La paralisi del diritto

Si poteva intervenire in Siria rispettando la legalità internazionale?

di Vito Todeschini

foto di Bassam Khabiehm, Douma, eastern Ghouta

All’inizio di aprile 2017 un evento inedito segnò il conflitto siriano: per la prima volta gli Stati Uniti effettuarono un’azione armata in risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime di
Assad.

Il bombardamento della base militare di al-Shayrat, da cui si riteneva fossero partiti gli attacchi chimici contro la città di Khan Sheikhoun, intendeva essere una forma di punizione per la commissione di un crimine di guerra e un deterrente contro ulteriori simili azioni.

Nell’aprile 2018 si è ripetuta una dinamica sostanzialmente identica. Il 7 aprile il governo siriano ha
lanciato un presunto attacco chimico nella Douma, una cittadina situata all’interno del distretto della
Ghouta orientale, nel contesto delle operazioni miranti a riconquistare questa zona della periferia di
Damasco ancora sotto il controllo dei ribelli.

Le minacce di rappresaglia susseguitesi nei giorni seguenti si sono concretizzate nelle prime ore del 14 aprile quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno bombardato tre siti di produzione e stoccaggio di armamenti chimici a Damasco e Homs.

L’azione congiunta dei tre paesi è stata criticata sia sotto il profilo strategico che per la sua palese
illegalità.

Proprio come l’attacco statunitense dell’anno precedente, l’azione militare dei giorni scorsi si pone in netto contrasto con la Carta ONU e il diritto internazionale, secondo i quali l’uso della forza armata è proibito a meno che non sia autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU oppure si giustifichi sulla base della legittima difesa o di un invito esplicito da parte del governo in carica. La Gran Bretagna è l’unico paese ad aver avanzato degli argomenti in favore della legalità dell’azione militare, riproponendo una posizione già assunta nel 2013 in seguito all’attacco chimico nella Ghouta orientale.

La posizione britannica fa sostanzialmente perno sul concetto di intervento umanitario, ossia l’idea
che sia lecito intervenire militarmente in un paese per prevenire o far cessare la commissione di crimini internazionali quali genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, compresa la pulizia etnica.

Tuttavia la maggioranza degli Stati non ha finora accettato che l’intervento umanitario possa considerarsi un’ulteriore eccezione al divieto dell’uso della forza, ragion per cui un’azione militare come quella di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia rimane illegale anche se condotta, stando alle dichiarazioni ufficiali, per fini umanitari. Nel contesto siriano l’unico modo per poter usare la forza armata in modo lecito sarebbe di ottenere un mandato dal Consiglio di Sicurezza, come accaduto nel 2011 con la Libia.

È però noto come la Russia, coinvolta nel conflitto siriano su invito di Assad, abusi del potere di veto e blocchi l’adozione di qualsiasi risoluzione che preveda misure coercitive contro il regime in carica.

Ci si trova allora a un punto morto, con un Consiglio di Sicurezza paralizzato dal veto russo e regole internazionali che proibiscono qualsiasi uso unilaterale della forza armata, mentre i crimini di
guerra e i crimini contro l’umanità commessi da Siria e Russia restano impuniti.

Cosa dire quindi: dobbiamo limitarci a richiedere il rispetto delle regole internazionali anche se queste non permettono una via d’uscita immediata ai massacri quotidiani in Siria? Oppure, in nome di irrinunciabili principi di umanità, si dovrebbe agire militarmente nonostante questo richieda di
infrangere tali regole?

Il dilemma è al contempo morale e giuridico, e tocca nel vivo chiunque creda tanto nella pace e nella risoluzione pacifica dei conflitti quanto nel rispetto dei diritti umani.

Per superare tale impasse c’è chi propone di condurre azioni militari circoscritte per spingere Assad ad accettare una soluzione politica del conflitto, evitando tuttavia qualsiasi intervento di scala più ampia.

In particolare il network di attivisti SyriaUK ha avanzato l’idea di creare una “no-bomb zone” (zona libera dalle bombe). Secondo i proponenti una no-bomb zone avrebbe il vantaggio di evitare l’impiego di truppe sul terreno nonché la penetrazione dello spazio aereo siriano, in modo da minimizzare il rischio di scontri aerei diretti, e al contempo permetterebbe di mantenere una pressione militare costante sul regime di Assad.

Tale azione avrebbe lo scopo circoscritto di proteggere i civili dai bombardamenti e andrebbe condotta tramite navi o aerei situati al di fuori del territorio siriano.

