Il lavoro secondo Amazon

Lavoro e logistica: lo sciopero del “Black Friday” e il modello Amazon

Di Andrea Iossa

Lo scorso 24 novembre, in concomitanza con il cosiddetto Black Friday, i lavoratori dello stabilimento di Amazon di Castel San Giovanni in provincia di Piacenza hanno indetto uno sciopero per chiedere un miglioramento delle condizioni lavorative e un adeguamento salariale in forma di premio aziendale legato alla produttività.

Nonostante una certa freddezza, se non proprio ostilità, mostrata di recente dai media italiani verso scioperi e sindacati, come ad esempio in occasione degli scioperi dei trasporti, in questo caso l’azione sindacale ha suscitato clamore ed è stata ampiamente raccontata.

A leggere gli articoli dei giornali sembra quasi ci sia stata una certa emozione nell’osservare i “poveri” lavoratori sfidare il colosso multinazionale.

Sarebbe interessante esplorare quest’aspetto della questione, cercando di capire quanto abbia pesato il coinvolgimento dei sindacati confederali (al contrario dei recenti scioperi dei trasporti, per lo più promossi da sindacati di base, lo sciopero in Amazon è stato indetto dai sindacati di categoria affiliati con CGIL, CISL, UIL e UGL), oppure quanto sia mediaticamente attraente la retorica dello scontro impari.

Tuttavia, la questione dello sciopero del Black Friday deve servire ad allargare il campo della discussione sulle condizioni di lavoro e sulla condizione del lavoro in un settore chiave nello sviluppo dell’economia capitalista contemporanea come quello della logistica.

Benché Amazon appaia e funzioni come un’impresa di e-commerce, e quindi in sostanza come un rivenditore al dettaglio, l’azienda di Seattle può essere inquadrata come un’impresa del settore della logistica. Amazon infatti non produce ciò che vende, ma conduce il prodotto finito fino alla soglia di casa del consumatore/acquirente. Amazon è quindi un’azienda che opera principalmente nel settore della logistica, ed il cui core business riguarda prima di tutto lo spostamento della merce.

Nel senso più ampio (e più accreditato), la logistica si pone come la scienza che studia l’intero ciclo di spostamento della merce dal luogo di produzione a quello di consumo, inclusi l’imballaggio, il deposito, l’inventario, lo stoccaggio, il trasporto della merce e finanche la messa in sicurezza delle rotte sulle quali la merce si sposta.

In un libro del 2014, The Deadly Life of Logistics, Deborah Cowen, che insegna Geografia e pianificazione presso l’Università di Toronto, descrive la logistica come la scienza attraverso la quale gli attori protagonisti del capitalismo contemporaneo e dell’imperialismo neocoloniale di stampo economico hanno progressivamente ridisegnato lo spazio globale in forma di rotte commerciali.

L’analisi di Cowen identifica l’origine dello studio scientifico della logistica durante la Prima Guerra Mondiale, quando emerse l’esigenza di sviluppare un efficiente apparato militare per l’approvvigionamento delle linee del fronte. Perfezionato su scala globale durante la Seconda Guerra Mondiale, a partire dagli anni 60 lo studio della logistica fu applicato nella gestione aziendale con l’obiettivo di ridurre i costi di produzione attraverso la razionalizzazione del rapporto tra spazio e merce: in pratica meno è il tempo che un prodotto rimane fermo in un magazzino, più il suo valore aumenta.

 

 

Nella fase attuale, caratterizzata dalla facilità di delocalizzazione delle imprese e dall’abbattimento dei costi di trasporto su scala globale, la logistica è forse diventata il fattore principale attraverso cui creare profitto, approfittando delle differenze tra i costi di produzione nei Paesi in cui la merce è prodotta e i prezzi di vendita nei mercati di destinazione.
Nel lungo tragitto che divide il luogo di produzione da quello di vendita o di consumo, si colloca il lavoro che permette alla merce di viaggiare.

