La sentenza Foodora e il diritto del lavoro che cambia

Secondo il giudice di Torino, il rapporto di lavoro tra i fattori di Foodora e la piattaforma digitale non sarebbe di tipo “subordinato”. Una sentenza che avrà conseguenze importanti su diritti e tutele dei lavoratori della cosiddetta “gig economy”.

 

Di Andrea Iossa

Il 7 maggio sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui l’11 aprile scorso il Tribunale di Torino ha respinto il ricorso di sei fattorini che operavano le consegne di pasti per conto della piattaforma digitale Foodora.

I sei chiedevano al giudice l’accertamento del tipo di prestazione lavorativa svolta, ovvero domandavano il riconoscimento della subordinazione nella forma della collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato.

In sostanza, al giudice è stato chiesto di determinare l’esistenza o meno della subordinazione nel rapporto di lavoro instauratosi tra i cosiddetti “riders” e l’azienda Foodora. Una risposta affermativa da parte della corte avrebbe determinato una serie di vantaggi per i lavoratori.

Anzitutto, la prestazione sarebbe stata inquadrata nel contratto collettivo del settore logistico con conseguente risarcimento delle differenze di trattamento salariale percepito dai lavoratori. Inoltre, l’azienda avrebbe potuto anche essere condannata al risarcimento dei danni subiti dai lavoratori per violazione della privacy e per mancata tutela antinfortunistica. Infine, il riconoscimento della subordinazione avrebbe anche portato il giudice a dover accertare l’eventuale nullità, inefficacia o illegittimità del licenziamento dei “riders” da parte di Foodora.

Il ricorso infatti partiva dalla decisione dell’azienda di non usufruire più delle prestazioni dei fattorini impedendo loro di accedere all’applicazione per la prenotazione dei turni. I fattorini contestavano all’azienda di aver preso tale decisione a seguito della loro partecipazione attiva alle proteste dell’autunno 2016 con cui i “riders” di diverse città rivendicavano condizioni di lavoro migliori, a partire dal pagamento su base oraria invece che a cottimo.

Le rivendicazioni includevano anche l’introduzione di forme di tutele minime contro gli infortuni e le condizioni atmosferiche potenzialmente avverse. In caso di decisione positiva da parte del giudice, la decisione dell’azienda di impedire ai fattorini l’accesso ai servizi di prenotazione dei turni sulla piattaforma digitale si sarebbe potuto configurare come un licenziamento discriminatorio per motivi sindacali.

Come ampiamente riportato dai media, il giudice di Torino ha invece deciso diversamente. Accogliendo le ragioni della difesa dell’azienda, il giudice ha affermato che la subordinazione del rapporto di lavoro non può manifestarsi laddove non emerga che il lavoratore “sia sottoposto al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore” che discenda “dall’emanazione di ordini specifici e dall’esercizio di un’attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative”.

Secondo il giudice, quindi, l’assenza di obblighi per il lavoratore di effettuare i turni e dell’azienda di allocare ore di lavoro ai lavoratori configurerebbe una situazione in cui il lavoratore non è sottoposto alla cosiddetta “etero-direzione” del datore.

Accertata su tale base l’assenza di un rapporto di lavoro subordinato che potremmo definire classico, il giudice è andato oltre e ha valutato la possibile esistenza di un rapporto di subordinazione che venga ad instaurarsi solo nel momento in cui il lavoratore accetti di lavorare in un determinato turno durante il quale la “coordinazione” dell’attività lavorativa autonoma si trasformerebbe in “subordinazione” attraverso l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore.

A tal riguardo, i ricorrenti facevano notare che nel momento in cui il “rider” si fosse messo a disposizione per un determinato turno orario, sarebbe stato tenuto ad accettare gli ordini ed a portare a termine le consegne entro un tempo massimo di 30 minuti (pena una multa) seguendo il percorso indicato dal servizio GPS dell’applicazione. Attraverso un centralino, l’azienda avrebbe poi avuto la possibilità di monitorare i fattorini, controllandone gli spostamenti e chiedendo spiegazioni in caso di mancata consegna o ritardi.

