Wajib- Invito al matrimonio

Due generazioni, Nazareth, un’identità e sentirsi stranieri a casa propria

di Irene Merli

WAJIB- INVITO AL MATRIMONIO, di Annemarie Jacir, con Mohammad Bakri, Saleh Bakri, Maria Zreick,Rana Almuddin, Tarik Topky, Monera Shehadeh. Nelle sale

Nazareth, 2017. Shadi, giovane architetto che da anni vive a Roma, torna nella sua città a poche settimane dal Natale. La sorella Amal si sta per sposare, ed è tradizione, nella Palestina settentrionale, che gli inviti ai numerosissimi parenti e amici siano distribuiti a mano dagli uomini della famiglia, uno per uno.

E’ il rito del wajib, il dovere, e Shadi deve aiutare suo padre a compierlo. Abu Shadi, infatti, ha 65 anni, è un insegnante ormai in pensione, divorziato da tempo da una donna che si è trasferita in America dove si è risposata, e non si sa nemmeno se potrà venire alle nozze: il secondo marito è alle prese con una malattia incurabile.

Così, padre e figlio trascorrono insieme la giornata andando su e giù dalle salite e le discese di Nazareth sulla vecchia Volvo di Abu Shadi, stretti nell’abitacolo in cui è girata buona parte del film.

E poco a poco, di casa in casa, di caffè in caffè, tra i due che non si vedono da molto tempo emergono ricordi di famiglia, disaccordi politici, brucianti rancori. Tutto il materiale di un conflitto generazionale come tanti, ma nel loro si riflettono la storia di un popolo oppresso e la geografia di una città divisa, la più grande città della Palestina storica che dal 1948 è nello Stato di Israele.

Shadi porta una camicia rosa, ha i capelli lunghi raccolti in uno chignon, se ne è dovuto andare da ragazzo a causa di un innocentissimo cineclub e sta con la figlia di un leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, anche lui in esilio.

Abu Shadi è vestito di grigio, trasuda pragmatismo e capacità di compromesso da tutti i pori, soffre ancora per l’umiliante abbandono della moglie e davanti ad amici e parenti racconta che Shadi è un medico e prima o poi tornerà e sposerà una bella nazarena.

L’uno rimprovera all’altro di non avere coraggio, quello di ribellarsi o, all’opposto, di non saper restare fedele alla propria terra e alla propria famiglia, costi quel costi.

Ma all’esplosione, al litigio cattivo e definitivo non si arriverà mai. Basteranno una canzone, un caffè (l’ennesimo!) e una sigaretta sulla terrazza di casa, per una volta senza polemiche, e padre e figlio si riavvicineranno.

Perché in fondo i due sanno benissimo di avere sia ragione che torto. E capiscono di cercare entrambi, ciascuno a suo modo, di sopravvivere a problemi più grandi di loro: è la drammatica storia della Palestina ad avere distrutto anche la loro famiglia.

Wajib è quindi un road movie molto particolare, intenso ed equilibrato, in cui la regista si muove con disinvoltura tra dramma e ironia, divertimento e riflessione, denuncia e testimonianza, facendoci riflettere senza mai fare un apologo.

Annemarie Jacir ha raccontato di aver avuto l’idea di questo film seguendo suo marito per cinque giorni mentre aiutava il padre nel wajib per le nozze della sorella. E l’aveva accompagnato proprio a Nazareth, terza protagonista della sua opera cinematografica dopo Shadi e Abu Shadi, interpretati da due magnifici attori padre e figlio anche nella vita.

“Nazareth è un luogo pieno di tensioni perché dal 1948 i palestinesi hanno dovuto chiedere la cittadinanza israeliana, ma sono cittadini di serie B, non hanno gli stessi diritti degli israeliani e sono privati anche di parte dei loro diritti”, ha dichiarato la Jacir. “Sotto molti aspetti, Nazareth oggi è diventata un ghetto. Nonostante questo, la sua gente possiede una grande umanità, tanto umorismo e voglia di vivere. Ma, per me, Nazareth è una città di sopravvissuti”.

Nel film la regista rivela le condizioni di vita dei “palestinesi invisibili” in poche, pregnanti inquadrature, frammenti di realtà che attraversano il racconto cinematografico: la presenza di due soldati israeliani nel ristorante, una soldatessa col fucile in mano che va da un lato all’altro di una strada, cumuli di spazzatura e di plastica che invadono gli androni, crepe, calcinacci e teloni sulle facciate… a Nazareth il territorio è confiscato e i palestinesi costruiscono casa su casa.

Nei giorni della disperazione di Gaza, un film come Wajib si dimostra non solo bello, ma anche necessario per capire attraverso una storia vicinissima a ognuno di noi la realtà quotidiana di un altro conflitto, ben peggiore di quello tra un padre e un figlio. Chapeau, Annemarie!