La Brexit che verrà

Mentre Farage parla di un secondo referendum, la data della Brexit si approssima. Uno studio commissionato dal sindaco di Londra dipinge le possibili, preoccupanti, conseguenze in cinque scenari

Di Daniele Tori

A poco più di un anno dalla fatidica data stabilita per quello che alcuni hanno definito come “il divorzio del secolo”, non si intravede ancora una idea chiara sugli effetti che la Brexit avrà sia sul tessuto socio-economico del Regno Unito, sia sull’Europa e le altre economie mondiali.

Mentre le discussioni riguardo ai diritti dei cittadini dell’Unione residenti nel Regno Unito (e dei britannici residenti nei Paesi dell’Unione) sembrano aver raggiungo un traguardo solido , la partita più importante al momento viene giocata sulle questioni riguardanti le relazioni commerciali.

I sostenitori di una uscita “dura” del Regno Unito dall’Unione Europea sostengono che, anche nel caso in cui ci sia un “abbandono senza accordo” (la cosiddetta no-deal Brexit), il commercio dell’isola con le diverse le nazioni sarebbe regolato dalle norme dalla World Trade Organization (WTO), sostanzialmente senza provocare danni al commercio britannico.

Tuttavia, non viene evidenziato il potenziale effetto negativo della automatica rinuncia ai benefici degli accordi di free-trade tra l’Unione Europea (di cui il Regno Unito era membro) e diverse nazioni nel mondo. E’ infatti probabile che il Regno Unito dovrà stilare dei nuovi accordi commerciali con diversi paesi in cui esporta, e da cui importa, beni e servizi.

In generale, prevedere gli effetti che nuovi accordi commerciali (insieme a nuove legislazioni e a una temporanea riduzione del mercato di riferimento del Regno) possano avere sugli indicatori economici principali non è cosa semplice. Tuttavia, oggi disponiamo di metodi che possono fornire indicazioni utili a informare parzialmente le azioni di policy, oltre a fornire un quadro previsionale al grande pubblico.

Nonostante ciò, il governo britannico, nella persona di David Davis (ovvero il capo negoziatore per la Brexit), si è detto poco fiducioso sulla modellistica economica, dunque sulle previsioni in generale. I fondamenti di una affermazione come quella di Davis sono state oggetto di un interessante dibattito accademico anche nel nostro Paese, anche date le non poche sviste da parte di istituzioni internazionali riguardo alle recenti sorti delle economie mondiali.

Ciò non toglie che una visione di massima, con tutte le indubbie precauzioni del caso, può almeno fungere da base per una discussione informata riguardo le sorti di decine di milioni di persone. Se il governo si è mostrato (e sembra rimanere) restio a fornire una valutazione sulla linea di quanto detto sopra, il sindaco di Londra ha mostrato una attitudine diametralmente opposta.

Sadiq Khan ha quindi deciso di dare una prima risposta, commissionando uno studio al Cambridge Econometrics, un istituto indipendente che da anni si occupa di analisi economiche al supporto di governi e policy makers, ma anche di imprese e organizzazioni sociali.

Il report dal titolo Preparing for Brexit (Preparandosi per la Brexit) di circa una novantina di pagine, è stato reso pubblico lo scorso giovedì 11 gennaio.

Lo studio presenta un’analisi che si basa su valutazioni di cinque alternativi scenari, con i quali si è cercato di riflettere le eventuali forme che la Brexit potrà prendere al tremine delle negoziazioni in corso. Si va dallo Scenario 1 in cui si mantiene lo status quo, allo Scenario 5 nel quale c’è una uscita senza nessun tipo di accordo.

Lo Scenario 1 descrive una situazione in cui tutto resta come è ora, ovvero nella quale il Regno Unito rimane sia nel Mercato Unico sia nell’Unione doganale; gli Scenari 2 e 3 riflettono una soft-Brexit e, rispettivamente, un Regno Unito parte dell’Area Economica Europea (Unione Europea più Islanda, Liechtenstein, e Norvegia) ma non della Unione doganale, e viceversa; gli Scenari 4 e 5 riguardano invece la cosiddetta hard-Brexit, il primo simile alla corrente posizione governativa e il secondo, come già accennato, in riferimento a una mancanza totale di accordi o corsie preferenziali post-aprile 2019.

