Elezioni in area Mena: dalle primavere arabe, passando per l’inverno islamista, ritorna la calda estate autoritaria
di Francesco Petronella
“Al-Sha’b yurìd isqàt al-Nizam”.
“Il popolo vuole la caduta del regime”.
Sono passati sette anni da quando slogan come questo venivano scanditi da piazze ricolme di manifestanti in diversi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa.
Oggi, dopo che il vento delle rivolte ha generato profondi cambiamenti nella politica di questi paesi, molti dei loro cittadini sono chiamati a scegliere il proprio futuro tramite il voto.
Per capire il panorama in cui Libia, Egitto, Tunisia e Iraq si avvicinano all’appuntamento elettorale, può essere utile ripercorrere le tappe fondamentali di questi ultimi e travagliati anni.
Un fatto luttuoso, la morte dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, è passato ormai alla storia come la miccia che mise in moto la macchina della protesta. All’epoca vennero battezzate “primavere arabe” tutte le proteste contro i regimi che seguirono la morte di Bouazizi.
Quello che accadde quell’anno, a partire dal dicembre 2010 in Tunisia, è ormai passato alla storia con questa definizione etero-imposta, eurocentrica e ideologicamente connotata. “Primavere arabe”, per sempre, applicando il metro di Praga ’68.
Diversi i motivi, diverse le condizioni, diversi gli esiti delle Primavere Arabe.
Tracciare una panoramica sui risultati a cui i movimenti di piazza hanno portato ciascun paese è operazione assai complessa. Esistevano, tuttavia – ed esistono tutt’oggi – elementi comuni tra la Libia di Gheddafi, la Siria degli Asad, l’Egitto di Mubarak, la Tunisia di Ben Ali e lo Yemen di Saleh.
In realtà l’elemento comune è uno solo ma dotato di grande complessità: il regime.
Partiamo da una riflessione di natura linguistica. La parola usata in arabo per “regime”, come evidenziato nell’incipit di questo articolo, è il termine “nizam” che in senso letterale vuol dire “sistema” – “ordine”.
La differenza non è pacifica, considerando che, mentre il termine “regime” assume immediatamente quella connotazione politica negativa affibbiatagli dalla storia del ‘900 europeo, il termine “sistema” permette di comprendere più a fondo la struttura di potere che le piazze arabe tentarono di abbattere, o al limite di riformare, nel 2011.
Gli uomini forti di ciascun paese, Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Asad, Saleh, non rappresentavano altro se non la punta dell’iceberg di un sistema (ndr) in grado di penetrare in modo ramificato tutti i gangli della vita economica, sociale e culturale dei rispettivi paesi.
Sul funzionamento, sulle caratteristiche e sulle modalità con cui questi “sistemi” hanno imbrigliato per decenni i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, sono stati scritti fior di articoli specialistici ma, a titolo di esempio, basta ricordare il caso della Tunisia.
Un paese tutto sommato povero, in cui la ricchezza e le funzioni economiche d’eccellenza (terziario) erano limitate alle grandi città della costa. Un paese in cui, a questa distribuzione della ricchezza e della produttività assai disomogenea, si aggiungeva il controllo da parte della famiglia del rais Ben Ali di alcune delle aziende più importanti del Paese.
Stesso dicasi per la Siria di Asad, in cui più dell’ 80% della ricchezza era concentrata nelle mani di una cerchia ristretta di persone vicine alla famiglia presidenziale, e via via allontanandosi da questo “cerchio magico”, alle famiglie alawite e alla borghesia (sunnita o sciita) ammanicata con tale sistema. Il discorso è allargabile, di fatto, a tutti i sistemi sopra menzionati e le immense ricchezze di Mubarak (70 miliardi di dollari di patrimonio personale) e di Gheddafi (220 miliardi di dollari) dicono più di mille parole.
Per la vita quotidiana dei cittadini, questo stato di cose aveva come diretta conseguenza la necessità di sottostare a corruzione, nepotismo, concussione e repressione arbitraria da parte degli apparati di sicurezza.
