Uno sguardo al cinema documentario arabo

Dal Film Festival di Gabes, Tunisia

di Alessia Carnevale

Gabes è una città costiera, al sud della Tunisia, famosa per la sua splendida oasi che affaccia sul mare, e per gli impianti dell’industria chimica che la sta gradualmente distruggendo, sfruttandone le risorse idriche, danneggiandone la vegetazione, inquinando l’aria, le acque, il suolo.

Nonostante sia capoluogo di governatorato, per circa trent’anni Gabes non ha avuto un cinema. La quindicina di sale presenti nel paese sono infatti concentrate prevalentemente nella capitale. Da qualche anno però Gabes cerca di uscire dal “deserto culturale” – l’espressione è di un’amica del posto – che da decenni imperversa nella zona, e di far rinascere l’interesse per l’arte e la cultura.

Si è da poco conclusa infatti la 3° edizione del Gabes Film Festival, che sta diventando un evento importante e di ampio respiro. E che quest’anno ha anche inaugurato l’apertura di una sala cinematografica; l’unica per diversi centinaia di chilometri.

Con una competizione per i film di finzione, una per i documentari, una per i cortometraggi, e una per gli studenti, con uno sguardo al cinema mondiale e una giuria internazionale, il festival ha selezionato alcuni tra i migliori film arabi prodotti nell’ultimo anno.

Mi concentrerò qui sul film documentario, il quale, oltre a rivestire un ruolo importante in questo festival, sta oggi conoscendo una stagione estremamente fiorente.

Non è un caso forse, che proprio ad un pioniere del film documentario arabo è stato dedicato un omaggio: durante tutta la durata della manifestazione sono stati proiettati alcuni film del cineasta siriano Omar Amiralay. Nato nel 1944 e deceduto poco prima dello scoppiare della guerra in Siria, Amiralay è accreditato come uno dei più influenti documentaristi della regione. Strenuo oppositore del regime baathista, il regista damasceno ha dedicato la sua vita a filmare i vari aspetti della vita nel suo paese, coniugando la ricerca estetica con l’impegno politico e la documentazione sociologica e antropologica.

Un film come Everyday life in a Syrian village, nel lontano 1974, mostrava quindi la condizione di miseria e di marginalità dei contadini siriani, con un fervore e una puntigliosità militante, ricercando allo stesso tempo la bellezza e la poesia: nei volti rugosi di donne e uomini, nelle crepe della terra arida, nelle linee orizzontali del deserto, nella fatica dei corpi.

Ma è negli ultimi anni che il genere documentario nella regione sta conoscendo un enorme sviluppo, con un incremento di anno in anno di film prodotti, selezionati e premiati nei più prestigiosi festival del mondo. Sarà per la relativa scarsità di mezzi con cui è possibile realizzare un documentario, sarà per il maggiore accesso alle tecnologie, insieme all’urgenza di raccontare e testimoniare, soprattutto in seguito agli avvenimenti che hanno scosso la regione nell’ultimo decennio, sarà ancora l’accresciuto interesse dei produttori e dei fondi europei e americani, fatto sta che il cinema documentario è ormai diventato, anche e soprattutto nel mondo arabo, un’indiscutibile forma di espressione artistica, aperta alla sperimentazione, estremamente versatile e con una carica narrativa ed emotiva potentissima.

Mi limiterò qui ad una breve analisi di alcuni dei film documentari selezionati a Gabes.
È una coproduzione arabo-tedesca, beneficiario di fondi provenienti dagli emirati e da Dubai, il pluripremiato film del siriano Ziad Kalthoum, The taste of cement.

Coniugando l’interesse documentario ad una marcata sensibilità estetica e simbolica, il film proietta le immagini di vita quotidiana dei muratori siriani in Libano.

Sfuggiti dalla guerra nel proprio paese, i lavoratori siriani vivono nel vicino paese mediterraneo come formiche: all’alba fuoriescono dai miseri sotterranei in cui abitano, e si recano ai cantieri per costruire palazzi che toccano il cielo; al tramonto tornano a nascondersi nelle viscere della città. Il Libano nega ai rifugiati siriani diritti basilari, come quello di accedere alla maggior parte delle professioni, e impone loro un coprifuoco.

