Che cosa stiamo aspettando?

La Tunisia, le proteste e la situazione economica nelle voci dei manifestanti

di Francesca Mannocchi, da Tunisi

“Occupazione, libertà, dignità nazionale”.

E’ venerdì pomeriggio e su Avenue Bourgiba, in centro a Tunisi, queste sono le parole d’ordine dei manifestanti.
Walid Merdassi è uno di loro, è disoccupato, come il 25 percento dei giovani in Tunisia, percentuale che raggiunge anche il 30 percento nelle zone disagiate.

Walid manifesta per la campagna Fech Nestanew, significa Che cosa stiamo aspettando.
Walid non aveva un lavoro vero neanche sotto Ben Alì, si arrangia – dice – è uno dei tanti, tantissimi che vanno avanti grazie all’economia informale: fa il muratore, il cameriere, quello che capita.

Secondo l’Utica, la Confindustria tunisina, l’economia informale, che sfugge alla contabilità nazionale, rappresenta più del 50 percento del Pil. Per Walid rappresenta il sostentamento. “I poveri stanno diventando miserabili, le oligarchie restano oligarchie” dice.

Walid parla di dignità, di diritti “così è stabilito dalla Costituzione, eppure a guardare nelle nostre tasche questo governo sembra peggio di quello di Ben Alì. I tunisini stanno cercando soluzioni per sopravvivere ma non sono più in grado di farlo, ci chiediamo cosa sarà la Tunisia domani e non sappiamo darci risposte. E invece di una voce in nostra difesa ci troviamo di fronte governi corrotti come quello che abbiamo lottato per cacciare sette anni fa.”

Questa rivolta è economica o politica? gli chiedo
“Nel 2011 siamo scesi in piazza chiedendo libertà, perché i tunisini potessero parlare liberamente. Con la libertà ottieni dignità, con la dignità devi ottenere occupazione. Non possiamo dividere libertà politiche e sviluppo economico, invece oggi stiamo assistendo a una povertà dilagante e a una minaccia costante del nostro diritto di manifestare il dissenso, attraverso una campagna indiscriminata di arresti. Non torneremo indietro a chiedere il permesso di esprimere le nostre opinioni, e oggi stiamo facendo un passo in più, vogliamo diritti economici e sociali. Non è una nuova rivoluzione, è un altro passo nel lungo cammino della stessa rivoluzione. Sono passati sette anni, sette anni di opportunità. Hanno tutti fallito.”

Gennaio è il mese delle rivolte in Tunisia, lo è stato nel 1978 e 1984 (le rivolte per il pane), lo è stato nel 2011 e nel 2016 (quando le parole d’ordine erano libertà, occupazione, uguaglianza), e torna a esserlo nel 2018.

Sull’economia tunisina grava un maxi prestito di 2,9 miliardi in quattro anni, concesso dal Fondo Monetario Internazionale in cambio di politiche di austerity e di un taglio sostanziale della spesa pubblica.

Quando il governo di Youssed Chahed, del partito laico Nidaa Tounes ha inserito nella nuova legge finanziaria l’aumento dell’Iva con conseguente aumento dei prezzi della benzina, del gas, dello zucchero, di telefoni e internet, centinaia di persone sono scese in piazza in più di dieci città del paese, da Kasserine, a Tebourba, a Tunisi a Djerba.

Oggi la Tunisia deve far fronte a un deficit che ha raggiunto i 5,8 miliardi di dollari nel 2017, in un paese dove lo stipendio medio è di 400 dinari: meno di 150 euro.

Secondo dati dell’Istituto di statistica tunisino, il tasso di inflazione ha raggiunto il 6,4 percento nel dicembre 2017. In un anno, i prezzi al consumo hanno registrato un aumento del 6,4 percento, con punte dell’8,3 percento per generi alimentari e bevande considerati complessivamente, del 20 percento per gli oli alimentari, dell’11,9 percento per la frutta.

L’economista Clara Capelli (Ispi) sostiene che “sebbene la manovra si proponga di contenere i conti pubblici, essa andrà a gravare in particolare sulle fasce economicamente più deboli della popolazione tunisina e sul ceto medio, proprio quei soggetti che hanno maggiormente risentito di un’altra impopolare misura, la svalutazione di fatto del dinaro tunisino. La valuta nazionale ha perso circa il 10 percento del proprio valore rispetto all’euro tra il 2015 e il 2016 e oltre il 20 percento tra il 2016 e il 2017, cosa che avrebbe dovuto dare una spinta alle esportazioni, ma che in un Paese con il profilo esportativo descritto ed estremamente dipendente dalle importazioni (corrispondenti a quasi metà del PIL, di cui 9 percento di importazioni alimentari e 20 percento di macchinari per la produzione) ha invece ulteriormente depresso il potere d’acquisto di tunisini, alimentato la frustrazione sociale.”

