La notte che la repubblica non volle affrontare

Finalmente passato il 16 marzo, con tutto il carico che si portano gli anniversari tondi, riaffiorano domande o critiche che ci dicono una volta di più che quel periodo non fu mai affrontato nel Paese.

di Angelo Miotto
@angelomiotto

Quarant’anni dopo il caso Moro la memoria ha riportato in vista alcuni dei protagonisti di quella tragedia, in senso greco, e di quegli anni che vennero chiamati di piombo, di violenza politica, di lotta armata. Giornali e televisioni hanno dedicato spazio e ricostruzioni; i cosiddetti approfondimenti o speciali hanno riportato davanti alle telecamere i carnefici di allora, uomini e donne delle Brigate Rosse.

Il dibattito che si è sviluppato subito dopo le prime apparizioni è significativo dei nostri tempi, in cui tutto viene affermato con parole scolpite sulle pietre, senza possibile mediazione di un dibattito. Una maniera molto ‘social’ che dimostra una debolezza e una insicurezza radicata profondamente nelle elite intellettuali di oggi, che sono poi per età quello che erano giovani o addirittura bambini in quegli anni. C’è chi si è scandalizzato che in trasmissioni televisive parlassero i brigatisti. Come se lo sforzo di ricostruire attraverso le testimonianze, tutte, fosse un esercizio da classificare come ingiusto.

Si è addirittura arrivati a sentire più voci che non fanno mistero di pensare che chi non si è pentito non dovrebbe parlare, o addirittura (ignoranza del nostro sistema di garanzie), che dovrebbe essere ancora in carcere, anche se la pena è ormai assolta.

Certo è vero che non è solo sgradevole, ma una violenza verso i famigliari delle vittime e le vittime stesse che si possano lasciare ex brigatisti di fronte alla possibilità di poter usare un palco, nella ricorrenza di una strage che oltre a Aldo Moro coinvolse cinque agenti di scorta, Zizzi, Iozzino, Rivera, Leonardi, Ricci (qui le loro bio).

Ma siamo di fronte a reazioni scomposte e del tutto inaspettate, non dei familiari delle vittime ma di molti che, incapaci di sopportare anche gli ultimi veleni di chi incarna solo per cerimonia da anniversario ancora un ruolo, si butta in richieste che poco hanno a che vedere con un sistema di garanzie faticosamente conquistato.

In tutto ciò sarebbe abbastanza facile ricordare che chi scelse la via della lotta armata, che è cosa diversa dal terrorismo, nel corso degli anni oggi è responsabile di ciò che fa o dice in maniera individuale: si è dissociato oppure no, si è pentito oppure no, non si occupa più di politica, se ne occupa ancora, e via così per altre possibilità che riguardano scelte individuali, mentre la condizione di libertà condizionale o di altre misure detentive riguarda i casi singoli processuali e la storia di ogni persona che ha subito un processo.

Cioè quello strumento che la comunità si è dato, con tanto di regole che sono nelle procedure e in un sistema di garanzie, che è valso anche allo spietato omicida una difesa legale. La forza della tenuta democratica delle istituzioni è questa.

La forza della tenuta democratica delle istituzioni non fu la politica della fermezza, ma il fatto che non si abdicò alle richieste di prevedere pena di morte, mentre alcuni episodi della lotta antiterrorista furono sicuramente efficaci, ma ebbero poco a che spartire con le regole. La lotta armata venne sconfitta con i ‘pentiti’ e sui metodi di indagine non si fece qualcosa di diverso da molti stati democratici che usarono più la ragion di stato che la dichiarazione universale dei diritti.

Oggi assistiamo ai miseri show di brigatisti irriducibili, miseri ed esecrabili. Dove all’ottusità di chi rimane su posizioni incomprensibili va aggiunta una particolare stupidità di chi fornisce palco e microfono e nel caso più spregevole, quello delle dichiarazioni di Balzerani, anche una bandiera rossa con scritto Viva Lenin.

Ma queste cronache che indignano sono resoconti di stilettate di fantasmi, incapaci di collocarsi nella timeline temporale. Quello che resta, invece, è il dovere di interrogarci su che cosa abbia digerito questo Paese di quell’epoca, di quello scontro, così drammaticamente torbido.

Le reazioni a quarant’anni dall’omicidio di Aldo Moro ci dicono ancora una volta che quel periodo non è stato metabolizzato. Fu chiuso.