Autisti, facchini, portuali, corrieri, magazzinieri sono, in ordine sparso, alcune delle figure lavorative chiave nel settore della logistica, ovvero sono quei lavoratori che permettono alla merce di circolare e quindi di produrre valore. La tecnologia svolge un ruolo fondamentale nel determinare le mansioni e le condizioni di lavoro in questi impeghi. Le innovazioni tecnologiche hanno sicuramente semplificato alcuni compiti.

L’introduzione del container, per esempio, ha facilitato i compiti di carico e scarico di una nave, riducendone i tempi e favorendo inoltre il trasporto intermodale, ovvero l’utilizzo di più mezzi di trasporto durante lo stesso tragitto – spesso nave e gomma, o nave e rotaia.

Invece di apportare vantaggi ai lavoratori, tuttavia, l’uso della tecnologia sembra averne accresciuto i carichi di lavoro, data la tendenza ad abbattere i tempi di produzione, che nel settore logistico significano i tempi con cui la merce viene trasportata, imballata, immagazzinata e consegnata.

I miglioramenti tecnologici nella logistica hanno infatti favorito l’affermazione del metodo di produzione “just-in-time”, ovvero lo snellimento della produzione industriale finalizzato a ridurre il volume delle scorte a vantaggio di una produzione mirata a soddisfare richieste specifiche di prodotti già venduti o esigenze immediate del mercato. Se il trasporto e la consegna possono avvenire in tempi brevi, non c’è bisogno che un prodotto rimanga immobile in magazzino; lo si può produrre nel momento in cui il mercato, anche attraverso un singolo acquirente, lo richiede.

Questa filosofia ha però determinato una maggiore disciplina sui dati della produttività e quindi un monitoraggio più pressante sui tempi di produzione. Nel caso della logistica, la produttività è misurata dal tempo tra la richiesta di un prodotto e la sua consegna, che deve essere il minore possibile. Questo comporta un vantaggio per l’impresa, la quale riesce così a ridurre i tempi di giacenza e lo spazio occupato dalla merce nei magazzini. Il peso dell’incremento della produttività grava principalmente sui tempi di lavoro, e quindi sui lavoratori, le cui performance vengono costantemente monitorate al fine di trovare nuove soluzioni per ridurre i tempi e quindi i costi di produzione.

Nel caso di Amazon, i tempi di produzione sono relativi a stoccaggio, spedizione e consegna degli articoli acquistati online dagli utenti. Uno dei principali motivi di scontento dei lavoratori dello stabilimento di Castel San Giovanni riguarda le modalità e i ritmi quasi impossibili in cui tali mansioni devono essere svolte.

I sindacalisti portavoce della protesta contestano i turni massacranti, durante i quali gli addetti all’inventario devono registrare almeno 300 articoli all’ora e i runners, i lavoratori che posizionano la merce sugli scaffali, si trovano a percorrere anche 20 km all’interno dello stabilimento.

 

L’inaugurazione del primo centro logistico italiano di Amazon a Castel San Giovanni, Piacenza, 2011.

 

Il lavoro si svolge in tempi strettissimi che vengono monitorati elettronicamente attraverso badge personali e telecamere di sorveglianza. Gli standard di produttività individuale sono calcolati attraverso algoritmi che non tengono conto delle differenze fisiche tra diversi lavoratori. I tempi di riposo sono ridotti al minimo (circa 30 minuti per il pranzo e brevi pause per andare in bagno che, se ritenute troppo lunghe, vengono contestate dai supervisor), mentre straordinari e il lavoro domenicale e festivo sono la regola. Non esiste rotazione dei turni: chi è stato assunto per i turni notturni (lo stabilimento non chiude mai) continuerà a lavorare di notte. Queste condizioni aumentano ovviamente il rischio di incidenti e di malattie professionali legate agli sforzi fisici.

I sindacalisti contestano anche i metodi utilizzati nella gestione del personale: non appena i livelli di produttività individuale scendono al di sotto degli standard stabiliti, i lavoratori ricevono lettere e richiami che ne mettono in discussione la tenuta fisica ed emotiva per il tipo di lavoro svolto.

