In Libano ha vinto l’astensione, con buona pace di Hezbollah e Hariri

Il paese dei Cedri torna alle urne dopo nove anni, ma la situazione politica resta immobile

di Davide Lemmi, da Beirut

Beirut – Piove a Beirut ed è già una novità per un maggio levantino. Come se il cielo della città volesse spazzare via i sentori di vecchio e pulire le strade per il futuro in un rigurgito di novità.

Piove nella Beirut post elezioni. Ma non è acqua limpida. Dalle strade e sotto i cavalcavia l’odore della spazzatura misto a smog ricorda che non basta un colpo di spugna. Almeno non qua, in Libano.

Nove anni di assenza dalle urne sono lunghi. In mezzo, senza ordine cronologico, c’è stata una guerra civile in Siria, che continua, le infiltrazioni dello Stato Islamico nel Paese, le continue tensioni con Israele a sud, un mezzo rapimento del Primo Ministro da parte dell’Arabia Saudita e le proteste per l’invasione della spazzatura a Beirut con la nascita del movimento #YouStink.

Per tutte queste ragioni, soprattutto dall’estero, la tornata elettorale nel piccolo Paese levantino
è stata vissuta come un sospiro di sollievo e l’ansia da prima volta.

E’ andata bene, almeno nel modus, almeno in parte. Perché nonostante i singoli scontri tra sostenitori, le intimidazioni in alcuni seggi e le denunce di pochi candidati, vedi la scrittrice Joumana Haddad, domenica sera eletta, lunedì fuori dalla lista, le elezioni ci sono state con un iter leggero da domenica sonnolenta.

E’ andata male invece nell’affluenza. Già dalle 12 era chiaro l’andamento, sfondare il 54% della tornata del 2009, sarebbe stata una missione difficile, quasi impossibile.

Nonostante i richiami dei leader politici, gli infiniti banchetti di supporto alle liste, i centinaia di alberi tagliati per fabbricare volantini e cartellonista, la gente di votare non ha proprio avuto voglia.

Certo l’idea era nell’aria, bastava considerare la spia dei voti all’estero. 85mila partecipanti fuori dai confini sugli 800mila aventi diritto. Un 10% che poteva e doveva spaventare.

Ma al di là dei se, il dato ufficiale libanese racconta del solo 49,2% di affluenza, con buona pace per il processo democratico. Accolto comunque come dato parzialmente interessante dall’estero, ma che in realtà racconta la disaffezione di una Nazione per la propria classe dirigente, forse stanca dei soliti processi e delle solite contraddizioni che affascinano molto da fuori, poco da dentro. Questioni di punti di vista.

“Non sono andata a votare perché vivo a Beirut e la mia circoscrizione elettorale è a Tabene, fuori Tripoli”: Salua espone uno dei problemi che potrebbero aver determinato la bassa affluenza. Molte persone non si sono potute spostare nel collegio di origine, in Libano non si vota per residenza, per ragioni diverse.

Snocciolando altri dati, troviamo un Hezbollah che ha consolidato la sua posizione, più che per i 14 seggi conquistati singolarmente, grazie all’asse sciita maronita che ha costruito con perizia e intelligenza durante questi anni.

In questo quadro Amal, il cugino del Partito di Dio, ha raggiunto le 15 poltrone, il Movimento Patriottico Libero fondato dal generale Micheal Aoun ha piazzato 20 candidati, 28 considerando il Partito Tashnag, mentre Marada sarà rappresentato da 3 teste all’Assemblea Nazionale. Per chiudere ci sono circa 10 parlamentari che ruotano intorno all’universo sciita ma che non sono direttamente collegati.

Il più grande sconfitto di questa tornata elettorale è il Premier Saad Hariri. Il Partito Futuro, più
una holding di famiglia che una formazione politica, ha conquistato 21 seggi, 7 in meno rispetto al passato.

Un risultato interessante, anche in ottica futura e di politica estera, quello delle Forze Libanesi, movimento nazionalista di destra di Samir Geagea. Walid Jumblat e il suo Partito Progressista Socialista, vedi drusi, ha incrementato di due seggi il bottino, passando da 7 rappresentanti in Parlamento a 9, mentre i falangisti di Gemayel piazzano 3 uomini sulle poltrone dell’Assemblea Nazionale.