Il centro studi di Cambridge presenta analisi di impatto sia per la capitale, Londra, sia per il Regno Unito in generale. Il risultato generale è che, mouvendosi dallo Scenario 2 allo Scenario 5, l’effetto di una contrazione dell’economia (ovvero del PIL/valore aggiunto) londinese e britannica peggiora sensibilmente. Inoltre, a questi effetti “di livello” si affiancherebbe una diminuzione dei tassi di crescita economica futura.

Guardando alle varie componenti analizzate, lo studio rivela che entro il 2030 il valore aggiunto si ridurrà del 1% (18,6 miliardi di sterline) se si considera lo Scenario 2, mentre questa riduzione arriverebbe fino al 2,7% (49 miliardi di sterline) secondo lo Scenario 4. Un costo potenziale, questo, che dovrebbe essere aggiunto alle discusse “penali” che l’Unione potrebbe chiedere ai britannici.

Se il governo continuasse sull’attuale linea negoziatrice (Scenario 4), entro il 2030 l’occupazione si ridurrebbe del 1,4% e la produttività dell’1,3%. Una hard-Brexit avrebbe poi un effetto anche sulla popolazione totale, con una riduzione a livello nazionale pari al 2,2% (Scenari 4 e 5). Londra da sola perderebbe il 4,2% di popolazione (oltre 360,000 persone).

Quella degli investimenti sembra essere la componente che dovrebbe subire maggiormente il colpo, con una riduzione che va dal 6,7% (Scenario 2) al 13,8% (Scenario 4) fino al 15.4% (Scenario 5): maggior incertezza e minori potenziali investimenti esteri spiegherebbero questa flessione. Anche le importazioni, essenziali data la struttura produttiva dell’economia britannica, subirebbero un calo attorno al 4,5% nel caso di una hard-Brexit.

Un altro aspetto interessante dell’analisi è quello che riguarda le previsioni sui dazi che verrebbero applicate ai settori economici nel caso in cui gli Senari 4 e 5 si realizzassero. Ad esempio, le importazioni di cibo, bevande e tabacco subirebbero l’imposizione di un dazio attorno al 7%, mentre quelle per prodotti di abbigliamento addirittura del 10%. A queste si aggiungerebbero le cosiddette “barriere non tariffarie” (ad esempio quote di importazione, license, restrizioni all’esportazione, etc.), le quali secondo lo Scenario 4 si aggirerebbero sul 55% per importazioni di cibo e bevande, sul 14% per le esportazioni del settore aerospaziale.

Il settore dei servizi finanziari è l’osservato speciale, data la sua sempre più crescente importanza nel tessuto economico del Regno. Infatti, questo settore rappresenta oggi circa i tre quarti del valore aggiunto prodotto dall’intera nazione (oltre a Londra, “nuovi” centri finanziari quali Manchester e  Liverpool sono cresciuti sensibilmente).

I rapporti con l’Unione Europea sono cruciali per le aziende finanziarie. Secondo dati della Banca dei regolamenti internazionali (BIS), più del 70% del trading sull’euro ha luogo a Londra, rispetto all’11% di Parigi e al 7% di Francoforte. Ad oggi il Regno Unito risulta essere esportatore netto di servizi finanziari, dei quali i Paesi dell’Unione sono i maggiori “consumatori”.

Nel solo 2015, 24 miliardi di sterline, ovvero il 45% del totale dell’export finanziario britannico, è stato verso l’Unione. Secondo il report, nel caso di una hard Brexit le esportazioni di servizi finanziari le barriere non-tariffarie sarebbero pari all’8,5%, con un tasso di investimento ridotto di ben tre volte (dall’1,8 allo 0,6) rispetto ad un mantenimento dello status quo.

A livello nazionale, gli effetti negativi sul valore aggiunto del settore finanziario si aggirerebbero attorno al 2,5%, con una simile riduzione dell’impiego. Nel frattempo, si intensificano mosse da “piano B”, da parte di istituti bancari e finanziari che sembra stiano tentanando di correre ai ripari, sia scegliendo nuove destinazioni che modificando contratti e licenze.

Il 29 marzo 2019, giorno stabilito per il divorzio, si avvicina. Il governo di Theresa May sembra essere intenzionato a portare avanti un duro scontro con l’Unione Europea in termini di relazioni commerciali, nonostante studi come quello commissionato dal sindaco londinese e varie voci del mondo accademico e imprenditoriale sembrino consigliare un approccio più morbido.

Al contrario, i benefici per l’economia britannica tanto sbandierati durante la capagna referendaria  dai sostenitori del Leave rimangono orfani di fondamenta tecniche solide.