Varie inchieste negli stabilimenti Amazon in Italia e all’estero (tra cui quelle de L’Espresso, del Mirror, e del New York Times) hanno messo in luce gli alti tassi di stress e la vulnerabilità a malattie fisiche e psichiche dei dipendenti, sia quadri dirigenti che operai, che spesso inducono alle dimissioni. Un dato interessante che emerge dai racconti dei delegati sindacali coinvolti nella protesta del Black Friday riguarda il fatto che la maggior parte dei dipendenti nello stabilimento italiano è assunta con contratto a tempo indeterminato. Gli standard di produttività richiesti impongono tuttavia un limite che è stato definito dai sindacalisti stessi come “fisiologico”.

Il tempo medio di permanenza in azienda è di tre anni, superati i quali il fisico non regge i ritmi di lavoro ed il lavoratore è costretto a dimettersi. La forza lavoro di Amazon è quindi soggetta ad un continuo turn-over.

In tal senso, Amazon ha aggiornato i principi di management aziendale introdotti con successo da Frederick Taylor ad inizio Novecento e illustrati nel suo libro del 1911 The Principles of Scientific Management. Secondo Taylor, la massimizzazione del profitto passa per la razionalizzazione del processo produttivo, che si raggiunge attraverso la scomposizione dello stesso in vari momenti, ciascuno affidato ad un lavoratore e soggetto a tempi standardizzati. Il calcolo del tempo di produzione standard si basa sullo studio dei movimenti che gli operai devono compiere.

Il taylorismo si basa sulla massima semplificazione dei movimenti degli operai, aiutati in questo dall’uso della tecnologia finalizzata a rendere l’utilizzo delle macchine il più semplice possibile.

In tal modo, l’operaio non deve possedere una conoscenza specializzata e il processo di apprendimento è rapido. Di conseguenza, il lavoratore diventa un soggetto interscambiabile, che può essere sostituito per ogni evenienza. Attraverso l’utilizzo della tecnologia disponibile, Amazon fa esattamente questo: assume un lavoratore, massimizza l’apporto del suo lavoro nel processo produttivo e quando il corpo cede, ovvero quando i livelli di produttività del lavoro scendono, lo sostituisce con forze fresche, attingendo al vasto bacino di disoccupati o lavoratori precari.
Rivendicando migliori condizioni di lavoro, lo sciopero dei dipendenti di Amazon attacca il modello stesso dell’azienda.

 

 

In questo senso, l’obiettivo immediato dello sciopero appare velleitario. Non a caso, di fronte alle richieste dei sindacati, l’azienda ha tergiversato. Inizialmente si è detta disponibile ad aprire un tavolo negoziale, poi lo ha fatto saltare lamentando “troppa pressione” da parte dei sindacati, che, in risposta, hanno indetto uno sciopero immediato di due ore il 20 dicembre.

La difficile riuscita di azioni collettive di questo tipo dipende inoltre dall’utilizzo di manodopera somministrata, ovvero di lavoratori forniti temporaneamente da agenzie interinali, i quali non dipendono da Amazon e che quindi non hanno un vero interesse immediato al miglioramento delle condizioni lavorative nel breve termine.

La precarietà dell’impiego non facilita la diffusione della cultura sindacale e spezza la solidarietà tra i lavoratori. L’utilizzo di lavoratori somministrati si accresce poi drasticamente durante i picchi di vendita, ad esempio in concomitanza proprio del Black Friday o del periodo natalizio, di fatto vanificando i tentativi di colpire l’azienda bloccando la produzione quando questa è maggiore.

In punto di diritto, Amazon non sembra formalmente violare alcuna norma, se si escludono situazioni individuali di demansionamento e licenziamento, potenzialmente illegittime e da verificare caso per caso.

