Lavorare meno, lavorare tutti (e meglio)?

Un tema da esplorare nelle economie occidentali, meglio tardi che mai.

Di Giuseppe Daconto

Nei primi giorni di febbraio è stato stipulato un accordo sindacale molto importante nel Land più ricco della Germania, il Baden Wüttemberg. I giornali economici ne hanno parlato con una moderata enfasi.

In sostanza, il forte sindacato metalmeccanico tedesco, IG Metall, è riuscito a strappare la possibilità di riduzione dell’orario di lavoro, in alcuni casi e a talune condizioni, dalle 40 alle 28 ore a settimana.

Ad esempio, per le cure dei propri figli o per esigenze legate alla cura di anziani o di particolari malattie. In compenso, chi vorrà potrà chiedere anche di lavorare di più. Insomma, un orario di lavoro flessibile a seconda delle condizioni di vita personali.

L’accordo che riguarderà inizialmente un milione di lavoratori e ha il carattere sperimentale di due anni, potrà presto fare breccia nelle contrattazioni sindacali in Germania e  inizia a far discutere anche altrove, con i riverberi che conosciamo in Italia e facilmente prevedibili: sindacati  più o meno favorevoli, Confindustria contraria.

Per ora la discussione sull’orario di lavoro c’è, ma non impazza nella discussione politica e sindacale, eppure diventerà centrale sempre di più in futuro.

Perché le implicazioni sia per le vite dei lavoratori e, soprattutto, delle lavoratrici, che per le organizzazioni economiche e produttive, sono evidenti ma, forse, sottostimate.

Torniamo un po’ indietro e facciamo un po’ di teoria, prima a livello micro.

I manuali spiegano che il mercato del lavoro è un mercato atipico, la merce in contrattazione tra domanda e offerta è l’uomo e non un prodotto, anche perciò la domanda e l’offerta si costruiscono in maniera particolare e diversa. Ricordarlo, in ogni salsa e sempre, non fa mai male.

 

 

L’offerta è del lavoratore, la domanda è delle imprese. Il salario (orario e nominale a livello micro) dovrebbe favorire l’incontro.

La curva dell’offerta dipende dal valore che ogni persona attribuisce al tempo libero e il salario serve a compensare proprio la perdita marginale di tempo libero. Le imprese domandano ore di lavoro rispetto alle esigenze derivanti dalla loro funzione di produzione, in base a quanto sono disposte a pagare per stare nelle convenienze economiche. La parità tra salario offerto e produttività marginale del lavoro determina l’equilibrio.

Quindi tutto parte dal valore personale che si da del tempo (libero). Curioso, no?

Anche per questo, alcuni ritengono che redditi di cittadinanza o similari disincentivino l’offerta di lavoro: si parte da un salario base più alto perché il tempo libero è già in parte compensato! Ma questo è un altro discorso, tanto delicato quando discutibile.

Come al solito, in economia, ciò che spiegano i manuali sono semplificazioni, con tante ipotesi a monte, che non riflettono del tutto le dinamiche reali. Sappiamo che a trovare lavoro e a dare lavoro influiscono tante altre ragioni, più o meno razionali, più o meno economiche.

E soprattutto, è bene ricordarlo, non viviamo (e non dovrebbe esistere) in un mercato del lavoro completamente libero, dove ognuno contratta per sé in maniera completamente libera, e menomale.

Eppure, è utile, di questi tempi, non scordare che si parte da lì, dal tempo. E che questo è una risorsa scarsa. Quindi, come tutte le cose che scarseggiano, queste hanno un prezzo. Come cantano i Baustelle, “perché il tempo ci sfugge ma il segno del tempo rimane”.

Un ultimo pezzettino di teoria, un po’ più macro.

Quando le cose vanno male, economicamente si intende, le imprese redistribuiscono le ore di lavoro fino all’ultimo e poi licenziano.