Tuttavia, il giudice ha ritenuto che il monitoraggio del lavoratore avvenisse in maniera discontinua (attraverso fotografie istantanee della posizione prese attraverso l’applicazione) e che l’obbligo di rispettare i tempi di consegna facesse parte dei termini del contratto.

La facoltà dell’azienda di rinunciare alle prestazioni dei lavoratori (ovvero di impedire l’accesso ai fattorini alla piattaforma) non potrebbe configurarsi come potere sanzionatorio e disciplinare poiché non sussisterebbe nessun obbligo in capo all’azienda di distribuire i turni e le ore di lavoro. Di conseguenza, il giudice ha ritenuto che l’esclusione dai turni non possa configurarsi come sanzione disciplinare o licenziamento ai sensi delle norme sancite dallo Statuto dei Lavoratori del 1970.

Al di là del caso concreto, una decisione del tribunale che fosse andata verso il riconoscimento della subordinazione dei “riders”, avrebbe sconquassato il sistema della cosiddetta “gig economy” che si regge sul lavoro precario e sottopagato di lavoratori che ufficialmente vengono considerati autonomi dall’azienda, la quale si considera “committente” piuttosto che datore di lavoro.

Al tal proposito va comunque ricordato che una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’UE in una disputa tra la piattaforma Uber, che gestisce servizi di trasporto cittadino di passeggeri, e un’associazione di tassisti della città di Barcellona, ha stabilito come Uber sia da considerarsi un’azienda di trasporti a tutti gli effetti piuttosto che un servizio digitale che faciliti il contatto tra un guidatore autonomo e un cliente.

Il “concept” della “gig economy”, di cui sia Foodora che Uber fanno parte, è la prestazione di servizi ai clienti (consegne a domicilio e trasporto passeggeri, ma anche servizi di pulizia e riparazioni casalinghe) operata da lavoratori che, seppure considerati autonomi dalle aziende, sono tenuti a rispettare i termini della prestazione così come imposti dalle aziende stesse.

La narrazione che circonda la “gig economy” poi è quella, abusata nel discorso neoliberista che ha imposto la precarietà sul mercato del lavoro, dell’autonomia e indipendenza del lavoratore e della flessibilità del lavoro: qualità che dovrebbero favorire le esigenze del lavoratore.

La realtà appare diversa. L’autonomia, la volontarietà e la flessibilità sono appannaggio delle aziende. Come sottolineato dal giudice di Torino, questa forma di lavoro non prevede alcun obbligo per l’azienda, la quale è persino sollevata dall’esercizio delle classiche prerogative del datore, come ad esempio l’allocazione dei compiti e dei turni tra i lavoratori dell’azienda, che vengono invece gestite dai lavoratori facendo risparmiare l’impresa.

Nell’economia digitale dei servizi, il datore di lavoro scompare nella sua forma fisica e riappare sotto forma di algoritmo, mentre l’ingaggio, ovvero l’accordo sulla prestazione di lavoro, si conclude direttamente con il cliente che usufruisce del servizio. Il datore di lavoro si dissolve, così come sparisce il lavoratore nella sua manifestazione classica. In questo senso, lo scrittore anarchico inglese e architetto Colin Ward, osservando l’evoluzione della precarietà del lavoro e la deriva piccolo-imprenditoriale che ne deriva, già nel 1995 era giunto alla conclusione che il capitalismo aveva raggiunto il proprio obiettivo, ovvero quello di far scomparire la figura del lavoratore.

Ciò che non sparisce è tuttavia l’esercizio dell’autorità imprenditoriale. Da principio fondante del diritto del lavoro, ampiamente riconosciuta come elemento costitutivo del rapporto di lavoro subordinato e legittimamente esercitata nei limiti imposti dalla legge, l’autorità del datore di lavoro assume ora forme più sfumate, esercitate attraverso un algoritmo (come giustamente fatto notare nei suoi vari e più recenti lavori da Valerio De Stefano che insegna diritto del lavoro all’università di Leuven in Belgio).

