Afghanistan, i rimpatri della vergogna

Il rapporto annuale di Amnesty International torna a denunciare i rimpatri dall’Ue verso un paese definito sicuro

di Christian Elia

È stato diffuso ieri il rapporto annuale di Amnesty International, disponibile anche in versione cartacea per Infinito Edizioni.

Un lavoro, come sempre, necessario, sia per le singole campagne che per la visione d’insieme di come e quanto lo spettro delle violazioni dei diritti umani nel mondo sia ampio e radicato e di quanto questo ordito di violenze e sopraffazioni incida sulla possibilità di creare un mondo più giusto.

Il lavoro dei ricercatori di Amnesty, diviso per aree geografiche e per temi, permette di cercare il generale e il particolare, a seconda dei campi di studio e di interesse.

Per l’Afghanistan, da tempo, il racconto generalista ruota attorno al bilancio fallimentare dell’operazione militare a guida Usa lanciata nel 2001 e su come tutti gli aspetti della vita nel paese siano deteriorati, ma raramente allarga lo sguardo ai rimpatri.

Leggere la parte riferita all’Afghanistan, però, diventa ancora più brutale proprio in connessione al cosiddetto Joint Way Forward, l’accordo sottoscritto tra Ue e governo afgano (per quanto sarebbe più corretto parlare di ricatto) che vincolava gli aiuti umanitari al rimpatrio di migliaia di afgani giunti nell’Ue in cerca di asilo politico.

Un accordo che in buona sostanza definisce l’Afghanistan un ‘paese sicuro’. Senza considerare, nel nome del dilagare elettorale di un discorso pubblico anti-immigrati, nessun aspetto della tragedia quotidiana di questo paese e della sua popolazione civile.

Basta scorrere i dati del rapporto di Amnesty per constatare come l’Afghanistan sia ormai uno stato senza Stato, dove al conflitto verticale tra coalizione internazionale e insorti si sono aggiunti almeno due conflitti orizzontali: quello tra il movimento talebano e Daesh e quello tra gli insorti e la polizia/esercito afgano.

“Il numero degli sfollati interni a causa del conflitto ha superato i due milioni; circa 2,6 milioni di rifugiati afgani vivevano fuori dal paese”, denuncia il rapporto. E ancora vittime civili, tortura, compressione dei diritti fondamentali, insicurezza diffusa, attentanti, corruzione.

Nonostante questo, “durante il 2017, circa 2,6 milioni di rifugiati afgani hanno vissuto in più di 70 paesi in tutto il mondo. Circa il 95 per cento sono stati ospitati in due soli paesi, Iran e Pakistan, dove hanno subìto discriminazioni, aggressioni di matrice razzista, mancanza di servizi basilari e rischio di espulsione di massa. Tra il 2002 e il 2017, più di 5,8 milioni di afgani sono tornati a casa, molti dei quali rimandati contro la loro volontà da altri governi”.

Quando tornano, le condizioni che le autorità afgane sono in grado di garantire sono drammatiche: “L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (United Nations Office for Coordination of Humanitarian Affairs – Unocha) ha dichiarato che, solo nel 2017, circa 437.907 persone erano state sfollate dal conflitto, portando il numero totale di sfollati interni a oltre due milioni. Nonostante le promesse fatte dai governi che si sono succeduti, gli sfollati interni hanno continuato a non avere alloggio adeguato, cibo, acqua, assistenza sanitaria e opportunità di cercare lavoro e ottenere un’istruzione”.

Questo, però, non ferma la macchina dell’allontanamento coatto delle famiglie afgane dall’Europa.
Il 18 gennaio il parlamento norvegese ha deciso di respingere una proposta di sospensione temporanea dei rimpatri dei richiedenti asilo afgani, proposta proprio da una campagna di Amnesty.

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“È un giorno triste per gli afgani che vivono in Norvegia e, insieme, l’amara indicazione che i politici di uno dei paesi più ricchi al mondo hanno perso la loro compassione – ha dichiarato in una nota ufficiale Charmain Mohamed, direttore del programma Diritti dei migranti e dei rifugiati di Amnesty International –. La vita in Afghanistan è piena di pericoli quali gli attentati, i rapimenti e le persecuzioni, e rimandarvi le persone è crudele e immorale“.

La Norvegia, sia in rapporto alla sua popolazione che in termini assoluti, rimpatria più afgani di ogni altro paese europeo. Secondo le autorità di Kabul, il 32% (97 su 304) degli afgani rimpatriati nei primi quattro mesi del 2017 provenivano dalla Norvegia. Che però non è l’unico paese che ha deciso di applicare in modo zelante l’accordo Ue – Afghanistan.

Secondo dati ufficiali dell’Unione europea, tra il 2015 e il 2016 il numero degli afgani rimpatriati dagli stati membri è quasi triplicato: da 3.290 a 9.460. Questo aumento corrisponde a un marcato calo delle domande d’asilo accolte: dal 68% del settembre 2015 al 33% del dicembre 2016.

Con la Norvegia vanno citati la Francia, la Germania, la Svezia. A opporsi a tutto questo, resta la società civile.

Associazioni, persone comuni, come i compagni di classe di molti dei ragazzi afgani vittime del procedimento, o i piloti di linea delle compagnie che trasportano i rimpatriati. Persone, cittadini, che da soli dicono no. Per restare umani.