Ma le elezioni libanesi verranno ricordate soprattutto per le “novità”. Il piccolo Paese levantino vedrà per la prima volta una donna proveniente da liste indipendenti sedersi in Parlamento. E’ Paula Yacoubian, volto della televisione Futuro, testata di proprietà del Premier.

Ci saranno poi 62 nuove facce tra i rappresentanti, mentre il numero totale di donne sale da 4 a 6. Sui cognomi delle elette nessuna novità, Geagea e Hariri sono un indizio. Anche la nuova legge elettorale
che doveva armonizzare i partiti, rendendoli meno confessionali, è andata così e così.

Come ricorda il giornalista di Avvenire Camille Eid, Amal, sui 16 eletti ne ha piazzati 13 sciiti, uno
cristiano, uno sunnita e uno druso; Il Partito Futuro conta 17 sunniti, due maroniti, uno ortodosso e uno alauita; le Forze Libanesi contano 15 eletti tutti di religione cristiana; mentre tra i nove seggi del Partito Progressista Socialista di Jumblat, sei sono drusi, uno sunnita e due cristiani.

Esempi a dimostrazione di un legame tra confessione e movimenti politici che deve ancora essere digerito, soprattutto da parte dell’elettorato.

“Si, ho votato”, Lea, 29 anni, è originaria di Beirut. “Nonostante la preferenza sia andata per una causa persa sentivo ancora il bisogno di esprimermi”. La ragazza ha votato la lista indipendente Koulouna Watani che ha piazzato la sola Yacoubian in Parlamento. “Credo che molti non siano andati alle urne perché sono stanchi di questo sistema”, continua Lea, “probabilmente accettano la realtà oppure non sono disposti a cambiarla”.

Anche Ali ha deciso di votare: “Ho combattuto una battaglia interiore tra recarmi, ed esprimere la mia preferenza, o no, boicottando il voto, alle urne e per questa ragione non biasimo chi ha deciso di non farlo”. Il ragazzo, originario di Beirut, ma residente a Tripoli, è stato tra i moltissimi che hanno dovuto spostarsi per raggiungere la propria circoscrizione. “Il mio voto è andato a Koulouna Watani”, continua Ali, “non capisco chi ha votato per gli stessi partiti. Per quegli stessi movimenti che sono accusati di essere corrotti”.

Ahmad, 25 anni, invece non ha votato: “In realtà avrei voluto, ma nella mia circoscrizione nessuna lista indipendente civile si era candidata”. Il 25enne ha una visione cupa dei risultati della tornata, “Sono sconcertato. Sono stati eletti gli stessi parlamentari, mentre i vecchi Partiti hanno mantenuto – e in alcuni casi rafforzato – la loro posizione, cristallizzando il loro potere sul Parlamento”.

E mentre continua la tipica schizofrenia meteorologica libanese, tra scrosci di pioggia e sole caldo mediorientale, perfetta metafora del paese, sulle sponde del Mediterraneo il post elezioni è un risveglio al ritmo degli stessi insoluti problemi.

“Tutto il sistema si basa sulla paura della novità e il confessionalismo politico gioca un grande ruolo nel mantenere questo status quo”, racconta ancora Lea. “Molti dei cittadini sperano in un cambiamento che è sia accesso ai servizi primari e basilari sia dignità. Penso inoltre che senza un bilanciamento nei rapporti con i Paesi della regione le persone saranno sempre influenzabili dai politici locali”.

Strattonato tra Arabia Saudita e Iran, con l’incessante pressione, ad ora solo verbale, di Israele a Sud, la base su cui si regge la stabilità del piccolo Paese levantino è sempre sotto sforzo.

“Prima di tutto le persone si identificano con i loro Partiti”, sostiene Ahmad, che conclude: “C’è una cecità diffusa nell’identificare i vecchi Partiti come causa stessa del problema, e quindi inutili nel migliorare la qualità della vita. I libanesi dovrebbero abbandonare le loro vecchie affiliazioni con i movimenti e unirsi per contrastare gli stessi, che in realtà li manipolano da anni”.

“Il più problema più grande che affligge questo paese?” termina Salua, completando il quadro: “La corruzione è talmente pervasiva che il sistema ne è parte. Questo non permette di prendere decisioni adeguate a problemi imminenti. Anzi i comportamenti errati, contro le leggi, non sono neanche puniti. Il business comanda questo Paese, infrangendo le regole basilari del benessere comune”.