Ma torniamo alla storia. Seguendo l’esempio dei tunisini, che scesero in piazza contro il regime di Ben Ali a dicembre del 2010, anche gli egiziani, i libici, gli yemeniti e i siriani occuparono lo spazio pubblico, facendo del 2011 un anno di svolta nella politica del Medio Oriente e del Nord Africa.
Le sollevazioni portarono alla rovesciamento di Ben Ali in Tunisia, di Mubarak in Egitto, di Saleh in Yemen e, con il tanto vituperato intervento Nato, di Muammar Gheddafi in Libia. Ben più complessa fu la situazione creatasi in Siria, dove il regime di Asad rispose immediatamente, dopo qualche apertura di facciata, con la più feroce repressione pur di non farsi scalzare.
Quello che si materializzò agli occhi del mondo, all’indomani delle Primavere Arabe, fu un fenomeno che alcuni analisti ribattezzarono metaforicamente “inverno islamista”. Infatti i Fratelli Musulmani, movimento politico che vuole porre la legge islamica al centro dell’elaborazione del diritto di ogni stato, ascesero politicamente in tutte le sollevazioni di piazza dei Paesi arabi finendo per monopolizzarle. Le piazze arabe, riempitesi in un primo momento di istanze laiche che richiedevano (a seconda dei luoghi) pane, libertà e giustizia sociale, finirono per tingersi di un colore politico vicino all’islam militante.
Tante le teorie e le ipotesi che tentano di spiegare questa egemonizzazione islamica delle Primavere arabe. Una possibile chiave di lettura sta nel fatto che le forze laiche non abbiano avuto il tempo né la possibilità di elaborare un’alternativa politica forte e chiara da proporre agli stati in fase transizionale.
Questo ha avvantaggiato l’islam politico che, forte di decenni di esperienza associativa e di welfare dal basso, ha mostrato una capacità di coordinamento molto efficace e propositiva.
Piazza Tahrir, il luogo simbolo del riscatto egiziano a partire dal 25 gennaio 2011, fu egemonizzata dai Fratelli Musulmani, che colsero l’occasione per riscattarsi dopo anni di marginalizzazione politica. Furono loro, tramite il partito “Libertà e Giustizia”, a vincere nel giugno 2012 le elezioni presidenziali che portarono all’ascesa di Mohamed Morsi.
In Tunisia, invece, le elezioni per l’assemblea costituente, celebrate ad ottobre del 2011, videro il trionfo del partito di ispirazione islamica “En-Nahda”, fondato da Rashid Ghanouchi nel 1991 e tutt’ora nella coalizione di governo insieme al partito “Nida’ Tounes”, formazione di cui fa parte l’attuale presidente della repubblica Beji Caid Essebsi.
Il partito islamico yemenita al-Islah ascese politicamente e finì per guidare la rivoluzione che defenestrò il rais Ali Abdallah Saleh, assassinato a dicembre scorso dai ribelli Houthi.
Per quanto concerne la Libia, lo status quo sancito dagli accordi di Skhirat del 2015 ha legami profondi con l’islam politico locale. Assolutamente dominato dalla Fratellanza Musulmana, infatti, era il Congresso Nazionale Generale di Tripoli (organo non riconosciuto a livello internazionale), i cui membri votarono la fiducia al Governo di Accordo Nazionale negoziato sotto l’egida dell’ONU e presieduto da Fayez al-Serraj. La controparte libica della Cirenaica, dominata dall’autoproclamato Esercito Nazionale Arabo Libico del generale Khalifa Haftar, ha fatto invece della lotta all’islam militante e al terrorismo jihadista il proprio mantra politico.
