Sette anni dopo la rivoluzione iniziata il 25 gennaio 2011, le donne in Egitto non si arrendono,
anche se la loro sicurezza non è migliorata affatto. Quattro ritratti di queste resistenti di tutti i giorni
testo di Camille Toulmé* e Michele Spatari**
immagini di Michele Spatari
Il 25 gennaio l’Egitto è entrato nel suo ottavo anno dopo la rivoluzione, a due mesi da elezioni generali praticamente a senso unico. Nello stesso giorno del 2011, Piazza Tahrir al Cairo e via Qaed Ibrahim ad Alessandria sono in fermento, nere di un mondo in cerca di libertà, metà donne. Alcune sono costrette a mentire alle loro famiglie per partecipare alle manifestazioni, altre scelgono di correre il rischio. Per molte di loro, i primi momenti della rivoluzione sono sinonimo di liberazione e indipendenza. I lunghi cortei sono luoghi di dibattito in cui le donne egiziane hanno accesso a nuovi ideali. Si sentono abbastanza sicure da poter alzare le loro voci pubblicamente.
Poi, lentamente, il movimento si trasforma e le donne diventano bersaglio di violenze e aggressioni. Sette anni dopo, nella città classificata nel 2017 dalla Thomson Reuters Foundation come la più pericolosa al mondo per le donne, quattro manifestanti del 2011 raccontano le loro esperienze.
Per alcune la rivoluzione ha già avuto luogo e questi atti di violenza servono solo ad accentuare una consapevolezza che si stava già formando. Somaya Tarek Ebeid aveva 18 anni quando partecipò per la prima volta alle proteste di Piazza Tahrir. “Vengo da una famiglia molto conservatrice dove non mi è stato concessa nessuna apertura verso l’esterno. Senza telefono, senza internet, niente, e quando andai alla prima manifestazione a piazza Tahrir, scoprii un intero mondo”. Rapidamente, decide di passare le sue notti nella piazza e tornare a casa solo di tanto in tanto per cambiarsi e prendere dei soldi.
Oggi, la giovane donna vive in un compound, nome usato per le gated communities egiziane, a un’ora di auto dalla capitale. Ha fatto questa scelta dopo essere stata assalita al Cairo nel 2015. “Stavo tornado a casa e un uomo mi ha bloccato, per la strada. Ho cercato di difendermi e mi ha picchiato.” Somaya allora decide di sporgere denuncia alla polizia, aprendo la porta ad un lato ancora più oscuro della sua società.
Il suo assalitore, condannato a due settimane di detenzione, appena esce si vendica e va sotto il palazzo di Somaya ad Heliopolis con altri uomini: con un coltello le sfregia la faccia in strada, in pieno giorno. In seguito a questa seconda aggressione, Somaya decide di rendere pubblica la sua storia e testimoniare ai media: continua ancora oggi la sua battaglia e progetta di creare la propria organizzazione per i diritti delle donne.
Ogni piccolo gesto è una dichiarazione politica, in una società che percepisce donne che portano vestiti corti o che fumano come provocatrici e oscene. Somaya non si nasconde negli atteggiamenti e nei vestiti, nonostante esca raramente dal compound di Madinaty e porti sul viso una cicatrice dall’angolo della bocca all’orecchio destro, doloroso segno della sua scelta di lottare.
Nonostante manifestazioni e proteste siano sempre meno frequenti a causa del giro di vite contro i network degli attivisti, barriere di cemento e checkpoint sono ancora presenti intorno agli edifici governativi, per scoraggiare assembramenti politici e dare la sensazione di un ambiente urbano altamente militarizzato. Nonostante la situazione attuale, Nada Abdallah dice che “se non ci fosse stata la rivoluzione, non avrei mai potuto organizzare un movimento contro le molestie sessuali”.
Dal 2012, l’attivista femminista organizza gruppi di autodifesa dove le manifestanti imparano a difendersi contro le violenze sessuali durante le proteste, e dove le vittime di molestie possono ricevere sostegno psicologico. Ma Nada si interessa all’argomento ben prima della rivoluzione. Nel 2008, impara alcune tecniche di autodifesa per insegnarle alla sua cerchia di conoscenti. In quel periodo, poche di loro osavano partecipare alle manifestazioni. “La violenza sessuale ovviamente già esisteva, ma le vittime avevano paura di parlare, perché spesso si rivoltava contro di loro, contro il loro modo di vestire o addirittura contro il loro modo di camminare per strada” ricorda Nada.
Durante la rivoluzione, il livello di violenza delle aggressioni ha portato l’argomento alla ribalta e ha permesso a Nada di convincere sempre più donne a parlare senza paura. “La gente rimase sorpresa della nostra manifestazione dell’8 marzo 2011, durante la Festa della Donna, dove denunciammo tutte le diverse forme di violenza sessuale. Eravamo numerose e organizzate”.
Da allora, Nada è diventata una delle figure femministe del Cairo. Sette anni dopo, ritiene che la situazione stia migliorando sul piano legale ma che il problema sia ancora estremamente presente nella società. “La cosa più difficile per me è affrontare gli sguardi della gente. Come femminista sono isolata, la maggior parte crede che io sia pazza. Anche costruire una famiglia, è difficile trovare un uomo che accetti il mio modo di pensare e di vivere. Sicuramente ci sono persone che mi sostengono, ma la maggior parte mi attaccano”.
