Rileggere La strada di McCarthy dopo essere diventato padre

di Fabrizio Coppola

Mi sono alzato alle sei. Fuori il cielo era ancora nero, stranamente. Sono andato in cucina, ho messo su un caffè e ho scorso sul cellulare i titoli del Post. In uno si diceva che un bombardiere USA ha sorvolato la Corea del Sud probabilmente come gesto dimostrativo nei confronti della Corea del Nord in seguito al test nucleare effettuato qualche giorno fa. Ho riguardato il cielo.

Erano le 6:15 e non c’era traccia d’alba. Per un attimo ho pensato che qualcosa da quelle parti fosse andato storto e che avevano sganciato qualche bomba di cui noi non sapevamo ancora nulla e che il mondo fosse già immerso nelle tenebre post-atomiche.

Questo perché qualche ora prima avevo finito di rileggere La strada di McCarthy.

Avevo regalato la mia copia a un amico, una sera di diversi anni fa: ci eravamo messi d’accordo per una cena all’ultimo minuto, io volevo regalargli quel libro perché stava attraversando un momento difficile e pensavo che gli avrebbe fatto bene leggerlo, così non avendo il tempo per andare in libreria avevo preso la mia copia, avevo scritto una dedica sul frontespizio e gliel’avevo portato quella sera.

Prima di allora l’avevo letto anche in versione originale, attratto dalla forza di quella scrittura così efficacemente resa dalla traduzione di Martina Testa.

E l’altro giorno, aggirandomi nel salotto, nella libreria che contiene i libri di m, l’occhio mi era finito sul dorso del volume. Pochi istanti dopo ero sul divano, immerso nella lettura. Ora che ho finito di rileggerlo, realizzo che in qualche modo sapevo che avrei voluto tornare su quelle pagine dopo essere diventato padre ‒ una di quelle cose che sai anche se non in maniera consapevole.

Finito il caffè sono venuto qui nel mio studio per recuperare la copia in inglese e sfogliarla. L’ho estratta dallo scaffale e neanche il tempo di girarmi che alcuni libri sono scivolati fino a colpire una cornicetta che è precipitata al suolo producendo un rumore spaventoso nel silenzio della casa delle 6:26. Sarà un segno, forse? mi sono chiesto.

L’ho finito in due giorni, usando il poco tempo libero che ho in questo periodo. Ne ho letto la maggior parte seduto sul divano, con la piccola g tra le braccia, avviluppata in una copertina di lana di colore blu. Non mi ha fatto male come le altre volte in cui l’avevo letto.

Anzi, a un certo punto mi son detto che questo romanzo è pieno di luce, una luce che in pochi forse hanno riconosciuto.

La luce che anima le persone che lottano per ciò in cui credono anche quando tutto sembra o è perduto, la luce della volontà, che poi alla fine, molto spesso, è l’unica cosa che ci resta. Questo racconto atavico di un uomo in lotta contro la morte, una morte onnipresente nell’assenza di un qualsivoglia minimo accenno del suo contrario, la vita, spazzata via in ogni sua forma da un olocausto nucleare, eccezion fatta per alcuni pochi (s)fortunati esseri umani che si trovano a vagare in un mondo carbonizzato e deceduto nel tentativo di sopravvivere in un qualche modo.

Alcuni passi li ricordavo quasi a memoria (il bunker antiatomico, la barca a vela, l’uccisione di uno dei cannibali) e anche se il libro ormai lo conosco bene, la scrittura così secca e coinvolgente me lo ha fatto sembrare un romanzo nuovo a me sconosciuto ‒ o, forse, sconosciuto al me di adesso. La luce, dicevo. A ben pensarci, sembra quasi un romanzo sull’ottimismo, per assurdo, sul mantenere un atteggiamento disperatamente positivo anche quando il mondo intorno è crollato (in questo caso, in senso letterale…).

Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà, diceva qualcuno.

E un’altra cosa che mi è venuta in mente è che La strada e il suo protagonista sono assolutamente privi di eroismo. Quell’eroismo madido di retorica che oggi fa apparire come straordinari gesti (che dovrebbero essere) banali ed elementari e che le cronache ci spacciano quotidianamente per macinare qualche clic in più in favore dei contratti pubblicitari. Mentre invece non c’è nulla di eroico nella vicenda dell’uomo e del bambino.

E il tono e la scrittura di McCarthy ci suggeriscono più volte che è così. E anche se il narratore non giudica né in un modo né nell’altro la scelta compiuta dalla madre, quella cioè di rinunciare all’esistenza in un mondo in cui ogni esistenza sembra impossibile ‒ o forse lo è, quando si presenta priva delle caratteristiche che oggi per noi ne definiscono il concetto ‒, allo stesso modo non giudica neanche le scelte dell’uomo. Si limita a registrarle.

A raccontarcele. La scrittura di McCarthy non cerca di farci empatizzare con il protagonista quanto piuttosto di descriverci minuziosamente, con un miracoloso gioco di dentro e fuori, di immagini dell’esterno che riecheggiano le sensazioni interne, la realtà che sta vivendo.

Una realtà che sfugge quasi alla comprensione, una realtà quasi irreale nelle sue caratteristiche principali, una nuova realtà che non ha nulla a che fare con quella alla quale siamo abituati: sole, cieli blu, animali, alberi, piante giù giù fino a strade, ponti, case, città, ogni cosa è scomparsa, cancellata o ricoperta dalla cenere di una Dust Bowl atomica che rimane il tratto distintivo di questo nuovo mondo, la cui caratteristica principale è quella di non essere quasi pensabile per quanto è lontano dal vecchio mondo (a proposito di Dust Bowl, nel prossimo capitolo alcuni interessanti parallelismi che ho notata tra La strada e Furore).

Niente retorica quindi, così come niente eroismo. Ma moltissima paura, un terrore sbiancato come le ossa esposte dei morti che i due incontrano lungo la strada.

Una paura che ci parla, a noi ex benestanti della ex classe media di questo nuovo mondo occidentale post-crisi, post-crescita, post-industriale, post-espansione continua, post-culturale, ecc.

Una paura che si nasconde nel nostro cuore mentre seduti nei nostri divani di fronte alla libreria ‒ che orgoglio, tutti questi dorsi ordinati di tutti questi libri che ci vantiamo di aver letto e in qualche fortunato e raro caso addirittura compreso ‒ culliamo tra le braccia un qualche piccolo alieno di neonato indifeso appena precipitato lì dal grande nulla che ci precede e che ci attende.

Un terrore che era già nei nostri cuori prima che arrivasse lui. E prima che leggessimo questo romanzo.

E che resterà con noi, accanto a quella luce che sgocciola dalle pagine del libro. E che, forse, sarà la nostra fortuna.