Perché se calano i consumi, quindi i fatturati, le imprese redistribuiscono al loro interno le ore lavorate complessive, riducendole via via. Le leggi lo permettono (contratti di solidarietà, integrazioni salariali tipo la vecchia cassa integrazione), e poi, se le cose non si riprendono nel breve termine, licenziano, ahinoi.

Leggi e contrattazioni ovviamente dovrebbero rendere questo processo, che porta al licenziamento, non fluido, anzi anelastico direbbero gli economisti, perché per l’economia intera la disoccupazione è il male assoluto.

E poi, perdere un lavoratore, anche per sempre, per un’impresa significa perdere la formazione fatta, il know-how, la conoscenza dei clienti, dei macchinari, il patrimonio di relazioni umane e sociali che ogni lavoro contiene.

Insomma, per dire che se cala il PIL, non sale subito e automaticamente il tasso di disoccupazione. Accade poco dopo. Gli inglesi lo chiamano “labour hoarding”. Attenzione, lo stesso accade quando il PIL risale. Perché le imprese dopo un lungo periodo di crisi sono guardinghe e procrastinano le scelte di assunzione e fanno lavorare di più quelli che sono già occupati, prima di assumerne di nuovi.

Detto ciò, è chiaro che quando c’è una recessione e i tassi di disoccupazione aumentano fortemente, come accaduto in Italia, farli risalire diventa il primo dei problemi.

E lavorare e percepire un reddito è sempre meglio che non lavorare. Sappiamo  anche che la domanda di lavoro dipende da tante cose: dalle prospettive economiche percepite, dai tassi di crescita dell’economia in generale, dagli investimenti e dall’andamento dei consumi. In ultimo, la scelta delle imprese di assumere dipende soprattutto da un fattore che si chiama CLUP, ossia del costo del lavoro per unità di prodotto. Un indicatore che non è altro che la sommatoria delle spese per il personale in rapporto alla produttività media del lavoro, ossia quanto valore aggiunto per prodotto è generato dal lavoro.

Il ragionamento sotteso è il seguente: se un lavoratore è più produttivo, a parità di salario, il CLUP è più basso. Se la produttività è ferma e aumentano i salari, il CLUP aumenta, perlomeno disincentivando nuove assunzioni.

Abbandoniamo la teoria, che come tutte le teorie è noiosa, e passiamo a guardare un po’ di numeri.

Intanto collochiamo l’Italia nel resto del mondo.

Nel 2000, in Italia un lavoratore occupato lavorava mediamente l’anno 1.851 ore, 400 ore in più di un tedesco, circa 320 in più di un francese, più della media OCSE e della media di un lavoratore degli USA.

Alla porte della lunga crisi del secondo millennio, già il lavoratore italiano lavorava una cinquantina di ore in meno degli inizi del millennio, fino a lavorarne più di un centinaio di ore in meno, precisamente 1.730, nel 2016. I tedeschi, invece, nel 2000 lavoravano 1.363 ore all’anno, i francesi 1.472, gli americani 1.783.  1763 sono le ore, in media, dei lavoratori OCSE (ultimi dati pubblici su banca dati OCSE).

Quindi, un lavoratore italiano, in media all’anno, ha lavorato negli ultimi quindici anni sempre più ore degli omologhi che parlano tedesco o francese ma sostanzialmente nella media dei paesi economicamente avanzati.

Più nel profondo, l’Istat ci offre una fotografia che ci permette di segmentare gli occupati per ore di lavoro medie settimanali. Anche qui guardiamo gli ultimi dati disponibili.

Gli occupati italiani a fine 2016 sono 22,8 milioni circa, trecentomila circa in meno del 2008 (ndr, a fine 2017, sono poco sopra i 23 milioni).

Nel 2008, il 22% degli occupati lavorava oltre le 41 ore, il 32% 40 ore, il 22% tra le 26 e le 39, il 14% tra le 11 e le 25, il 2% tra un’ora e le dieci ore.

Di contro, nel 2016, il 17% lavorava oltre 41 ore, il 33 % 40 ore, il 24% tra le 26 e le 39 ore, il 15 per cento tra le 11 e le 25, il 3 percento tra un’ora e  le dieci ore.