Per quanto riguarda i trattamenti salariali, le richieste dei sindacati sono state respinte dall’azienda che si difende affermando di applicare i termini del contratto collettivo di settore, sia della logistica che del commercio, a seconda delle mansioni svolte dai dipendenti. Amazon tuttavia applica i minimi previsti dai contratti nazionali e rifiuta di intavolare trattative di contrattazione aziendale, non obbligatoria, per la conclusione di un contratto che integri in senso migliorativo i minimi di settore, ad esempio attraverso premi legati alla produttività.

La battaglia è quindi tutta sindacale, e si gioca sui rapporti di forza tra azienda e sindacati che attualmente appaiono piuttosto sbilanciati in favore del soggetto più forte, ovvero Amazon.

Nonostante ciò, i sindacati che organizzano i dipendenti di Amazon hanno dalla loro la possibilità di congiungere le proprie rivendicazioni con quelle di altri contesti relativi alla logistica. Ad esempio, i fattorini delle cooperative che effettuano le operazioni di logistica in Emilia-Romagna e nel Lazio per grandi aziende multinazionali tra cui Ikea e Granarolo, sono in agitazione da alcuni anni per chiedere migliori condizioni di lavoro con azioni promosse dai sindacati di base (i sindacati confederali sono spesso rimasti assenti).

E ancora, i lavoratori della grande distribuzione (in questo caso sostenuti dai sindacati di categoria affiliati alle confederazioni nazionali) hanno scioperato il 22 dicembre per protestare contro le aperture di ipermercati e centri commerciali durante i giorni di Natale e Santo Stefano, promuovendo anche una campagna di sensibilizzazione verso gli acquisti nei giorni festivi e chiedendo ai consumatori di rimandarli di un paio di giorni. Forse è proprio da quest’ultimo punto che si dovrebbe ripartire.

Lo sciopero del Black Friday, le lotte dei facchini e le proteste dei lavoratori della grande distribuzione hanno in comune lo stretto rapporto tra lavoro e merce.

L’obiettivo delle azioni dei lavoratori e dei sindacati è ottenere migliori condizioni di lavoro bloccando il flusso delle merci che viaggiano dal produttore all’acquirente. Sebbene all’apparenza marginale, il lavoro degli operatori della logistica è centrale nel processo produzione/consumo, essendo il meccanismo che permette all’azienda produttrice di raggiungere il consumatore e quindi di vendere il prodotto.

 

Lavoratori Amazon dello stabilimento di Castel San Giovanni. (PC)

 

Le difficoltà dei sindacati di organizzare i lavoratori della logistica sono strutturali e dipendono dalla frammentazione della catena distributiva, spesso costituita da più aziende (anche cooperative) che operano in appalto, così come dalla precarietà dei contratti e dall’eterogeneità dei lavoratori, spesso temporanei o immigrati. In tale contesto le debolezze del sindacato vengono amplificate ed emerge la necessità di trovare nuove sponde anche al di fuori della cerchia dei lavoratori rappresentati.

Un supporto decisivo potrebbe derivare da azioni di solidarietà dal lato di destinazione della merce, ovvero da parte dei consumatori. Un blocco degli acquisti in supporto ad azioni collettive dei lavoratori della logistica sarebbe uno strumento di pressione molto forte per contestare in maniera diffusa, ma mirata, le politiche di certe aziende e il modello produttivo e di impiego che promuovono.

Al di là della disputa in Amazon, come detto all’inizio, lo sciopero del Black Friday deve portare ad una riflessione sul rapporto tra produzione della merce, consumi e condizioni di lavoro. Il sindacato deve guidare tale riflessione, puntando soprattutto sulla duplice condizione di lavoratori/consumatori in cui quasi tutti noi viviamo.

Il lavoro di sensibilizzazione dei consumatori non è un compito facile per il sindacato, che tuttavia deve trovare la forza di diventare soggetto politico, promuovendo azioni conflittuali come il boicottaggio che abbiano un respiro più ampio della tradizionale sfera delle relazioni industriali, i cui contorni sono ormai sfumati a seguito dei cambiamenti radicali del mondo del lavoro e dei processi produttivi.