Cronaca di morti annunciate: gli omicidi di ambientalisti in America latina

Ogni anno vengono assassinati sempre più ecologisti. La maggioranza delle vittime sono latinoamericane, in oltre il 40% dei casi indigene.

di Mauro Morbello

L’America latina è il continente in assoluto più pericoloso per coloro che difendono l´ambiente dalla depredazione delle risorse naturali. Oltremodo pericoloso per coloro che vantano un diritto ancestrale a vivere nel proprio territorio: le popolazioni indigene.

Papa Francesco nel suo recente viaggio latinoamericano ha evidenziato in maniera concreta la criticità della problematica visitando due località emblematiche: l’Araucania in Cile e la regione di Madre de Dios in Perù, dove l´ambiente e le popolazioni indigene sono sottoposti ad una pressione ormai inaccettabile.

Secondo dati della ONG Global Witness, negli ultimi due anni sono stati uccisi il maggior numero di ambientalisti in assoluto: complessivamente quasi 400 persone, 200 vittime accertate nel 2016, 197 vittime nel 2017. Raddoppiando il numero di morti rispetto al 2014.

Il 60% degli ecologisti assassinati erano latinoamericani. Di questi almeno il 40% indigeni, anche se rappresentano meno del 20% della popolazione.

Si tratta solo delle morti effettivamente accertate come conseguenza del ruolo svolto dalle vittime in difesa dell´ambiente. In realtà si calcola che gli ecologisti uccisi siano molti di più. Anche perché nella maggioranza dei casi non si identificano e spesso neppure si ricercano i colpevoli, frequentemente protetti dalle autorità che dovrebbero invece difendere le vittime.

Il paese dell´America latina che anno dopo anno presenta il maggior numero di ambientalisti assassinati è stato anche nel 2017 il Brasile, con 46 omicidi accertati, seguito dalla Colombia con 32 morti, Messico 15 e Perù 8.

Il Brasile è per estensione quasi la metà dell’intero territorio sudamericano e dispone di circa il 65% della superficie amazzonica. Di tale superficie sono stati sino ad oggi deforestati per l’allevamento del bestiame, coltivazioni agroindustriali principalmente di soia, palma da olio e sfruttamento del legname almeno 750mila chilometri quadrati tra il 1970 e il 2017.

Oltre il doppio della superficie complessiva dell´Italia. Purtroppo si tratta di una tendenza che invece di diminuire aumenta. A fronte di una media nell´ultimo decennio di 350mila ettari annuali di disboscamento, tra luglio 2015 e agosto 2016 sono stati disboscati 800mila ettari di foresta a vista e pazienza di tutti.

Altri paesi latinoamericani evidenziano tristi primati rispetto alla problematica ambientale. È il caso ad esempio dell’Honduras, un paese piccolo, con i suoi appena 8 milioni di abitanti, poco conosciuto in Italia se non per le immagini del programma TV “l’isola dei famosi”, ambientato in una delle sue isole nei Caraibi.

Purtroppo il “reality” non riflette la realtà di questo paese che ha la “sfortuna” di essere ricco di risorse naturali.

Risorse che fanno gola a molti e per questo, negli ultimi dieci anni – tra il 2007 e 2017 – sono stati uccisi ben 132 ambientalisti, aggiudicando all´Honduras il triste primato del più alto tasso di omicidi di ecologisti al mondo.

Tra questi anche l´assassinio della leader indigena dell’etnia lenka Berta Caceres, vincitrice nel 2015 del Goldman Environmental Prize, il “premio Nobel” per la protezione dell’ambiente. Neppure la visibilità ottenuta dall´aver vinto un premio così importante è stata sufficiente a salvarla.

Non è un caso, credo, che parallelamente all’incremento degli omicidi di difensori dell’ambiente, proprio in Honduras nel 2009 sia iniziato il ciclo dei cosidetti “golpes istituzionali latinoamericani”, con la discutibile destituzione da parte della Corte Suprema del presidente democraticamente eletto, Manuel Zelaya, che venne “sostituito” dall´allora presidente del parlamento, ben più accomodante nei confronti delle imprese estrattive.

Il mantenimento al potere di politici “accomodanti” è continuato negli anni sino ad arrivare alle elezioni politiche dello scorso mese di novembre 2017.

Anche se sino ad oltre la metà dello spoglio elettorale era in vantaggio di ben 5 punti il candidato dell´opposizione, dopo una sospensione per “problemi tecnici al sistema informatico elettorale” venne dichiarato vincitore, con un vantaggio dell’1,53%, il presidente in carica Juan Orlando Hernández del Partido Nacional. Già protagonista del colpo di Stato del 2009, che assicurava, a differenza dell´avversario, la continuità sperata al sistema estrattivo dominante nel paese.

Un altro caso emblematico della critica situazione esistente in America latina è quello della Colombia, il secondo paese al mondo per numero di omicidi di ambientalisti dopo il Brasile, con 32 morti accertate da parte di Global Witness nel 2017.

La Colombia ha visto paradossalmente aumentare le morti di ecologisti dopo la firma dell´accordo di pace tra FARC e governo nel 2016.

Molti analisti vedono l´aumento delle morti proprio come un effetto dell´accordo di pace. Da un lato, infatti, centinaia di migliaia di rifugiati – in gran parte popolazione indigena e afrodiscendente – che dovettero lasciare le regioni di origine a causa della guerra, con la pace sono ritornati ad occupare i propri territori.

Dall´altro, queste aree spesso ricche di risorse naturali o di grandi spazi, non più sotto il controllo della guerriglia, sono diventate di grande interesse per gruppi economici legati all´industria estrattiva, agroindustriale e idroelettrica che, con frequenza, sono “protetti” da gruppi paramilitari. Che non si fanno scrupoli a minacciare e se necessario eliminare chi si rifiuta di accettare le loro proposte.

Un caso emblematico recente che presenta la drammaticità della situazione colombiana è quello di Hernán Bedoya, un piccolo agricoltore assassinato con 14 colpi di pistola da due paramilitari delle cosidette Autodenfensas de Colombia quando stava rientrando a casa a cavallo agli inizi di dicembre 2017.

Bedoya, minacciato da gruppi paramilitari sin dal 2015, era impegnato a difendere i diritti dei contadini afrodiscendenti e la biodiversità di fronte alla espansione della coltivazione della palma da olio e dell´agroindustria nella regione del Bajo Atrato.

In risposta al pericolo che correva, la polizia gli aveva messo a disposizione solo un giubbotto antiproiettile e una radio ricetrasmittente. Che ovviamente non sono stati sufficienti a salvarlo.

Nel 2016 il regista Nico Muzi conobbe e intervistò Bedoya durante la realizzazione del documentario Frontera Invisible che evidenziava l´espansione della palma da olio in Colombia e gli effetti negativi che la stessa produceva nei confronti delle comunità rurali interessate.

Durante l´intervista Bedoya racconta la sua storia e quella della comunità, insieme alla lotta contro i paramilitari che rappresentano il braccio armato di interessi economici che, in combutta con il potere politico locale, si dedicano alla coltivazione della palma da olio in Colombia.

Nella parte finale dell´intervista Bedoya ci dice che esiste da parte dei produttori agroindustriali l´intenzione di estendere di ulteriori mille ettari la coltivazione di palma su terreni della comunità. Ma che questo non sarà possibile senza prima eliminare i contadini.

Purtroppo lo hanno preso in parola. Sommando Hernan Bedoya alla lunghissima lista delle morti annunciate di ecologisti latinoamericani.