gli stivali invernali, e non raccontarmi vecchia, delle ragazze vestite come Paris Hilton nei fast food americani in città, dei nazionalisti che lapidano gli stranieri all’imbrunire in inverno, delle donne picchiate dai mariti sbronzi.
Non mi frega nulla.

E non interessa assolutamente niente di tutto questo, mia cara signora a tutti quelli simili a me che vedi attraversare le tue praterie.
Lasciaci adagiati nel nostro dolce fascino di  narcisisti viaggiatori-non-turisti. Lascia che vi guardiamo come attrazioni esotiche. Illusi che una via migliore da qualche parte esista, oltre lo squallore dei nostri eserciti costosi, delle nostre tette gonfiante, dei visi pieni di botox, di Berlusconi da Santoro, dei supertelefoni adorati come oracoli, degli animali da compagnia conciati come popstar, delle smancerie tra conoscenti nei locali notturni.

Deve esistere un’alternativa, almeno quaggiù, alla volgarità delle villette a schiera zeppe di tv lcd e delle altre sigle del cazzo che spezzano ogni poesia, dei soldi che investiamo più per dimagrire che per nutrirci, dei manuali pratici di auto-realizzazione per cinquantenni divorziati eccetera.

Lasciaci imputridire nello squallore vecchia signora. Resta il nostro feticcio anarchico di felicità, un baluardo ecologico, un nastro bucolico intorno al resto.

L’anziana risponde al mio cenno aprendosi dolcemente in un sorriso antico che inorgoglisce il sottoscritto, lasciandolo alle proprie fantasticherie sul romanticismo di questo quadro perfetto di poesia agreste.

Alle sue spalle si srotola incredibile la Tabula Rasa che i sovietici hanno sognato di elettrificare e colonizzare, che Ferretti ha cercato di cantare un po’ fatto, che cinesi e russi continuano a spartirsi in borsa.

Mantiene grazia serena la nomade vestita di porpora mentre inspira profondamente. Senza smettere il suo sorriso zen, porta l’indice destro a premere contro la narice.
Un secondo dopo ecco trenta centimetri di purissimo catarro mongolo color di muschio volare via nel vento della steppa.

***
Ogni nome – eccetto il mio – presente nei testi di questa rubrica è fittizio, al fine di proteggere l’identità dei soggetti, i quali invece, come i fatti, sono reali.
Parte dei contenuti di questa rubrica sono un’estensione testuale del mio lavoro di fotografia documentaria, che potete approfondire a www.matteospertini.com