Sfuggendo al quadro giuridico imposto dal contratto di lavoro subordinato, l’autorità dell’azienda non si esprime più in formule classiche ma viene interiorizzata dal lavoratore, che si autoimpone la disciplina e il controllo agendo come un dipendente e quindi accettando gli obblighi del lavoro subordinato ma non godendo dei diritti ad esso connessi.

Questo mette a nudo la dipendenza economica (e non giuridica) del lavoratore dal datore, la quale non necessariamente trova soddisfazione, ovvero protezione, del diritto del lavoro così come concepito oggi in Italia. Anche in questo il Jobs Act sembra aver peggiorato la situazione. Se infatti la riforma Fornero del 2012 prevedeva una “presunzione di subordinazione” per i collaboratori a partita IVA che avessero ricevuto più dell’80% del proprio fatturato annuo in regime di mono-committenza e che avessero collaborato per più di otto mesi per lo stesso committente, il decreto 81 del 2015 ha invece introdotto dei criteri più indeterminati.

La norma infatti prevede che siano da considerarsi contratti di lavoro subordinati quelle collaborazioni di natura “esclusivamente personale, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Di fatto la norma propone di un ragionamento circolare per cui sono da considerarsi rapporti di lavoro subordinato quelle collaborazioni svolte in regime di subordinazione. Nonostante i fattorini di Foodora avessero chiesto di far ricorso a tale norma per riconoscere la subordinazione, il giudice ha escluso che le prestazioni dei “riders” possano rientrare in quella definizione. Benché sia un’interpretazione piuttosto restrittiva, il giudice è stato coerente, mostrando anzi come ad essere restrittiva sia la norma stessa.

Come mostrato dalle inchieste e dai reportage sulla “gig economy”, la volontarietà, l’autonomia e l’indipendenza dei lavoratori sono quindi solo relative. Se l’unico lavoro che si trova è quello offerto dalle piattaforme digitali, chi si trova nella condizione di dover lavorare, accetta le condizioni offerte. Questa realtà stride anche con l’immagine del “lavoretto” che è usata nel discorso pubblico per descrivere il lavoro nella “gig economy”.

Benché non del tutto sbagliata, data la scarsa qualificazione del lavoro richiesto, quest’immagine sembra svilire lo sforzo quotidiano di chi cerca di guadagnarsi dei soldi per vivere e non solo per arrotondare. Le interviste mostrano persone che lavorano anche 40 o 50 ore a settimana per le piattaforme digitali, di conseguenza svolgendo lavoro a tempo pieno, anche se non riconosciuto come tale.

Tornado al punto centrale della sentenza di Torino, ovvero la natura del rapporto di lavoro instaurato tra le piattaforme digitali e i lavoratori, va detto che tale questione è stata affrontata anche nei tribunali di altri paesi, con risultati discordanti. In Gran Bretagna, ad esempio, il Tribunale d’Appello del Lavoro ha confermato la sentenza di primo grado in cui il giudice aveva accertato la natura del rapporto di subordinazione tra la piattaforma Uber e i “drivers”.

La corte ha raggiunto tale conclusione sulla base dell’esercizio effettivo da parte dell’azienda del potere disciplinare e di controllo sui “drivers”. Il giudice inglese ha infatti accertato che Uber ha piena discrezionalità nel selezionare i “drivers”, i quali sono poi obbligati ad accettare passeggeri durante i turni e non possono decidere autonomamente il tragitto da percorrere né la tariffa da applicare.

Su simili basi anche la Corte distrettuale della North Carolina ha stabilito che i “drivers” sono dipendenti a tutti gli effetti. La corte statunitense ha inoltre evidenziato come il profitto di Uber sia prodotto dal lavoro dei “drivers”, i quali sono quindi a tutti gli effetti parte dell’impresa. Al contrario, la proprietà degli strumenti di lavoro, quali il telefono e la macchina, e l’autonomia di cui i “drivers” godrebbero nel decidere i turni di lavoro sono argomenti che hanno portato la Fair Work Commission australiana (un tribunale del lavoro speciale) a dare ragione all’azienda.

