Irlanda, il referendum sull’aborto per le donne migranti

di Merj per Q Code Mag

Se si segue il dibattito sul referendum sull’aborto che si terrà il 25 maggio in Irlanda, sarà impossibile non incontrare il nome di Savita Halappanavar. È da qui che vorremmo partire per parlare del lavoro che Merj – Migrants and Ethnic Minorities for Reproductive Justice
porta avanti nel contesto della campagna referendaria.

Merj ha lo scopo di mettere in luce come il regime di criminalizzazione dell’aborto impatti in maniera esponenziale le donne migranti e delle minoranze etniche: l’effetto congiunto del razzismo, presente in segmenti del personale medico, e delle restrizioni di espatrio per le migranti, limitazioni non vigenti per le irlandesi e le cittadine europee, rende infatti le migranti e le Travellers sovraesposte agli effetti dell’ottavo emendamento.

Le statistiche ci dicono che le donne migranti muoiono di più delle altre. Ad esempio, il 40% delle morti connesse al parto sono di donne migranti, mentre la popolazione migrante in Irlanda incide su quella nazionale per il 13% circa. Questo significa che c’è una sovra-rappresentazione delle migranti tra i decessi collegati ai servizi medici durante la gravidanza. Ci sono una serie di ostacoli di tipo strutturale che agiscono nella vita delle persone migranti e che non sono esclusivamente legate all’aborto ma più in generale alla sfera della riproduzione. Uno studio del Trinity College condotto nel 2014 ha rilevato come il 25% delle nuove nascite in Irlanda siano da madri migranti, che secondo lo stesso studio molto raramente tornano al loro posto di lavoro visti i costi dei servizi all’infanzia, tutti privati, nel paese.

È per questo motivo che Merg si batte per la “giustizia riproduttiva”, non solamente per la rimozione dell’ottavo emendamento. Nel caso delle minoranze etniche, e delle persone Travellers in particolare, la presenza di discriminazione e razzismo strutturali sono altrettanto evidenti.

Eileen Flynn, dell’Irish Traveller Movement, ha raccontato che, a causa della discriminazione subita, molte donne della sua comunità non hanno fiducia nel servizio sanitario nazionale, situazione su cui si innestano pregiudizi culturali interni alla comunità su temi come l’aborto e la riproduzione in generale.

Un’immagine di Savita Halappanavar con la scritta “mai più”

Il caso di Savita Halappanavar

Savita era una cittadina indiana immigrata in Irlanda per lavoro con il marito. Incinta di cinque mesi, si recò nell’ottobre del 2012 presso l’Ospedale universitario di Galway accusando gravi dolori. Non curata in maniera adeguata, come le successive indagini ministeriali hanno dimostrato, morì tre giorni dopo in ospedale.

Al marito, che chiedeva al personale medico di operare un aborto per salvare la vita della moglie, fu risposto che “l’Irlanda è un paese cattolico”.

L’Ottavo emendamento, inserito in costituzione nel 1983 tramite un altro referendum, non solamente criminalizza l’aborto, ma anche le cure che potrebbero essere necessarie alla gestante se mettono in potenziale pericolo la vita del feto.

È per questo motivo che Savita non è stata curata: il battito del cuore del feto era presente e, quindi, non era possibile operare alcun intervento sul corpo della madre – equiparata a un contenitore dalla legge, potremmo constatare – persino nel caso estremo del pericolo di vita della donna.

L’atroce morte di Savita è solo uno dei casi che coinvolgono donne migranti, quando si parla di maternità, gravidanza e salute. Altri due casi che ben illustrano l’intersezione tra razzismo (quell’ “Irlanda è un paese cattolico” detto al marito di Savita è infatti indicativo) e leggi sulla migrazione sono quelli di Bimbo Onanuga e Miss Y.

Il caso di Miss Y

Siamo nel 2010 e a causa di una gravidanza extrauterina, a Bimbo, originaria dello stato di Lagos in Nigeria, fu indotto il parto e praticato un cesareo al settimo mese con lo scopo di rimuovere il feto, ormai senza vita. Un violento sanguinamento interno seguì l’operazione e Bimbo chiese aiuto più volte al personale medico finché non morì. Secondo l’AIMS, l’Associazione per il miglioramento dei servizi alla maternità, si trattò di un episodio di discriminazione operato contro una donna a cui non si sono prestate cure perché non creduta. Un’indagine non è stata aperta, ma sono diverse le attiviste di Merj che raccontano come sia difficile farsi credere dai medici, a volte convinti che le donne di colore abbiano una resistenza superiore al dolore.