La frustrazione sociale è evidente nei volti dei manifestanti, nei volti giovani che non hanno prospettive, nei volti più maturi, segnati dalla fatica.

Su Avenue Bourgiba, Mohammed tiene in mano un cartello giallo, in segno di ammonizione verso le politiche economiche del governo e grida: “Vedo le stesse facce che erano in piazza nel 2011, molti di noi sono tornati in strada, perché il percorso rivoluzionario non si è interrotto, e non si è interrotto perché non si sono interrotte le ingiustizie che subiamo. Perché le donne continuano a lavorare dalle otto del mattino fino alla sera per cento dinari al mese.”

I giovani che erano scesi in piazza sette anni fa a chiedere un cambiamento radicale, politico e istituzionale, a chiedere di combattere la disuguaglianza, l’immobilismo e la repressione, sono in piazza ancora una volta, nonostante per molti la Tunisia rappresenti il modello riuscito delle rivolte nordafricane del 2011.

Rivoluzione parzialmente riuscita se si osservano gli accordi politici, le elezioni parlamentari e l’approvazione di una nuova Costituzione. Rivoluzione meno riuscita se si assiste alla svolta securitaria in atto dal 2015, l’anno della grande emergenza terrorismo per il paese, l’anno delle migliaia di giovani partiti per combattere il jihad in Iraq, Siria e Libia, l’anno degli attentati, l’anno che ha messo in ginocchio il turismo, l’anno che ha fatto sì che con il pretesto della lotta al terrorismo la Tunisia guardasse al passato, riavviando una impunità di fatto verso le proprie forze di sicurezza.

Questo ha minato e continua a minare la fiducia di migliaia di giovani verso le istituzioni.

Durante le proteste delle settimane scorse il governo ha dichiarato di aver arrestato o posto in stato di fermo circa ottocento persone disperdendo le manifestazioni con metodi violenti e intimidatori “le forze di sicurezza tunisine devono astenersi dall’usare una forza eccessiva e porre fine al loro uso di tattiche intimidatorie contro manifestanti pacifici.

Le autorità tunisine devono dare la priorità alla sicurezza dei manifestanti pacifici e garantire che le forze di sicurezza usino la forza solo se assolutamente necessaria e proporzionata e per proteggere i diritti degli altri”, ha detto Heba Morayef, direttore regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.

A Tebourba, sobborgo povero a 35 chilometri da Tunisi, un uomo di 43 anni, Khomsi Ben Sadek Eliferni, è morto durante le proteste. Il governo sostiene che sia morto in preda a una crisi respiratoria, forse dovuta ai gas lacrimogeni, perché malato di asma, i manifestanti che erano con lui, hanno invece pubblicato un video che mostra un mezzo della polizia passare sopra al corpo dell’uomo due volte.

Il fratello di Khmosi Ben Sadek Eliferni, Ibrahim, ha lavorato per quindici anni in Italia come muratore. E’ tornato a Tebourba perché i suoi documenti erano scaduti, e a Perugia non poteva più restare. Anche suo fratello aveva lavorato a Perugia, tutti in casa parlano perfettamente italiano.

“Non abbiamo nemmeno da mangiare, mia moglie va al mercato e non riesce a riempire una busta di verdura, mio fratello lavorava per 20mila dinari al giorno (7 euro), in due a malapena mettevamo insieme 300mila dinari al mese (cento euro), ora che è morto come posso fare a sfamare tutti? Non c’è libertà qui, dicono che siamo in democrazia, si riempiono la bocca con questa parola, ma quale democrazia c’è se quando sto male non posso andare in ospedale, se quando parli per lamentarti ti buttano in galera, quale democrazia c’è?”

Ibrahim racconta che quando suo fratello è morto, durante gli scontri a Tebourba, non aveva nemmeno cinque dinari in tasca, neanche un soldo “qui vive solo chi era già ricco, chi era ricco prima della rivoluzione è rimasto ricco, i poveri sono diventati più poveri. Stiamo peggio di prima. Tanto valeva restare sotto Ben Alì.”