Perciò, un terzo dei lavoratori italiani lavora 40 ore in media, un quinto circa lavora più di 40 ore, il resto lavora meno.

Perciò, durante la crisi, sembrano aumentati lievemente coloro che lavorano tra le 11 e le 39 ore e sembrano ridursi quelli che lavorano oltre le 40 ore.

Nel complesso, comunque la metà degli occupati italiani lavora almeno 40 ore, se non di più. E dentro abbiamo quelli che lavorano perché è l’orario di lavoro definito da CCNL e quelli che sono workaholic.

E poi ci sono anche quelli che “di necessità virtù”: lavorare di più significa guadagnare di più. Sempre?

In Italia, se correliamo semplicemente i tassi di crescita annui delle ore lavorate con quelli relativi ai salari medi annui, riscontriamo valori positivi. Quando aumentano le ore lavorate da un anno all’altro, tendenzialmente aumentano anche i salari.

Eppure, ad una quantità maggiore di ore lavorate, in valori assoluti, non corrispondono salari medi più alti. L’indicatore assume il segno negativo: nel tempo, ad un numero maggiore di ore lavorate corrisponde un salario medio annuale inferiore.

Le medie, come si sa, tuttavia rischiano di essere fuorvianti, così come le regressioni: le 1.730 ore lavorate in media da un italiano all’anno non sono tutte uguali, non sono pagate tutte uguali e non sono tutte ugualmente produttive, sia perché riguardano settori economici diversi sia perché non siamo tutti “uguali”, nel lavoro come nella vita.

Però è innegabile, e molti l’hanno detto anche di recente, che la questione salariale nel nostro paese inizia ad essere un problema.

Nel 2000, il salario medio annuo italiano era pari a 21 mila euro, a fine 2016 29 mila euro circa.

A parità di potere d’acquisto in dollari del 2016, il salario dell’italiano era pari a 34 mila dollari circa nel 2000, oltre 7 mila dollari in meno dei tedeschi, 18 mila in meno degli americani, mille in meno dei francesi. A fine 2016, il salario medio annuo in Germania è più alto di quello del duemila di 5 mila dollari di quello italiano, 7 mila quello francese,  8 mila quello statunitense, mille in più quello italiano.

Risultato finale al 2016: 36 mila dollari italiani contro 47 mila tedeschi, contro 43 mila i francesi (ultimi dati disponibili OCSE).

Quindi, sì. Lavoriamo più degli altri e siamo pagati meno. D’accordo, perché?

Perché un’ora di lavoro in Italia costa di più che altrove, perché più alto è il carico fiscale che imprese e lavoratori pagano per quell’ora.

Perché quell’ora di lavoro è meno produttiva di quella di tedeschi, francesi, e americani. Gli investimenti formativi e tecnologici, il grado di innovazione, le tecniche di management e il grado di capitale sociale fanno la differenza.

Qui si apre un mondo e in questo mondo la riduzione dell’orario di lavoro può essere contemplata, eccome!

Le nuove tecnologie, anche quelle digitali e “cognitive”, gli investimenti formativi, la riorganizzazione del lavoro e delle tecniche di management in funzione di una maggiore partecipazione dei lavoratori e di ambienti di lavoro più performanti perché più umani, lasciano spazio ad incrementi di produttività delle ore lavorate, a parità di ore di lavoro, e quindi alla possibilità di incamerare maggiori salari, riducendo il tempo di lavoro che può essere dedicato a tutto ciò che è fuori dal lavoro e che, come sappiamo, condiziona negativamente e positivamente il lavoro stesso.

“Lavorare per vivere o vivere per lavorare?” Se lo chiede il cantante de “Lo stato Sociale” nella canzone presentata a Sanremo, “Una vita in vacanza”. Antico dilemma, la cui risposta non può essere nel titolo della canzone, ovviamente ironico.

Eppure, è bene iniziarne a parlare, perché appunto il tempo, in tutti i sensi, sfugge.

Le opinioni dell’articolo sono squisitamente personali.