India, appello all’indipendenza della magistratura

La Corte Suprema lancia l’allarme sulle ingerenze dell’esecutivo

di Maria Tavernini, da New Dehli

Il 12 gennaio scorso, quattro tra i più autorevoli (e anziani) giudici della Corte Suprema indiana hanno deciso di rivolgersi al popolo per denunciare le condizioni in cui versa la giustizia del Paese e preservare l’indipendenza del potere giudiziario dalle ingerenze dell’esecutivo

Mai prima d’ora dei giudici della Corte Suprema si erano rivolti direttamente al popolo, per di più per attaccare il capo della Corte.

“E’ un evento straordinario nella storia dell’istituzione”, hanno ammesso i quattro, nel corso di un’inusuale conferenza stampa da loro indetta a New Delhi, “ma se la giustizia non verrà preservata, la democrazia del Paese sarà a rischio”.

La notizia, esplosa come una bomba della quale si attendono gli sviluppi pratici e politici, è rimbalzata sui principali siti di informazione internazionali soprattutto per le modalità di denuncia del fatto. La magistratura, forte della propria indipendenza, si tiene generalmente alla larga dalla stampa.

Questa volta, però, stampa e opinione pubblica sono diventati lo strumento per liberare l’istituzione dal male che la attanaglia e preservarne l’indipendenza da un esecutivo fin troppo invadente.

Il giorno prima della conferenza stampa, i quattro giudici (Jasti Chelameswar, Ranjan Gogoi, Madan B. Lokur e Kurian Joseph) avevano consegnato una missiva di sette pagine al presidente della Corte Surpema, Dipak Misra – rimasta però lettera morta – nella quale mettevano in discussione la sua leadership, vertice del sistema giudiziario indiano, denunciandone la cattiva condotta, e chiedevano di prendere misure urgenti. La lettera è stata poi resa pubblica il giorno dopo.

Tra le varie questioni sollevate, i quattro accusano il giudice Misra di non essersi comportato in modo equo ed imparziale nell’assegnazione di pool di giudici a casi sensibili, mosso da personali ‘preferenze’.

È stato così per una serie di casi che vedevano sul banco degli imputati uomini vicini al Bharatiya Janata Party (BJP), il partito del premier al governo dal 2014, accusato indirettamente di tentare di influenzare la magistratura.

Quella di questi giorni è una crisi del potere giudiziario, si legge sulla pagine del quotidiano Indian Express, una crisi tutta interna, che vede contrapposti una serie di giudici, da una parte, e il presidente della Corte Suprema, chiamato Chief Justice (CJI), dall’altra, considerato primus inter pares.

Una crisi grave, concordano i commentatori politici, che ha creato una frattura nella confraternita dei giudici della Corte.

La straordinarietà dell’evento, hanno dichiarato i quattro giudici durante la conferenza stampa, è giustificata dalle circostanze che li hanno costretti a farsi avanti per preservare l’integrità e la credibilità del massimo organo giudiziario indiano.

“Non ci siamo venduti l’anima”, hanno dichiarato al pubblico, “se l’integrità del potere giudiziario non sarà preservata, il più importante pilastro della democrazia è a rischio”.

Così si sono rivolti al popolo, sovrano in prima e ultima istanza. Affinché “uomini saggi” delle generazioni future non possano puntare il dito contro gli stessi giudici che oggi non denunciano la gravità della situazione. L’elefante nella stanza è, senza dubbio, il caso del giudice BH Loya, morto di infarto poco prima di pronunciarsi su un delicato caso che vedeva imputati Amit Shah, braccio destro di Narendra Modi, e altri uomini vicini al BJP.

Il caso Sohrabuddin-Shah ha fatto e continua a far discutere la comunità giuridica e l’opinione pubblica indiana.

La morte del giudice del Criminal Bureau of Investigation (CBI) Brijmohan Loya, cui era stato affidato il caso di un falso scontro a fuoco con il gangster Sohrabuddin Sheikh, appare sospetta, secondo molti punti di vista, tanto da spingere la stessa Corte a ordinare un’inchiesta.

I familiari del giudice sostengono che la sua morte non abbia nulla di naturale e che poco prima di morire gli fosse stata offerta una tangente da 100 crore di rupie (oltre 12 milioni di euro) per un giudizio in favore di Amit Shah, parlamentare per lo stato del Gujarat alla Rajya Sabha, la camera alta del parlamento indiano, ed esponente di spicco del BJP.

Rahul Gandhi, neopresidente del Partito del Congresso, il principale partito di opposizione, figlio e nipote della dinastia politica Nehru-Gandhi, ha definito la questione sollevata dai giudici di “estrema importanza” e auspica che sia indagata a fondo e in maniera imparziale per accertare la verità.

Intanto il governo è rimasto chiuso nel solito silenzio che contraddistingue i momenti caldi e ha chiesto all’opposizione di non politicizzare quella che è, e deve restare, una questione interna alla giustizia.

E mentre si attendono gli sviluppi, anche e soprattutto politici della vicenda, c’è chi già festeggia.

Perché il gesto dei quattro giudici potrebbe essere il primo sintomo di un’opposizione istituzionale ai giochi di potere con cui il BJP governa l’India da quasi tre anni. Per il BJP e il premier Narendra Modi, potrebbe essere uno smacco insanabile in vista delle prossime elezioni generali nel 2019.