Fu sangue e morti, fu dolore e doveva essere chiuso. Politicamente si volle assecondare una rimozione collettiva, e non lo dice chi scrive, ma il fatto stesso che a quarant’anni di distanza si sia ancora qui a chiedere numi agli ex brigatisti, ad aspettare parole che dovremmo, avremmo dovuto conoscere a menadito già da un pezzo, perché parte di una storia nazionale capace di affrontare e riconoscere le proprie debolezze.

Il ruolo dei servizi, nazionali e internazionali, il ruolo dell’amico americano, che nel compromesso storico certo non vedeva rose e fiori per la portaerei naturale del Mediterraneo che è l’Italia, un mondo diviso in blocchi, le triangolazioni con forme di lotta armata straniere, funzionali all’uso di tattiche che oggi conosciamo ancora meglio, dopo tante lezioni che abbiamo dovuto imparare fra ribelli armati da superpotenze, che poi si trasformano in elementi destabilizzanti che richiedono le truppe delle stesse superpotenze a combatterli, in un gioco di rovesciamento di ruoli che si basa su calcoli e simulazioni che vengono elaborate da sistemi sofisticati, lasciando noi umani e i commentatori, sempre indietro nel poter capire, descrivere, commentare la realtà.

Il dibattito che avremmo dovuto affrontare sarebbe stato doloroso, avrebbe coinvolto spezzoni dello stato stesso, avrebbe anticipato le verità di tangentopoli sui finanziamenti ai partiti, avrebbe minato alla base il senso di fiducia fra cittadini e istituzioni stesse. Non che quarant’anni dopo ci si senta molto meglio, anzi siamo curiosamente arrivati a una situazione di discredito della politica partitica che lascia il governo del Paese in un caos che difficilmente vedrà una stabilità protagonista in tempi brevi.

Mi pare si sia arrivati così alla demonizzazione dei carnefici, come se potessimo mai pensare che la pena, o gli anni, potessero, anzi dovessero mostrarceli oggi rispettosi delle vittime, delle regole, capaci di dirsi sconfitti, umili, mansueti, capaci di rivelarci i segreti che aspettiamo di conoscere da tanti anni. I brigatisti, dicono autorevoli giornalisti, sono omertosi, come in una mafia.

E lo saranno anche. Non tutti, ognuno ha la sua storia, il diritto all’oblio anche. Ma lo Stato? Abbiamo davvero fatto i conti con quel periodo storico della repubblica? Rimane per voi tutti solo come una guerra che oppose uno spezzone di fanatici sovversivi armati contro il baluardo delle istituzioni o il Sistema delle Multinazionali? Il memoriale di Aldo Moro non ci ha insegnato nulla? Lo stato è scappato. Si è dileguato.

Anzi spezzoni dello stato, perché parliamo di decisioni prese in poche stanze. Gli anni Ottanta furono di oblio, fino al 1992 con il mariuolo Chiesa e il 1994 con la discesa in campo berlusconiana. Non tutto è stato detto, né scoperto, né confessato di quei giorni, non solo di Moro e della sua scorta, ma lungo tutto un periodo costellato dallo stragismo nero (1969) fino a Bologna, con in mezzo il fenomeno brigatista. Fino alla trattativa stato-mafia, o ai comunicati della Falange armata, le infiltrazioni, le deviazioni e prima ancora le operazioni alla Gladio.

Non limitiamoci a dire di questo o quella che sono arroganti, che andrebbero puniti se non si pentono.

Furono l’espressione di una rivendicazione che in una stagione di questa repubblica arrivò ad avere un esercito numeroso e una connivenza e base ideologica di appoggio non di poco conto, fra album di famiglia e professori universitari compiacenti. È un fatto.

Furono assassini spinti da motivi politici e non delinquenti comuni. È diverso. Negarlo è farsi vanto di una posizione ideologica, non di adesione alla realtà. E furono la causa di dolore, tanto e immenso dolore. Furono protagonisti per la loro furia.

Oggi solo alcuni di loro, pochi, anzi pochissimi,  si approfittano di una platea. Ma oltre all’indignazione e allo sdegno ci deve essere anche responsabilità di chi estende inviti, la comprensione del fatto che tre minuti al sole, che fanno male alle vittime, sono il fiato di una polemica che non ha ali per volare.

Interroghiamoci invece, facendo memoria di quegli anni;  dell’Italia rimasta senza notizie, soprattutto per la decisione delle democratiche isitituzioni di stendere un velo, più o meno pietoso, su quei giorni. Questo è anche il diritto alla giustizia dei familiari, tutti, delle vittime. Questo sarebbe stato il percorso migliore, forse, per evitare i colpi di coda degli anni Ottanta e Novanta.