Il caso di Aisha Chithira

Caso simile è quello di Aisha Chithira, cittadina originaria del Malawi ma residente in Irlanda, morta bel 2012 su un taxi a Londra, dove si trovava per aver accesso all’aborto. Sposata con un irlandese e madre di una bambina, Aisha decise di interrompere la gravidanza dopo una storia clinica complicata. Ottenne il visto per viaggiare in Gran Bretagna dopo circa un mese di attesa. A seguito dell’operazione avvenuta in una clinica di Londra, domandò più volte di poter passare lì la notte a causa di un forte malessere, ma non fu creduta e fu dimessa dal personale medico. Morì sul taxi che doveva portarla a casa del cugino dove avrebbe pernottato, prima di tornare in Irlanda dalla sua famiglia.

Le storie di Bimbo e Aisha ci parlano di quanto per una donna migrante sia più difficile e rischioso il percorso riproduttivo: il razzismo strutturale presente nelle istituzioni e la lotta contro il tempo per ottenere la documentazione necessaria a viaggiare sono elementi importanti nel determinare l’impatto maggiore che l’Ottavo emendamento ha sulla vita delle migranti.
Ms. Y invece non ha potuto viaggiare e lo stato irlandese l’ha quindi costretta a portare avanti la gravidanza. Uno degli effetti legislativi dell’Ottavo emendamento è infatti quello di rendere il corpo gravido delle donne un vero e proprio “corpo di stato”: le donne perdono qualsiasi controllo su di esso, ed esso viene messo “al lavoro riproduttivo” per un bene più “alto”, diventando di fatto di proprietà pubblica. Le donne infatti smettono di avere diritto a dare il proprio consenso informato su procedure ed operazioni mediche. La storia di Ms. Y ci racconta di quanto l’intervento dello stato in materia riproduttiva può essere invasivo.

Ms. Y era una richiedente asilo appena maggiorenne arrivata nel 2014 in Irlanda. Una volta iniziata la procedura per la richiesta di asilo, si accorse di essere incinta a causa di uno stupro. Determinata a non portare avanti la gravidanza e informata sulla legislazione irlandese, tentò di raggiungere la Gran Bretagna, meta più accessibile dall’Irlanda, per abortire.

Riuscì a raggiungerla ma fu arrestata perché in violazione delle leggi sulla migrazione e rimandata in Irlanda. Qui sviluppò una forte depressione con intenti suicidi, e chiese di aver accesso all’aborto.

Infatti, la legge irlandese prevede, in teoria, delle eccezioni all’assoluto divieto di interruzione di gravidanza. In caso di gravidanze extra-uterine, ad esempio, come nel caso di Bimbo Onanuga, ma anche nel caso in cui la gestante sia a rischio di suicidio, stato psicologico che però deve essere certificato da esperti e supportato da vaste prove empiriche: un processo instabile e complicato, che in genere non va a buon termine, come nel caso di Ms. Y. Psicologi ed esperti infatti ritardarono la decisione circa permetterle un aborto per depressione al punto di indurla a iniziare uno sciopero della fame. Ella fu tuttavia nutrita a forza e costretta a portare a termine la gravidanza. Ms. Y partorì, il bambino fu dato in adozione, e lei tutt’oggi vive in Irlanda. Il caso di Ms. Y mostra l’agire combinato di una legge impietosa in materia di migrazione e il livello di “espropriazione” del controllo sul proprio corpo, considerato un contenitore preziosissimo e pertanto messo nelle mani dello stato.

Merj è composta da donne che non potranno votare il 25 maggio, ma che sperimentano gli effetti dell’ottavo emendamento sulla loro pelle e nella loro vita in maniera violenta.

Nel corso di questa campagna referendaria, si sente spesso parlare di come le donne irlandesi debbano recarsi in altri paesi per avere accesso all’interruzione di gravidanza. Quello che questa narrazione, pur veritiera e coerente con la realtà, nasconde sono le centinaia di donne che non possono viaggiare per restrizioni economiche e/o di visto, e che sono quindi costrette a portare a termine la gravidanza. Le richiedenti asilo e le cittadine non europee o non possono lasciare l’Irlanda, o possono farlo ma a rischio di non potervi far ritorno – e a volte il rischio è di farvi ritorno da morte.
L’ottavo emendamento colpisce sproporzionatamente le donne più vulnerabili. Per Merj la battaglia non sarà finita il 25 maggio: ci saranno ancora da combattere il razzismo e la discriminazione nei servizi medici, e non solo.