Al concetto di no-bomb zone sottosta una logica detta di deterrenza e ritorsione: al regime siriano e ai suoi alleati sarebbe imposto di cessare gli attacchi contro i civili sull’intero territorio, e alla violazione di tale ultimatum farebbero seguito raid mirati contro obiettivi militari accuratamente
selezionati, come basi militari, piste di decollo o velivoli a terra.

Per scongiurare un’escalation della situazione e un confronto aperto con la Russia, i raid dovrebbero concentrarsi esclusivamente su obiettivi siriani, anche quando sia l’aviazione russa a non rispettare l’ultimatum.

Ciò assicurerebbe l’efficacia della deterrenza e della ritorsione senza dover attaccare direttamente aerei e basi russi. È chiaro che una no-bomb zone realizzata senza l’avallo del Consiglio di Sicurezza sarebbe in contrasto con il diritto internazionale.

Eppure, se si reputa preminente l’obiettivo di porre fine ai bombardamenti sui civili in Siria, si potrebbe pensare all’attuazione di una no-bomb zone che violi nella maniera più limitata e circoscritta possibile le regole internazionali sull’uso della forza.

Due sono le considerazioni rilevanti in tal senso.

In primo luogo si dovrebbe ottenere una risoluzione di supporto da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU, la quale fornirebbe un appoggio politico multilaterale all’intervento militare. Va
ricordato che l’Assemblea Generale nel 1950 ha adottato la risoluzione 377 denominata Uniting for peace con il fine di superare eventuali paralisi del Consiglio di Sicurezza in situazioni di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale.

In questa risoluzione si afferma che il Consiglio di Sicurezza ha una responsabilità primaria ma non esclusiva rispetto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e che in caso di stallo all’interno di quest’ultimo l’Assemblea Generale ha la facoltà di indirizzare le opportune raccomandazioni agli Stati affinché si adottino misure collettive, incluso l’uso della forza. A differenza del Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale non ha però il potere di autorizzare un intervento militare.

Ciò significa che una risoluzione adottata sotto l’egida Uniting for peace, la quale riconosca la paralisi del Consiglio di Sicurezza e supporti la realizzazione di una no-bomb zone a soli fini umanitari, potrebbe fornire una legittimazione di natura politica all’azione militare senza tuttavia sanarne l’illegalità.

In secondo luogo gli Stati che si offrissero di attuare una no-bomb zone in assenza di un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dovrebbero affermare esplicitamente di stare agendo in contravvenzione alla Carta ONU e di essere disposti ad accettarne le conseguenze.

Si tratta di un punto dirimente: un atto che infrange le norme internazionali sull’uso della forza diverrebbe l’occasione per riaffermare la validità e la centralità delle stesse, al contempo sottolineandone i limiti.

Questo è esattamente il contrario di ciò che è accaduto in occasione degli attacchi del 14 aprile rispetto ai quali l’Italia e l’UE, fra gli altri, hanno espresso il proprio sostegno senza al contempo denunciarne l’illegalità.

Per quanto riguarda le conseguenze giuridiche derivanti dall’attuazione della no-bomb zone, gli
Stati che la realizzassero sarebbero obbligati a fare le dovute riparazioni al governo siriano in
termini di compensazione dei danni causati e di scuse formali per non aver rispettato la Carta ONU.

Va sottolineato, d’altro canto, che la gravità della violazione sarebbe considerevolmente attenuata
sia alla luce dei limiti che caratterizzano una no-bomb zone (attacchi mirati contro obiettivi puramente militari e con l’unico scopo di fermare i massacri di civili) sia in virtù del fatto che l’azione unilaterale sarebbe intrapresa in risposta alla paralisi del Consiglio di Sicurezza.

A tal proposito, si può escludere che una no-bomb zone così realizzata possa qualificarsi come un
crimine di aggressione, il quale renderebbe penalmente perseguibili i vertici politici e militari dei
paesi che la attuano.

Sebbene l’analisi di cui sopra riguardi le contingenze del conflitto in Siria, essa potrebbe aiutare in futuro nelle situazioni in cui si debba scegliere se intervenire militarmente per reagire a massacri di civili anche quando il diritto internazionale vieti azioni di tal genere.

Ovviamente non possono prevedersi risposte standardizzate alle crisi internazionali, ognuna caratterizzata da specificità politiche, umanitarie e militari, e le soluzioni negoziate che non prevedano l’uso della forza devono sempre avere la priorità.

Eppure lo sforzo che è necessario portare avanti, e questo deve riguardare anche e soprattutto il campo pacifista e di sinistra, è di trovare soluzioni efficaci che riescano a tenere insieme necessità umanitarie e legalità internazionale.