Il corpo delle donne

“Di’ agli uomini che restiamo” è una rubrica per tutti, ma in onore delle donne. Specialmente quelle che non hanno permesso che le lasciassero indietro. Quelle che hanno detto “Vengo anche io, e ci vengo alle mie condizioni.” E anche per quelle che invece sono state lasciate a casa, come le mogli del racconto di Raymund Carver. È anche per loro, perché non sono da sole. E perché spero che un giorno potranno raggiungerci.

di Elena Esposto

Una mattina di qualche settimana fa intere zone di Milano si sono svegliate tappezzate con foto di tette. Sì, esatto. Tette. Tette di tutti i tipi. Bianche, nere, sode, cascanti, con i capezzoli a punta, rotondi o non depilati, con i piercing, i nei e le smagliature. Tette normali, quelle che affollano gli spogliatoi femminili delle palestre o delle piscine.

La campagna #feelthenipple (hashtag che accompagnava tutte le foto), è stata lanciata da due studentesse, per protesta contro la censura che Instagram, ma non solo, applica al corpo delle donne.

In un’intervista a The Submarine hanno dichiarato: “È sì un progetto contro la censura dei social, ma anche contro una censura in senso più ampio – per questo ci interessa attaccarli sui muri e non semplicemente pubblicare le foto su Instagram. Per noi non è solo una censura virtuale, digitale… e ne è stata dimostrazione il fatto che la gente si è messa a grattare via proprio solo il capezzolo dalle foto che abbiamo attaccato ai muri di Milano: allora non stiamo solo parlando di Instagram che ha un problema con i capezzoli, ma si tratta di un problema diffuso. Il problema della relazione con la nudità in generale c’è anche al di fuori dei social network.”

È indubbio che il tema della censura contro la nudità, specialmente se si parla di corpi femminili, potrebbe incontrare un certo scetticismo. Del resto, il corpo delle donne è ovunque. In TV, sulle riviste di, perfino sui cartelloni che pubblicizzano olio per motori, tanto che delle studentesse di Palermo si sono sentite in dovere di coprirli (censurarli?) appiccicandoci sopra slogan femministi.
Eppure, grattando sotto la patina di apparenza, ci si accorge in fretta che la censura è un fatto reale. A quante donne è capitato di rinunciare ad andare al lago o in piscina perché non sono riuscite a prendere appuntamento dall’estetista? Quante si sono sentite in imbarazzo in costume da bagno a causa della cellulite o delle smagliature? Quante, durante le mestruazioni, hanno camminato mezzo metro davanti all’amica che aveva il fondamentale compito di controllare che non si fossero sporcate i pantaloni? E quante si sono sentite morire dentro quando invece succedeva? Vi chiedete cosa centra? Centra. Perché anche quella è censura.

È censura ogni volta che il reale corpo delle donne viene nascosto o denigrato.

Perché finché sembriamo bambole di gomma (o di porcellana, per i più sensibili) va tutto bene, possono metterci anche sulle scatole dei cereali. È quando ci mostriamo per quello che siamo davvero che iniziano a sorgere i problemi, e di questo i social network sono maestri imbattuti.
Lo dimostra la costante battaglia di Instagram a profili di cinque artiste intervistate da Dazed & Confused.
Una di queste è Rupi Kaur, che ha subito il ban di Instagram per una foto che la ritraeva sdraiata sul letto, di spalle, con una macchia di sangue sui pantaloni e sul lenzuolo. L’immagine, che fa parte di ‘period’ un progetto che mira a decostruire il taboo delle mestruazioni, non aveva niente di pornografico, né di offensivo. Ritraeva una situazione nella quale qualunque donna sopra i 12 anni poteva identificarsi.
Nel re-post sul social Rupi scrive: “Sanguino tutti i mesi per far sì che l’umanità diventi possibile. Il mio ventre è casa del divino. Fonte di vita per la nostra specie. Sia che io decida di generare oppure no. Ma raramente è visto così. Nell’antichità questo sangue era considerato sacro. In alcune civiltà lo è ancora oggi. Ma la maggioranza delle persone, delle società e delle comunità evitano questo processo naturale. Sono più a loro agio con la pornificazione della donna, la sua sessualizzazione, la violenza e la degradazione. Non si mostrano scandalizzati o disgustati da queste cose. Ma si arrabbiano o vengono disturbati da questo. Abbiamo le mestruazioni e ci considerano sporche, in cerca di attenzione, malate, un fardello. Come se fosse meno naturale che respirare. Come se non fosse un ponte tra questo universo e quello passato. Come se non fosse amore, fatica, vita, altruismo e qualcosa di meravigliosamente bello”.