La disperazione di Ibrahim racconta anche la frattura tra la capitale e le zone emarginate del paese, le zone dimenticate dell’entroterra, quelle più povere, quelle meno sviluppate.

La disparità tra le città costiere e quelle centrali e meridionali è lungi dall’essere sanata e i cittadini che vivono nelle zone interne del paese soffrono non solo la povertà e la mancanza di investimenti ma anche un radicale scollamento dalle istituzioni politiche, vivono quotidianamente la sensazione di non essere rappresentati.

Come sostiene Stefano Torelli dell’ECFR (European Council of foreign relations) “la speranza e l’entusiasmo che ha animato la rivolta contro la dittatura è stata sostituita dalla disillusione nei confronti della democrazia.”

A scendere in piazza, nei giorni dell’anniversario della rivoluzione, anche il movimento Manich Msamah (Io non perdono), nato contro la legge di riconciliazione nazionale che prevede una amnistia di fatto degli alti funzionari dello stato del governo di Ben Alì, coinvolti in episodi di mala gestione delle finanze pubbliche ad eccezione di appropriazione indebita e corruzione.

Sono madri dei giovani rimasti uccisi durante gli scontri del 2011, giovani feriti negli stessi giorni, alcuni di loro manifestano sulla sedia a rotelle, alcuni si sostengono con le stampelle perché manca loro una delle gambe, amputate sette anni fa.

Mostrano i cartelli con i nomi delle vittime che non hanno ancora ottenuto giustizia, sia perché i colpevoli delle loro morti non sono stati puniti, sia perché le famiglie non hanno ottenuto un riconoscimento economico.

Sihem Jaffel, è la vedova di Taher Merghni, morto il 13 gennaio di sette anni fa, mentre manifestava sulla rotonda di casa sua. Quando suo marito è morto, Sihem era incinta, è rimasta sola con quel bambino e un’altra più grande da crescere: “Abbiamo capito dall’inizio che la Corte non ci avrebbe riconosciuto i nostri diritti.”

Accanto a lei, Saida Slifi, madre di un giovane morto a Kram: “Mio figlio aveva 19 anni quando gli anno sparato, solo nel nostro sobborgo sono morti dieci giovani e decine di feriti. Nessuno si prende cura di noi, eppure il sangue dei nostri figli è come il sangue di chi ci governa, è come il sangue dei poliziotti, ma loro continuano a essere difesi, come ai tempi di Ben Alì, e noi che piangiamo i nostri figli, morti per la libertà di questo paese, non sappiamo ancora chi sono i colpevoli della loro morte.”

Piange Saida, stringe al petto la foto di suo figlio: “Non perdoniamo e non perdoneremo, non c’è riconciliazione possibile in questo paese, hanno liberato i corrotti che avevano rubato soldi al paese sotto Ben Alì, hanno liberato gli assassini dei nostri figli. Dov’è la memoria dei nostri figli? Perché non vale niente il loro sacrificio?”

Gli uomini e le donne di Manich Msamah gridano per la propria memoria, gridano contro la corruzione, vera piaga del paese, vera forza di destabilizzazione che agisce a ogni livello politico, economico e sociale.

Nonostante il piano anti corruzione varato dal governo, che ha provocato i primi arresti, e l’annuncio del Ministro degli affari sociali Mohamed Trabelsi di un pacchetto di misure urgenti per contrastare la povertà e aiutare le famiglie indigenti, il sentimento in piazza è di ingiustizia crescente, divario sociale e, a tratti, rassegnazione.

All’indomani della rivoluzione tunisina, i beni del clan Ben Alì sono stati confiscati, erano coinvolte 114 persone, tra parenti e fiduciari di Ben Alì.

Tra i beni sequestrati: immobili, barche e yacht, portafogli azionari, conti correnti bancari e almeno 662 imprese. La commissione di confisca stima che il valore totale di queste attività combinate sia approssimativamente 13 miliardi di dollari, o più di un quarto del PIL tunisino nel 2011.

“Ben Alì e i suoi ci hanno rubato il passato e il futuro e ci hanno lasciato in eredità la corruzione – dice ancora Saida – non possiamo tollerare che questa gente resti impunita nel paese, in nome di una democrazia che non esiste. Con questa gente non è possibile nessun futuro per noi.”