Nel 2017, la Thomson Reuters Foundation ha classificato la città come la più pericolosa megalopoli al mondo per le donne. Con una popolazione intorno ai 19 milioni di abitanti (2016), la vita delle cittadine della capitale egiziana è minacciata da mutilazioni femminili e matrimoni forzati, aggiungendosi all’altissimo rischio di di molestie e violenze sessuali nella vita pubblica e privata.
Nel 2011, mentre cerca di unirsi alle proteste, Amal viene chiusa nella sua stanza dai genitori. “Mio padre era molto severo e per lui era inimmaginabile che una donna potesse andare alle manifestazioni”, ricorda. Decide quindi di organizzarsi da casa preparando pacchi di cibo e medicine che vengono poi inviati a piazza Tahrir. Con la scusa di riprendere il suo posto di lavoro nel marketing riesce successivamente a unirsi alle proteste.
“Ero molto prudente perché avevo già sentito parlare delle aggressioni. Sono andata a piazza Tahrir diverse volte fino a quando ho parlato con una donna che era stata violentata da un gruppo di uomini, per strada” spiega Amal. È la goccia che fa traboccare il vaso, Amal rimane sconvolta e si chiude in casa per diversi mesi, terrorizzata dalla prospettiva di dover affrontare di nuovo la strada.
“Non andavo più al lavoro, anche uscire sul gradino della porta era un problema, ho passato il mio tempo su internet a leggere i vari resoconti che raccontavano degli attacchi alle donne durante le manifestazioni”. Amal decide di riprendere a studiare e orientarsi verso l’educazione dei bambini. Questo la aiuta a uscire di nuovo per strada e, lentamente, torna a partecipare alle marce che si svolgono ogni venerdì, dopo la preghiera del pomeriggio. “La rivoluzione mi ha terrorizzato, ma mi ha anche aperto delle porte, la gente discuteva molto durante le manifestazioni e ho potuto ascoltare cose che non avrei mai immaginato possibili prima”. Tutto ciò porta Amal a pensare per la prima volta a viaggiare da sola e studiare all’estero. Ed è l’unica soluzione che vede possibile, a 34 anni, per avere l’indipendenza che i suoi genitori le negheranno finché non si sposerà.
Nel 2011, Yousra Mohamed ha 22 anni e decide di andare da sola alle prime proteste: “Tra i miei amici e la televisione ho sentito di tutto, avevo bisogno di farmi la mia opinione.” Senza dirlo ai suoi genitori, scende per le strade di Alessandria il 28 gennaio 2011, poche ore prima che i gas lacrimogeni saturassero l’aria.
“Anche se i miei genitori mi davano sufficiente libertà, tanto che non mi dovevo giustificare per uscire, non mi avrebbero mai permesso di andare da sola alle manifestazioni” ricorda Yousra. Tra il 2011 e il 2013, mentre la violenza contro le donne aumenta, continua a partecipare alle manifestazioni del venerdì pomeriggio. “Ero molto ambiziosa durante quel periodo, volevo partecipare a tutte le iniziative che si svolgevano” ricorda la giovane donna.
Le celebrazioni pubbliche come il Mulid, dove grandi folle si mescolano a fanatismo religioso, vedono scene comuni di molestie e aggressioni verso donne, impunite, al punto che possono partecipare solo accompagnate da loro famigliari, o in alcuni facoltosi casi, guardie del corpo.
Yousra non si riconosce nei movimenti femministi che si stavano creando, per lei troppo estremisti, e ci si allontana. “In classe, i miei professori mi chiedevano se sostenevo i Fratelli Musulmani, solo perché indossavo l’hijab. C’è stato persino un periodo in cui ho pensato di togliermi il velo per dimostrare agli altri che non era vero”. Oggi, Yousra è divisa tra due mondi: “Da un lato, mi dicono che sono una “cattiva” ragazza perché vivo da sola e non voglio sposarmi, dall’altro mi dicono che sono mentalmente ritardata perché indosso il velo e non bevo”.
Per Yousra, i commenti sul suo stile di vita sono l’esempio di una società egiziana diventata troppo polarizzata. Si è appena trasferita da sola in un appartamento, anche se non sposata, e riceve pressioni dal suo proprietario. Quest’ultimo vorrebbe un duplicato delle chiavi e insiste nel sapere chi la viene a trovare. “Oggi sento che la rivoluzione mi ha permesso di osare nel dire quello che penso più fermamente, ma ho anche l’impressione che gli uomini non si nascondano più nel molestarci. È una cosa pubblica, è come se non dovessero nemmeno vergognarsi”.
*Camille Toulmé è una giornalista francese, laureata in Cinema documentario all’ESEC di Parigi e studentessa al Master della Scuola di Giornalismo di Strasburgo. Dal 2015 lavora in Medio Oriente per testate francesi e libanesi, principalmente su temi legati al femminismo, alla memoria e alle migrazioni.
**Michele Spatari è un fotogiornalista italiano, laureato in Architettura e studente al Master in Fotogiornalismo dell’ISFCI di Roma. Dal 2015 sviluppa una pratica documentaria concentrata sulla comprensione dei corpi e dello spazio: come politica, religione e riti sociali influenzano le società urbane contemporanee, con particolare interesse nel Mediterraneo.