Tra gli oltre quindicimila commenti ce ne sono molti positivi ed estasiati, che ringraziano l’artista per il suo coraggio. Molti altri invece sono disgustati e scandalizzati. Tra i più frequenti quelli che considerano la foto disturbante o inappropriata, che credono che le mestruazioni non siano qualcosa da postare su Instagram, qualcosa che nessuno vuole vedere.
Guardando le foto del progetto di Rupi, insieme a quelle dei profili di Molly Soda, Arvida Byström e Alexandra Marzella, le altre donne intervistate da Dazed and Digital, questa domanda può indubbiamente sorgere spontanea. A chi interessa vedere i tuoi pantaloni macchiati di sangue? I peli sotto le tue ascelle o attorno al tuo inguine? Probabilmente a nessuno. Eppure queste immagini sono importantissime, fondamentali per distruggere le millenarie strutture che imprigionano i corpi delle donne.

Per riabituarci a vedere ciò che è normale e naturale, e che solo restrittive e maschiliste regole sociali ci hanno insegnato a dover nascondere e schifare.

“Le donne sono sempre spinte verso standard irrealistici” afferma Alexandra Marzella, a cui Instagram ha eliminato il profilo almeno 16 volte, a causa dei suoi autoritratti irreverenti e senza filtri. “Siamo collocate in modelli e categorie, e quando non ci rientriamo siamo esaminate, sfidate e odiate. Le artiste in questo panel stanno offrendo qualcosa di diverso, stanno forzando la mano”.

Molte delle immagini di queste artiste sono volutamente provocanti, spesso esagerate e con l’obiettivo di smuovere le coscienze e scandalizzare. E per farlo si espongono non solo a insulti e offese gratuite, ma anche ad un rischio.

Come puntualizza Searah Lee: “Credo ancora che essere una donna online ti renda particolarmente vulnerabile all’oggettificazione e sessualizzazione, ma credo anche che questo possa essere interpretato come una forma di responsabilità, la responsabilità di sfidare la nozione di donna come un mero oggetto sessuale. Le donne dovrebbero essere legittimate al totale controllo dei loro corpi, e credo che sia una loro prerogativa condividere o mantenere privato quello che vogliono, senza venire bollate come promiscue”.
Queste donne hanno avuto il coraggio di sfidare le policies di Instagram, che al parere di Molly Soda replicano solo la visione della donna nella società in senso più ampio, assumendosi il rischio di esporre il proprio corpo in tutti le sue forme e situazioni, e di vedere il lavoro di mesi cancellato con un colpo di spugna dal social network, nel caso in cui decidesse di eliminare le loro foto o chiudere i loro profili. Non sono state le uniche, comunque.

Nel marzo del 2016 The Cut ha raccontato la storia di Francie che ha deciso di condividere una sua foto pochi secondi dopo aver dato alla luce sua figlia.

L’immagine, pubblicata, tra l’altro, in un gruppo chiuso che promuove il parto in casa, la ritraeva in ginocchio sul letto, con in mano la bambina ancora legata a lei dal cordone ombelicale. Facebook sembra non aver gradito, e come reazione le ha bloccato il profilo lasciandola ri-accedere solo dopo aver dimostrato di non avere altre foto pornografiche nei suoi album. “Perché questa foto di un parto, bella, emozionante, e praticamente senza sangue, che mostra solo pochi centimetri di peli pubici e un capezzolo, è stata considerata offensiva e pornografica?” si domanda Sara Tucker sul sito Mom.me.
È una lunga lotta quella che ci riporta al autentico senso della nudità. Finché cose naturali come il parto e le mestruazioni, o ovvie come un seno nudo tornino ad essere quello che sono. Naturali e ovvie. Finché non ci sarà più bisogno che il Papa in persona intervenga a dare il permesso alle madri di allattare in chiesa. O in Inghilterra non sarà più necessaria la legge che abolisce la discriminazione contro le donne che allattano in luoghi pubblici (che poi, è una legge del 2010).

Solo quando questa lotta sarà vinta noi donne potremo smetterla di sentirci in dovere di nascondere tutto quello che di noi è naturale. Dal sangue che ogni mese inzuppa i nostri assorbenti, dai peli che abbiamo sulle gambe e sotto le ascelle, dalle nostre facce non truccate, dai brufoli e dalle occhiaie, dal fatto che facciamo la cacca (siete sorpresi?), dalle forme più disparate delle nostre tette, così diverse da quelle perfettamente sferiche cui ci hanno abituati anni di Playboy e videogames, dalla nostra cellulite, dalle smagliature, da com’è una donna che ha appena finito di partorire, dai peli pubici (che non sono una prerogativa delle femministe marxiste degli anni Settanta) e dal cordone ombelicale.
Dobbiamo davvero riabituarci a guardare il corpo nudo di una donna vedendo semplicemente quello che è: un corpo nudo, nella sua verità, con la sua bellezza e i suoi difetti. Naturale. E ovvio.