Quanto alla Siria, poi, l’ingresso in campo di attori esterni come Qatar, Turchia e Arabia Saudita contribuì ad un’improvvisa islamizzazione della rivolta contro il regime di Asad, nata con richieste e presupposti laici e liberali. Gruppi armati di ispirazione islamista riempirono il paese dall’esterno ma anche dall’interno, grazie anche alla “misteriosa” amnistia concessa proprio da Asad ad agosto del 2011. Questa misura rimise in libertà molti leader dei gruppi jihadisti storici siriani come Hassan Aboud (gruppo Ahrar as-Sham) Zahran Alloush (Jaysh al-Islam) e Ahmad abu Issa (Suqur as-Sham). In una fase successiva, anche Jabhat al-Nusra (al-Qaida in Siria) ed il sedicente Stato Islamico fecero il loro ingresso nello scacchiere politico-militare siriano.
Più complesso il panorama in Iraq dove, a causa delle politiche di de-ba’thizzazione messe in campo sin dall’invasione americana del 2003, più che di “inverno islamista” si può parlare di “sciitizzazione della politica”. La corrente sciita, infatti, dopo essere stata assoggettata per anni alla minoranza sunnita sotto il regime di Saddam Hussein, ha riacquistato un ruolo di primaria importanza durante le elezioni del 2010 e del 2014 con le presidenze di Nouri al-Maliki prima e di Haider al-Abadi dopo.
Discutere dell’Iraq in questa sede non è fuori luogo come potrebbe sembrare. Come riportato in un ottimo volume intitolato Rivoluzioni violate, edito nel 2016 a cura di “Osservatorio Iraq” e “Un ponte per…”, il Paese dei due grandi fiumi non è stato assolutamente immune o indifferente all’ondata di protesta che ha sferzato il mondo arabo nel 2011.
Tuttavia, il conflitto a bassa intensità innescato (e abbandonato) dagli americani, la paura generata dai continui attacchi bomba da parte di gruppi qaidisti e l’ascesa del gruppo Stato Islamico (poi Stato Islamico in Iraq e nel Levante), fanno del Paese mediorientale un caso del tutto particolare.
Rivoluzioni violate si diceva, appunto. Si tratta di una definizione particolarmente adatta a descrivere ciò che è avvenne dopo il 2011.
Manifestazioni, slogan, proteste di popoli stanchi e schiacciati dalla dittatura, monopolizzate dall’islam militante prima e neutralizzate dalle vecchie strutture di potere poi. Le primavere arabe hanno dimostrato quanto sia valido quell’esempio, relativo alla rivoluzione francese, che chiarisce la capacità del potere di cambiare e trasformarsi senza mai perire: decapitato Luigi XVI, si dice, fu ucciso il re, ma non il potere.
A distanza di sette anni, alcuni dei paesi che nel 2011 tentarono di respirare un’inedita boccata di libertà, sono chiamati al voto. Tra essi, in particolare, Iraq, Tunisia, Libia, Egitto.
Secondo quanto stabilito dalla Costituzione irachena, la carica di primo ministro è riservata a un membro della comunità sciita, questo a simboleggiare il riscatto ottenuto da tale comunità confessionale a seguito della caduta di Saddam. Le elezioni parlamentari, che segneranno la nascita del nuovo governo, sono state fissate dal parlamento per il 12 maggio.
Il 21 gennaio la Corte suprema federale aveva rifiutato la proposta dei legislatori sunniti e curdi di posticipare la data delle elezioni per permettere a migliaia di persone, sfollate a causa della guerra, di tornare nei loro territori di appartenenza per recarsi alle urne.
La proposta è stata giudicata anti-costituzionale e le elezioni avranno luogo nei tempi stabiliti.
Secondo quanto riportato da al-Jazeera, l’attuale primo ministro Haider al-Abadi, che ricopre la carica dall’11 agosto 2014, ha deciso di candidarsi nuovamente, puntando sulla sua popolarità tra la maggioranza sciita in Iraq, ottenuta dopo aver guidato per tre anni la lotta contro i militanti dello Stato Islamico, e sull’appoggio della coalizione internazionale, a guida americana.
