I limiti del mercato

Un approccio rigoroso e onesto alla scienza economica e alla critica del capitalismo

Di Giuseppe Daconto

Paul De Grauwe è senza dubbio uno dei principali economisti europei. Belga, professore prima all’Università belga di Lovanio, ora alla London School of Economics, è stato più volte consulente della Commissione Europea ed è opinionista su Financial Times e altri giornali internazionali, nonché su piattaforme online come VoxEU.

Il suo libro Les limites du marchés. L’oscillation entre les autorités et le capitalisme  (De Boeck, 2015, non ancora tradotto in italiano) è molto chiaro, non appartiene a quegli economisti che parlano difficile e spiegano male, e ce ne sono. L’economia non è poi tanto complicata se la si spiega bene e con semplicità. La prefazione del libro è a firma del prof. Fitoussi, economista forse più noto in Italia, anche per le sue varie connessioni con il sistema economico e universitario italiano.

Il libro non è recentissimo, è stato pubblicato nel 2015, ma contiene per la gran parte ragionamenti, riflessioni, problemi dell’economia di oggi, soprattutto europea.

Il titolo è eloquente: i limiti del mercato. Ma non è ideologico. Un approccio rigoroso e onesto alla scienza economica non può far a meno di constatare che il mercato capitalista ha dei limiti sempre più evidenti, come dei limiti li ha lo Stato. E il prof. De Grauwe non li nasconde.

Il sottotitolo sintetizza il cuore del ragionamento. L’oscillare tra lo Stato e Capitalismo non è solo di tipo storico, nel senso che nella storia dell’umanità ci sono state fasi ed economie più o meno stato-centriche, più o meno capitalistiche. Sul primo versante resistono praticamente in pochissime, Cina, Corea del Nord e Cuba, con le dovute differenze.

Ma l’oscillazione è anche quotidiana ed anche ontologica: tradire il pendolo significa negare l’evidenza della realtà e, in ultimo, avere una società dove il benessere è meno diffuso e, in definitiva, si sta peggio.

Dodici capitoli per spiegare, con un buon livello di racconto storico, quali i limiti del mercato, interni ed esterni, macro e microeconomici, quali quelli dello Stato e della politica.

Si tratta di un riassunto che racconta di pro e di contro, che usa i numeri con parsimonia e solo se necessari. Nessuna dittatura della matematica nel testo.

Tutto parte da una constatazione, umana prima che economica.

Funzioniamo più o meno così: abbiamo due sistemi che decidono i nostri comportamenti per noi, uno più lento, di tipo razionale, l’altro, più veloce, che si muove secondo il nostro sistema di valori, il nostro senso di giustizia, le nostre emozioni. Non c’è una prevalenza di uno con l’altro, ma c’è compresenza e continua interazione tra i due. E conflitto.

Un semplice gioco per capirne il senso (del tipo “Ultimatum game”).

Una persona riceve cento euro e l’altra non ha nulla. I due devono condividere “un importo”. Se chi possiede l’intero importo, offrisse anche solo un euro a chi non ha nulla, farebbe la migliore scelta razionale: massimizza il proprio interesse e massimizza anche quello di chi non ha nulla. In fin dei conti, un euro è meglio di zero.

Nella realtà, le sperimentazioni dicono che la scelta verrà sempre rifiutata dall’altro individuo, che vedrà l’euro come una elemosina e non come un accordo accettabile. In media il livello accettabile di chiusura dell’accordo è di 70/30. Perciò, il senso di giustizia ed equità influisce nei comportamenti e, in alcuni casi, confligge con la razionalità, che è alla base del capitalismo.

Un piccolo esempio, spiegato meglio ovviamente nel testo dal professore, che racconta in sostanza come le dinamiche che sono alla base del mercato concorrenziale di tipo capitalistico, che sostanziano quasi tutti i modelli economici, non sono sempre efficaci e realistiche.

Il mercato capitalistico ha in sé molti limiti e spesso produce situazioni non ottimali per la società. D’altronde alla base vi è il criterio di “efficienza paretiana”, ossia raggiungere l’equilibrio in cui almeno un soggetto sta meglio senza che altri siano scontenti.

Destreggiandosi tra tesi di Premi Nobel, non sempre concordanti, il prof De Grawue racconta molto efficacemente i limiti del mercato capitalistico: esternalità negative, ad esempio, il riscaldamento globale senza fine e i movimenti finanziari che con la loro “esuberanza” diffondono con estrema facilità malattie e titoli tossici; asimmetrie informative, che amplificano meccanismi opportunistici e il moral hazard degli agenti economici; il disinteresse rispetto alle dinamiche redistributive della ricchezza e alla povertà; la pretesa di credere che il mercato possieda di per sé i meccanismi di auto regolazione; il gioco/conflitto tra motivazioni intrinseche (passione per fare qualcosa) e estrinseche (incentivi finanziari o remunerativi), ad esempio nel lavoro o nelle attività di volontariato.