Tuttavia, il passaggio finale di questa sentenza è interessante, poiché pone la questione dell’efficacia della categoria giuridica del contratto di lavoro subordinato nel comprendere e quindi proteggere forme di lavoro ultra-atipiche come quelle che si formano nella “gig economy”. Il giudice sottolinea come finché il contratto di lavoro sarà concepito in questi termini giuridici, il lavoro della “gig economy” non potrà essere ricondotto a tale fattispecie.

Questa osservazione ci porta a sollevare dei dubbi sull’effettiva aderenza del diritto del lavoro alla realtà socioeconomica delle economie occidentali. L’avanzamento della tecnologia sembra aver fatto regredire (se non proprio sparire in certi casi) la protezione giuridica del lavoro, rendendo inadeguata la forma con cui il diritto riconosce e comprende il lavoro nella realtà attuale.

Volendo fare un parallelo con il passato (che, è bene ricordarlo, è tuttora il presente in settori meno tecnologici e che vivono di lavoro nero, come per esempio l’agricoltura e le costruzioni) sembra di essere tornati ad un’era lavorativa pre-giuslavorista. Così come i braccianti agricoli di cui narra Steinbeck in Furore andavano nelle piazze o direttamente nei campi per cercare di essere ingaggiati per qualche ora di lavoro giornaliero, oggi i lavoratori dell’economa digitale si affacciano sullo spazio virtuale delle piattaforme per aspettare di essere ingaggiati. E proprio come i minatori descritti da Emile Zola in Germinal che erano costretti a comprare gli attrezzi per proprio conto, spesso dal padrone stesso, i lavoratori digitali comprano di tasca propria telefono e mezzo di trasporto.

Per ovviare all’assenza di tutele, stanno nascendo soluzioni alternative. Ad esempio, in Belgio è nata Smart, una cooperativa che offre la possibilità al lavoratore autonomo di contrattare con il cliente i termini del contratto di prestazione che sarà poi registrato come contratto subordinato con Smart in cambio di una commissione del 6,5%. In tal modo, il lavoratore viene formalmente assunto dalla cooperativa accedendo alle tutele del lavoro subordinato, anche riguardo alla sicurezza sociale.

 

 

Questa tuttavia appare come una soluzione cosmetica di breve periodo. Il riconoscimento delle nuove forme di lavoro passa necessariamente dalle vecchie forme di lotta e politica sindacale. Così come le tutele del diritto del lavoro sono state raggiunte grazie all’azione dei sindacati, anche nella “gig economy” le rivendicazioni devono partite dai lavoratori.

Appare quindi interessante l’esperienza della Riders Union di Bologna, un gruppo di “riders” auto-organizzatisi in sindacato autonomo che è diventato interlocutore del Comune, a cui ha proposto di firmare una “Carta dei diritti dei lavoratori digitali nel contesto urbano” dove si sanciscono dei diritti base come una paga dignitosa e un’assicurazione contro gli infortuni.

Anche a livello settoriale, l’economia digitale sta producendo cambiamenti. Il rinnovo del contratto collettivo del settore logistico firmato lo scorso dicembre codifica la figura del “rider”, con il non trascurabile particolare che le aziende digitali come Foodora non sono parte delle associazioni datoriali firmatarie e quindi non sono vincolate dal contratto.

Più efficace sembra quindi essere la strategia del sindacato danese 3F che ad aprile (pochi giorni prima della sentenza di Torino) ha firmato un contratto collettivo con la piattaforma Hilfr, che si occupa di servizi di pulizia. Tra le altre condizioni, l’accordo prevede anche una retribuzione minima oraria di circa 19 euro per i lavoratori impiegati attraverso la piattaforma.

Il sindacato e il governo danese lo hanno definito un accordo storico e pioneristico che permette di ricondurre l’evoluzione economica verso il modello tradizionale di protezione del lavoro. Nel ritorno ad un’era pre-giuslavorista l’auspicio è quindi che i sindacati non abbiano dimenticato la loro storia, fatta di successi ottenuti attraverso conflitti e lotte per il riconoscimento della dignità di chi lavora.