Inoltre, al-Abadi ha anche (per il momento) arginato il rischio di una separazione del Kurdistan iracheno, sancita dal referendum di settembre ma mai riconosciuta da Baghdad. Uomo forte e carismatico, al-Abadi è anche riuscito ad accreditarsi di fronte ai leader occidentali grazie ai suoi incontri con Theresa May, Donald Trump ed Emanuel Macron.
Con i roboanti proclami di “vittoria sull’Isis” e rassicurazioni verso le comunità cristiane locali, il premier in carica potrebbe essere l’uomo del momento in questa fase della storia dell’Iraq. La storia di questo paese e di questo quadrante geografico, però, ci ha insegnato che quando il potere rimane troppo tempo e con troppa intensità nelle mani di una sola comunità confessionale, il malcontento delle altre può tradursi in violenza e settarismo.
Il fatto che Daesh, il sedicente Stato Islamico, sia nato da ex-membri del partito ba’th marginalizzati dal nuovo corso sciita e da estremisti sunniti, non è assolutamente un caso.
Qualche giorno fa il presidente della repubblica tunisina Beji Caid Essebsi ha dichiarato: “Dobbiamo prepararci per le prossime elezioni a dicembre 2019″ senza specificare, però, di quali elezioni stesse parlando. Sia le elezioni legislative che quelle presidenziali, infatti, sono previste per l’anno prossimo.
Il dato interessante riguarda un’iniziativa da parte dell’attuale capo dello stato per avviare la Tunisia verso una sistema semi-presidenziale parlamentare, in modo da lasciare maggiori poteri nelle mani del presidente della Repubblica stesso. A riportarlo è il sito “Acharaa” citando fonti interne definite affidabili.
Più volte, in realtà, Essebsi ha criticato l’attuale sistema di governo, sottolineandone lentezze e imperfezioni.
Secondo la fonte, l’iniziativa del presidente prevede, nella sua seconda parte, l’introduzione di emendamenti alla legge elettorale prima delle elezioni presidenziali. Questo può essere inteso come un tentativo, da parte di Essebsi, di correre per un secondo mandato con poteri più ampi.
In Egitto, le elezioni presidenziali del 26-27 marzo 2018, i cui risultati ufficiali saranno pubblicati il 2 aprile, hanno già un vincitore annunciato: il presidente in carica Abdel Fatah al-Sisi, il rais che ha instaurato, se possibile, un regime ancora più feroce di quello di Mubarak.
Un uomo che si è tristemente fatto conoscere dalla cronaca italiana per la vicenda che ha colpito il ricercatore italiano Giulio Regeni.
La scomparsa e la morte del giovane friulano al volgere del 2016, rappresenta ancora oggi una cartina di tornasole utile per comprendere il contesto sociale e politico in cui le elezioni egiziane vanno a celebrarsi. Il capo dell’agenzia Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, a seguito del ritiro a ruota di tutti i possibili sfidanti di al-Sisi, ha sostenuto che le elezioni egiziane si svolgono in un “diffuso clima di intimidazione”.
I potenziali candidati, infatti, sono caduti uno dopo l’altro come birilli a seguito di ritiro o di arresto.
Come ricorda Catherine Cornet in un articolo intitolato Nelle elezioni egiziane Al¬-Sisi sfida Al-Sisi, i candidati sono venuti meno in quest’ordine: Sami Anan, vicino ai Fratelli Musulmani, è stato arrestato; Khaled Ali, avvocato per i diritti umani, è stato condannato a tre mesi per “offesa alla decenza pubblica”; Ahmed Shafik, ex premier egiziano, si è ritirato a causa delle pressioni subite; Mohamed Anwar al-Sadat, nipote dell’ex presidente egiziano Anwar al-Sadat, si è ritirato.
L’unico sfidante ancora in sella è Moussa Mostafa Moussa, un aperto sostenitore dell’attuale presidente.
Più che di un vero e proprio concorrente sembra di aver a che fare con un cartonato dello stesso al-Sisi. In un articolo per EastWest, inoltre, Costanza Spocci osserva che il vero obiettivo di al-Sisi, assai malcelato, è quello di riformare la costituzione ed eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono tra lui e la presidenza a vita.
