Italia, ci scusiamo per il disagio

Alla vigilia delle elezioni, riflessioni su un’economia sempre più segmentata tra sommersi e salvati.

Di Clara Capelli

Il lavoro. Il lavoro che non c’è. Il lavoro malpagato. Il lavoro che ti sfianca, fisicamente e mentalmente. Il lavoro che può sfuggire via, lontano, perché altrove costa meno. Il lavoro grande cruccio di questi mala tempora, in una Repubblica fondata su di esso, ma che dal 2012 ha il pareggio di bilancio in Costituzione e nell’Unione europea del Fiscal Compact, tutti dimentichi dei principî del pieno impiego.

Ma come se lo immaginano il lavoro questi politici in campagna elettorale?

Un reportage di Marina Forti per Internazionale sulla zona di Milano e dintorni mostra molto bene come l’Italia sia sempre più economicamente segmentata: tra settori di eccellenza legati all’export e attività produttive scorporate, esternalizzate, delocalizzate alla ricerca di costi del lavoro più contenuti, come suggerisce la questione Whirpool-Embraco; tra professioni moderne, cool e ben pagate e un mondo di salari scarsi, bassi e precari, bene raccontato dal recente libro Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana ed esemplificato nelle problematiche sindacali dalla vicenda Amazon.

Guardare alle segmentazioni del mercato del lavoro è in fondo un altro modo, se si vuole, per affrontare il tema della “disuguaglianze” tanto sventolato in questi ultimi anni.

Sono decenni che la classe politica italiana ha in buona sostanza abdicato alla programmazione economica: non di pianificazione statalista, bensì di governo delle dinamiche economiche, dalla promozione attiva dell’impiego e della produttività all’intervento a sostegno di tutti i perdenti che qualunque processo economico lascia dietro di sé.

Parte della classe imprenditoriale ha rifuggito il ruolo produttivo per inseguire i ritorni della finanza, oppure ha portato i capitali altrove alla ricerca di condizioni più favorevoli e forza lavoro più a buon mercato; altri hanno chiuso i battenti, sconfitti dalla concorrenza internazionale.

Tutto ciò senza dimenticare che, benché scalzato da altri trend come quello delle generiche “periferie”, la questione delle disparità regionali permane. Nonostante Palermo Capitale della Cultura 2018 e i flussi turistici sostenuti a Napoli e in Puglia, i dati ISTAT continuano a mostrare un enorme divario del Mezzogiorno rispetto al Nord.

Pur riconoscendo che le trasformazioni dell’economia sono intrinseche alla Storia dell’uomo, le soluzioni offerte negli anni passati non sembrano essere state granché efficaci per evitare che l’Italia, come altri Paesi, ne venisse travolta.

Dal Pacchetto Treu fino al Jobs Act, la “flessibilità” dell’impiego è stata uno dei grandi temi di dibattito e intervento, in linea con una Weltanschauung che preferisce l’efficienza ai diritti e ci vuole agili e dinamici e mutevoli, ma finendo per contribuire a un circolo vizioso in cui la precarietà di contratti e redditi contrae i consumi e chiama altra precarietà. E mentre la forbice tra sommersi e salvati si allargava, i problemi si infittivano e lo spazio d’azione della politica nazionale in un contesto globale si restringeva.

Come si ricostruisce il tessuto produttivo italiano e il mercato del lavoro nell’epoca della globalizzazione?

Si parla di flat tax come misura per alleggerire il carico fiscale e incentivare chi “vuole fare impresa”; una proposta accattivante, ma marcatamente iniqua (anche con conoscenze matematiche elementari si intuisce che il 15% di carico fiscale su un reddito elevato ha un peso differente rispetto a uno medio-basso) oltre che priva di solidi fondamenti teorici – per quale ragione un risparmio fiscale dovrebbe tradursi pressoché automaticamente in sostenuti tassi di investimenti produttivi? – e conferme empiriche (i pochi Paesi che applicano la flat tax non brillano certo per le loro performance economiche).

Si parla molto anche di reddito di cittadinanza, altra misura interessante e degna di dibattito, ma solo se inserita in una seria discussione sui rapporti tra capitale e lavoro e sull’interazione con il sistema di welfare.

Si può e si deve investire in istruzione, ma sempre tenendo a mente che non basta avere più laureati se l’economia non evolve per assorbirli; lo stesso vale nello specifico per gli ingegneri tanto cari ai discorsi positivisti: gli ingegneri da sé non fanno innovazione, è il sistema in cui operano e i mezzi finanziari a disposizione che lo consentono, come chiaramente spiega Mariana Mazzucato in Lo Stato Imprenditore.

Il compito è arduo, specialmente alla luce del fatto che l’Italia si misura con un assetto di concorrenza globale e di libera circolazione di capitali, oltre a dover rispondere a una serie di vincoli europei – su tutti il Fiscal Compact -, e ad avere le armi spuntate per l’impossibilità di disporre dello strumento della politica monetaria (il tema dell’euro, forse uno dei più complessi dei nostri tempi, è stato solo sussurrato durante questa campagna elettorale).

Con buona pace dei sovranisti, ottenere risultati significativi da sé è impossibile perché nella Storia si cambia, ma non si torna indietro. Diversamente da quanto credono i sostenitori dell’efficienza, il mercato non è la forza magica che ti conduce all’ottimo, è un processo in cui forti e meno forti interagiscono.

Questa campagna elettorale è stata l’ennesima occasione sprecata per riflettere sul futuro della Repubblica che un tempo fu fondata su lavoro, appiattendosi a una sorta di referendum sui migranti. Eppure, secondo l’ultimo rapporto annuale della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione, anche i migranti, quando non emarginati nel mondo dell’informalità, sono confinati in settori ben precisi, sicuramente non “di status”, bensì poco stabili, poco produttivi e mal pagati (braccianti agricoli, addetti ai servizi alla persona e alle pulizie, camerieri, facchini, etc. etc.). Un destino comune quello dello scivolamento verso i gradini più bassi dell’economia, quelli che più difficilmene si possono risalire, quelli più penalizzati da distratte politiche economiche.

Rimane l’auspicio che il 5 marzo rappresenti l’inizio di una serie di laboratori che producano molto più che programmi elettorali cui si dà un rating di gradimento, non un voto politico. Cominciando da come ci immaginiamo l’Italia “al lavoro” del futuro: possibilmente meno precaria, più equa, ricca di anticorpi contro gli agitatori d’odio e i loro spauracchi.