La voce fuoricampo, l’unica di tutto il film, racconta una storia individuale e quindi comune a tutti i lavoratori. Insistendo sul dualismo tra cielo e terra, tra altitudini e bassifondi, tra esistenza e annientamento, il film mostra il paradosso in cui vivono i protagonisti silenziosi, ingurgitati dallo stesso cemento con cui costruiscono le vette della città. Mentre le loro città vengono rase al suolo.

Unico film tunisino nella competizione documentari, Forgotten/Tounsa, di Ridha Tlili, si pone in un atteggiamento quasi opposto. Realizzato e prodotto in maniera totalmente indipendente e con pochissime risorse, Forgotten privilegia il contenuto alla forma, il messaggio al simbolo; la telecamera è uno strumento diretto, imbracciato per dare voce a delle storie che altrimenti resterebbero inascoltate.

Tlili ha passato tre anni a riprendere la vita quotidiana di quattro giovani uomini della sua città natale, Ben Aoun, nella regione di Sidi Bouzid.

È la regione che ha dato il via alla rivoluzione che nel giro di poche settimane ha fatto cadere il regime di Ben Ali, e scatenato insurrezioni e proteste ovunque nel mondo arabo.

La familiarità che il regista ha con i protagonisti e con la città rende possibile un immersione
totale nella realtà filmata, nell’intimità dei personaggi che si raccontano senza saperlo, svelando i loro pensieri, le loro paure, i loro sogni. Delusi da una rivoluzione di cui sono stati fautori, lasciati ai margini, dimenticati, e spesso perseguiti, dal nuovo sistema di potere, cercano di dare un senso alle loro vite: chi nel teatro, chi nell’impegno politico, chi nel sogno di partire per l’Europa.

È ancora tutto al maschile il documentario Ghost hunting, del palestinese Raed Andoni. Creando un oggetto ibrido, a metà tra finzione e documentario, il regista “ingaggia” alcuni ex-detenuti politici, con lo scopo di ricostruire le esperienze di prigionia nelle carceri israeliane.

Ripercorrendo i propri ricordi, i personaggi lavorano alla creazione di una scenografia che riproduca la prigione nei più minuziosi dettagli. Si impegnano così a recitare le scene vissute in prigione, chi con il ruolo di prigioniero, chi con il ruolo di aguzzino.

Gli improvvisati attori mettono dunque in scena la loro memoria in un esperienza catartica, che fa rivivere il dolore, ma che allo stesso tempo li aiuta a metabolizzare il trauma e ad affrontare con lucidità il passato.

Usciamo dalle vite degli uomini, per passare dunque ad un film che penetra nelle vite femminili di uno sperduto villaggio berbero, nelle montagne dell’Atlante marocchino. Il film della marocchina Tala Hadid, House in the field, racconta con uno sguardo poetico, intimo, leggero, la vita di due ragazze in un contesto rurale e marginale.

Lontana anni luce dalla città pullulante di mercati e di turisti, la vita nei villaggi di montagna sembra quasi rimasta fuori dal tempo. La telecamera indugia sullo splendore della natura, sulla bellezza dei volti, sull’incanto delle feste popolari e della musica tradizionale.

Senza dare facili giudizi, senza offrire semplici moralismi, la regista si immerge in una realtà quasi magica, dove è la ciclicità della natura a scandire il tempo e le vite della gente. Una realtà non sempre generosa, ma che è accettata con il fatalismo di chi non ha alcuna possibilità se non quella di seguire la tradizione che si ripete di generazione in generazione.

La varietà di temi, la diversità nei metodi, sono indice di come il cinema documentario sia oggi uno strumento veramente potente ed eclettico, una forma d’arte e allo stesso tempo uno spazio di investigazione sociale e politico.

Nei paesi arabi, così come nel resto del mondo, esso dimostra di essere in grado di narrare le esperienze più disparate, e soprattutto, di dare voce a contro-narrative, a storie minori, marginali, che resterebbero altrimenti inascoltate.