Un bel giorno ti accorgi che siamo noi. Invece, credevi che fossero gli altri.

Ennio Flaiano, Diario Notturno, Adelphi, 333 p., 16 euro.

di Fabrizio Coppola

L’ho letto di sera, a letto, in uno dei pochi momenti della giornata che posso interamente dedicare a me stesso – me stesso nel senso di essere disperso nell’universo a bordo di una specie di palla che percorre una sua orbita più o meno stabile intorno al sole del suo sistema solare.

E si è dimostrata una lettura più che adatta a sorridere – anche se con amarezza, magari – sulle brutture del giorno appena passato, sulle storture psichiche di noi scimmie erette, sulle debolezze e la vigliaccheria che mai come in questo periodo storico sembrano incombere su di noi, dall’esterno e dall’interno.

Parole per deridere la ricerca di un equilibrio irraggiungibile, per sventare ogni tentativo di buonsenso razionalista, per – soprattutto – scoraggiare la sensazione di fallimento da cui si può essere assaliti alla lettura (online) del quotidiano o passeggiando per le strade di una qualsiasi città del nostro occidente dimentico di sé.

Come una palla pazza che non segue mai un percorso lineare, il Flaiano di questo Diario Notturno sembra spingerci a riderci sopra, cambiando registro e modo a ogni pagina, ridendo degli altri prima di ridere di noi stessi, osservando la pazzia negli occhi altrui prima di ammettere che solo il bulbo oculare in cui alberga l’insanità mentale può davvero riconoscerla intorno a sé.

Un libro per alleggerire il macigno di responsabilità che, volenti o nolenti, ci portiamo appresso, quella pesantezza storica dell’essere italiani, del cercare di dimostrarsi diversi ma in fondo di appartenere a pieno titolo e diritto a questa stirpe che si potrebbe definire maledetta se in fondo in fondo non fosse altro che la barzelletta di una simile genia, una copia poco convincente del male e un ritratto assai deludente del bene. Un libro per non smettere di cercare di essere migliori. Di seguito alcuni passi che mi sono appuntato sera dopo sera.

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I nomi collettivi servono a far confusione. «Popolo, pubblico… ». Un bel giorno ti accorgi che siamo noi. Invece, credevi che fossero gli altri.

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Davanti ad un caffè di via Veneto due fotografi americani prendono istantanee della gente troppo benvestita che si gode il sole. Passano poi a fotografare i mendicanti che stazionano sulla porta del caffè. Disapprovazione dei presenti. Escono tre giovani, pretendono che i fotografi si allontanino, non vogliono offese all’amor patrio. La gente applaude. Si dicono frasi sul «popolo italiano», i fotografi vengono invitati a tornare al loro paese, a lasciarci alla nostra «dignitosa miseria». I mendicanti approvano, non smettono tuttavia di chiedere l’elemosina, benché con aria più dignitosa di prima, anzi un po’ nazionalista. Dopotutto – sembra vogliano dire – i mendicanti italiani sono i migliori del mondo.

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Volere è potere: la divisa di questo secolo. Troppa gente che «vuole» piena soltanto di volontà (non la «buona volontà» kantiana, ma la volontà di ambizione); troppi incapaci che debbono affermarsi e ci riescono, senz’altre attitudini che una dura e opaca volontà. E dove la dirigono? Nei campi dell’arte, molto spesso, che sono oggi i più vasti e ambigui, un West dove ognuno si fa la sua legge e la impone agli sceriffi. Qui, la loro sfrenata volontà può esser scambiata per talento, per ingegno, comunque per intelligenza. Così, questi disperati senza qualità di cuore e di mente, vivono nell’ebbrezza di arrivare, di esibirsi, imparano qualcosa di facile, rifanno magari il verso di qualche loro maestro elettivo, che li disprezza. Amministrano poi con avarizia le loro povere forze, seguono le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione, impassibili davanti ad ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Finché la fama si decide ad andare a letto con loro per stanchezza, una sola volta: tanto per levarseli dai piedi.

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Ogni giorno si ha notizia di un tale che uccide la propria moglie. La cosa è diventata da tempo tanto normale che anni fa un giornale romano uscì con questo titolo: «Uccide la suocera scambiandola per la moglie». Le vittime sono tutte brave donne. Se ne potrebbe arguire che la bontà della moglie è un rimorso insopportabile, da eliminare fisicamente. Così, le mogli buone vengono uccise, le mogli cattive campano a lungo. Cercare l’origine del male nella madre: non ci hanno forse costretti a far soffrire la madre buona e a restar vittima della madre egoista? In realtà, l’uxoricida è quasi sempre un matricida ritardatario.

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Fine di serata: «Ma sì, mi dia un bicchiere d’acqua. Non minerale, acqua pira. Voglio provare. (Beve). Com’è buona! (Riflette). Ogni tanto bisognerebbe bere un po’ d’acqua… assaggiane anche tu, vero che è buona? Ti dico, riporta all’adolescenza, ah, che tempo felice, incantato, sospeso…» e comincia a raccontare di quando era adolescente. Forse ci scriverà anche un libro.

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I fascisti sono una trascurabile maggioranza. Personalmente, ne conosco uno che ogni volta che mi vede si illumina di gioia e minaccia di mettermi una bomba «sotto casa». Io mi mostro lusingatissimo. Questo della bomba è per lui un segno di considerazione; non la metterebbe al primo venuto, a me invece sì, molto volentieri. E ha l’aria di aggiungere che se non mi ha ancora «messo» la bomba è perché, in fondo, mi vuol bene, mentre dubita che io gliene voglia. Mi dimostra quindi il suo rifiutato affetto come può; mi stima fino all’attentato. Un giorno il fascismo sarà curato con la psicanalisi.

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Quando un tale mi dice: «Ho un’idea» e insiste per esporla, so di che si tratta: di un’idea che resterà nel suo bozzolo. Tutti hanno idee, ma il difficile sta proprio nel domarle, nel mettersi a tavolino e vincere lo sgomento della carta bianca, l’indifferenza delle parole che non vogliono collaborare, la piattezza delle frasi che escono bell’e fatte, l’ipocrisia delle buone soluzioni. Oh, il difficile non sta nel drizzare l’uovo di Colombo, ma nel covarlo.