Altro obiettivo è quello di registrare una buona affluenza alle urne, da cui deriverebbe una buona legittimazione popolare. Insomma, quello delle elezioni in Egitto sembra un risultato già scritto, che rischia di far sprofondare il paese delle piramidi in una nuova e calda stagione autoritaria fatta di repressione, sparizioni forzate, torture e morti ignobili come quella di Giulio.
In Libia i due massimi leader del paese, Serraj e Haftar, non hanno praticamente alcuna forma di controllo su grosse porzioni del territorio e, in particolare, sulla parte meridionale del paese.
Questa zona è un vero e proprio ricettacolo di attività criminali che vanno dal traffico di esseri umani al transito di jihadisti dal quadrante mediorientale.
Nonostante questa situazione frammentaria, in cui il bipolarismo Tripoli-Bengasi è poco più che uno schema di facciata, il Piano d’Azione delle Nazioni Unite prevede per quest’anno elezioni parlamentari e presidenziali, teoricamente a settembre prossimo. Alle due figure già accreditate del panorama politico libico, Serraj e Haftar, si aggiunge il ritorno alla ribalta di un altro possibile candidato alle future presidenziali: il figlio del defunto Rais libico, Saif al-Islam Gheddafi.
Il delfino dell’ex presidente, infatti, si starebbe preparando a scendere in campo tentando di risolvere le pendenze legali che ancora gravano sulla sua figura.
In particolare, il delfino è attualmente impegnato in una causa contro il deputato di Tobruk Abu Baker Bouaira per calunnia e diffamazione, ma anche (e soprattutto) pende su di lui l’accusa di aver ordinato violente repressioni nella prima fase della rivolta che ha deposto il suo defunto padre. Per questa accusa, prima di essere amnistiato a giugno 2017, Gheddafi jr ha già scontato diversi mesi di prigionia, presidiato dalla milizia Zintan.
Serraj, rivelano fonti locali, ha difficoltà a controllare persino l’intero distretto di Tripoli, in cui imperversano diverse milizie; Haftar è un uomo duro e attrezzato che ha nella forza militare la propria carta vincente; Gheddafi jr è un frutto, forse un po’ più moderno e liberale, del vecchio establishment gheddafiano.
Gran parte del Paese non risponde al controllo di nessuno di questi tre leader e il quadro in cui la Libia si avvia verso le elezioni è davvero complesso. Probabilmente aveva ragione l’esperta di Libia Michela Mercuri quando osservava che forse “Sarebbe necessario invertire la prospettiva: non elezioni per stabilizzare la Libia, ma tentare di stabilizzare la Libia prima di indire elezioni”.
In conclusione, quella che sembra profilarsi all’orizzonte, dopo le primavere arabe ed il freddo inverno islamista, è una calda estate autoritaria.
Una stagione che, come il ciclo naturale ci ricorda, è destinata periodicamente a tornare. In paesi sinistrati dalla guerra come la Siria e lo Yemen, i peggiori disastri umanitari di questo secolo, le elezioni, libere o meno che siano, sembrano essere per ora una chimera.
Questa panoramica dovrebbe far riflettere: se le rivoluzioni arabe sono state violate è anche colpa nostra. Qualcuno, a ragione, sostiene che la primavera araba era la nostra primavera, ma noi l’abbiamo fraintesa, ignorata o, nel caso della Libia, drogata con la nostra forza militare per poi abbandonarla.
Cosa ancora peggiore, abbiamo creduto alla retorica del “regime change”, ritenendo che le piazze arabe ricolme di giovani, di sogni e di speranze fossero solo il frutto di un progetto esterno diretto da altri.
Una retorica che, puntualissima, è tornata alla ribalta di fronte alle proteste esplose in Iran all’inizio di quest’anno. Diceva qualcuno: ritenere i popoli arabi così incapaci di pretendere in autonomia un cambiamento è semplicemente una forma di volgare e semplice razzismo nei loro confronti.