La vecchia proletaria

Italia: la campagna elettorale e la politica estera

di Christian Elia

Domenica 4 marzo i cittadini italiani aventi diritto si recheranno alle urne per esprimersi sostanzialmente su chi sta avvelenando questo paese con una criminalizzazione dell’umanità migrante, tra chi non criminalizza, ma nel dubbio tace, e chi prende una posizione di civiltà, ma giocando sempre sulla difensiva.

Tutta una serie di temi chiave per l’Italia, sempre più periferia dell’Impero, che forse diventa cinese da americano che era, ma ci lascia sempre ai margini, restano come lettera morta.

Il lavoro, i diritti, il territorio, la sanità e la salute, l’istruzione e la giustizia, la casa e la spesa militare e mille altre cose restano sullo sfondo. Tra questi temi, anche gli esteri.

Da tempo la politica estera italiana è avvitata attorno al tema dei migranti e i dolorosi fallimenti del passato non sembrano aver insegnato nulla.

Per tutti i dossier più caldi della politica estera, rimandiamo a una buona lettura, il dossier dell’Ispi Politica estera dell’Italia: 6 priorità per il prossimo governo, ma esiste un orizzonte oltre la geopolitica.

Pur di portare a casa uno straccio di accordo sui migranti, i governi italiani hanno ricoperto di denaro il regime di Gheddafi, venendone spesso umiliati, e ricoprendo il regime di armi che oggi hanno destabilizzato tutto il Sahel.

Oggi, senza battere ciglio, stringiamo accordi per esternalizzare le frontiere, ricattiamo il governo afgano (come Unione Europea) perché accetti il rimpatrio di persone mandate verso una guerra terribile, trattiamo con il sultano turco Erdogan pur di stringere un cordone di frontiera.

Avere il responso percentuale dei sondaggi come unica bussola dei programmi elettorali non è solo un sintomo, diventa anche una causa, di una politica estera senza strategia, senza identità.

I grandi dossier sono altri, e gli schieramenti si muovono tutti in una sorta di rinvio al post-elettorale, negazione essa stessa come strategia dell’idea di campagna elettorale, dove è proprio sul ruolo dell’Italia nello scacchiere globale che si dovrebbe discutere.

Non è che le proposte non ci siano, nei programmi, ma lo spazio che questi temi e questi dibattiti ottengono nella comunicazione politica e nei dibattiti è risibile se paragonato alla falsa emergenza che furoreggia.

La Russia e l’Ucraina, la Cina, la guerra in Siria, la situazione in Libia, i diritti umani in Turchia ed Egitto, l’Afghanistan, l’Europa orientale. l’Iran e l’Arabia Saudita e mille altri dossier.

Gli schieramenti, se si esclude il tema dell’Europa – anche qui al centro di una lettura forzata, in chiave migrante (tanto per cambiare) o sovranista – eludono i grandi temi, se si esclude la proposta di lasciare la Nato (Potere al Popolo) e di occupare un pezzo di Libia (Casapound), in memoria degli orrori coloniali.

E’ oggettivo che l’evoluzione delle dinamiche sovranazionali, come appunto la Nato o l’Ue, abbiano ridotto lo spazio di manovra delle medie e delle piccole potenze, ma è altrettanto vero che sono tanti i settori dove è necessario avere un’identità, una strategia, un discorso politico.

Questo discorso potrebbe trovare una sua coerenza all’interno del mono tema elettorale: quello dei migranti. Un drastico intervento sulle spese militari e sulla vendita di armi, connessa a un piano nazionale di riconversione, che deve creare un posto di lavoro in più, non in meno, è il primo passo.

Il secondo passo può essere quello di tornare a investire in una cooperazione internazionale che abbia un senso, rigida nel controllo, ma efficace nell’investire in una azione capace di contrastare le disuguaglianze crescenti di questo mondo.

Per finire, non si può più immaginare di scindere la lotta ai pericoli globali da un lavoro di intelligence che nulla ha più a che fare con l’intervento armato, che amplifica odio e instabilità, senza portare alcun risultato.

Assieme a una politica estera capace di tenere i diritti umani al centro delle azioni di Stato, perché solo recuperando una credibilità in questo senso, potremo tornare ad avere una voce globale.
Assieme a una politica estera capace di ripensare la propria dipendenza energetica, per cambiare passo nelle relazioni internazionali.

In questo senso, la gestione dell’omicidio di Giulio Regeni è e deve restare un monito. A non mollare, prima di tutto, nel pretendere la verità, ma anche e soprattutto a non essere mai più così vili nel pretendere giustizia.

Perché un paese può non essere una grande potenza, ma può essere dignitoso e coerente con i suoi principi, altrimenti rischia di non esistere più.