Nella realtà, la scienza economica da tempo studia i correttivi: i sistemi fiscali per incentivare/punire/compensare i meccanismi virtuosi o dannosi, da quelli individuali, si pensi alle tasse sull’inquinamento, a quelli collettivi, si pensi alla fiscalità necessaria al sistema sociale o alla redistribuzione della ricchezza, che, contrariamente a certi miti, fa più bene all’economia della concentrazione nelle mani di pochi.

Il ruolo dello Stato, perciò, è fondamentale quando anch’esso non cade in alcune trappole e nei suoi limiti: esclusività delle classi dirigenti, decisioni prese per interessi di parte e non collettivi, un potere coercitivo che spesso può essere controproducente, il moral hazard connesso alle leggi e ai comportamenti dei cittadini (se c’è lo Stato che paga o altri che pagano le tasse al posto mio…).

Oltre a ciò, una via al rimedio di questi fallimenti del gioco concorrenziale esiste e si chiama cooperazione, tra gli agenti economici così come tra i policy makers.

Per passare dalla teoria alla pratica, il professore smonta alcune tesi ormai passate nella teoria ma ancora purtroppo valide nella pratica.

Come, ad esempio, il fatto che la concentrazione della ricchezza verso pochi individui comporti una maggiore crescita economica (curva di Kuznets e dintorni), semmai è vero il contrario. Oppure, ad esempio, la convinzione che la riduzione dei deficit pubblici comporti automaticamente maggiore crescita economica e riduzione del debito pubblico: la storia recente dell’Europa racconta il contrario. Oppure, il mito della competitività verso l’esterno basata esclusivamente sulla svalutazione del lavoro, ossia su una riduzione del costo del lavoro orario, che comporterebbe automaticamente una maggiore crescita economica: basta prendere alcuni Paesi super competitivi per vedere che la legge non è automatica (vedi i paesi nordici).

Infine, il professore si concentra sui principali problemi dell’oggi.

Il primo. Si tratta della redistribuzione della ricchezza, seguendo l’approccio di Piketty e la sua regola bronzea (quando il tasso di rendimento del capitale è superiore al tasso di crescita economica, l’accumulazione del capitale si concentra nelle mani di pochi), che rappresenta un problema economico e, al contempo, di instabilità politica, di più ampia portata.

Il secondo è relativo all’architettura (fragile) dell’Eurozona, basata su regole asimmetriche tra paesi creditori e paesi debitori, basata sui fantomatici benefici dell’austerità, basata sull’assenza di meccanismi di garanzia collettivi e su una banca centrale completamente indipendente, basata sull’assenza, in definitiva, di un’unione politica e fiscale comune.

Il libro è antecedente all’uso del “bazooka” da parte della BCE di Draghi (il cosiddetto Quantitative Easing), agli inizi del 2015, che era nell’aria dalla famosa dichiarazione del “Whatever it takes” del 2012. La storia racconta che il massiccio acquisto di titoli da parte della BCE ha immesso un’enorme mole di liquidità nell’economia europea, risollevandone le sorti e allentando i pericoli per la zona euro. Si è trattato di politiche monetarie ed economiche “non convenzionali” proprio perché non rispondenti a logiche mainstream, codificate, bensì a scelte dettate dalla straordinarietà del momento. Proprio qui il punto.

Proprio perché l’economia è come un pendolo, i pericoli non sono da escludere a priori nel futuro (importanti saranno forse le decisioni o le non decisioni che si prenderanno a Bruxelles nei prossimi mesi su questi temi).

A noi, sta, come suggerisce il professore sul finale, prevenire gli scenari economici peggiori attraverso politiche riformiste che, ad esempio, completino la (monca) Eurozona della parte politica e fiscale che le manca, portino a ridurre efficacemente la scandalosa corsa alla ricchezza personale e all’aumento delle disuguaglianze.

Anche se non subito attuate, dice il professore citando Albert Camus, per queste politiche val la pena lottare. Giorno per giorno, come un Sisifo, felice di spingere il proprio masso di idee su per la montagna, anche se questa può sembrare agli occhi di molti una punizione. Anzi agli occhi razionali di molti.

Invece, come abbiamo visto, per fortuna, i comportamenti umani, anche economici, non sono solo razionali.