di Didier Fassin, tratto da il lavoro culturale
Immagine di copertina di Elias Matar, Flight of the Refugees, 2016, frame dal documentario
I sentimenti morali sono diventati uno strumento politico fondamentale per rispondere ai disordini del mondo. Che si tratti di gestire poveri e rifugiati, di soccorrere vittime di catastrofi o di giustificare interventi militari, a dispiegarsi è sempre quel governo umanitario del quale Didier Fassin analizza le premesse, le tensioni e le contraddizioni. Arriva oggi in libreria per DeriveApprodi, che ringraziamo, la sua opera Ragione umanitaria. Una storia morale del presente. L’edizione italiana è a cura di Lorenzo Alunni, e quella che segue ne è la nuova prefazione.
Nel numero del 24 marzo 2005 della New York Review of Books, un anno dopo lo tsunami del 2004 nel Sud-est asiatico, un malinconico Clifford Geertz scrisse che in una “fatalità di tali dimensioni, la distruzione non solo di vite individuali, ma di intere popolazioni, mette a dura prova la convinzione che forse più di tutte, fra le cose terrene, riconcilia molti di noi con la consapevolezza della nostra mortalità: quella secondo cui, anche se noi moriremo, la comunità in cui siamo nati e il tipo di vita che in essa si sviluppa in qualche modo sopravvivranno”.
Potremmo estendere questa profonda opinione suggerendo che il significato di tale fatalità non riguarda solo il nostro lutto per un mondo forse perduto e di cui potrebbe addirittura sparire ogni traccia: riguarda anche il nostro senso di appartenenza a una comunità morale più ampia e la cui esistenza si manifesta attraverso la compassione per le vittime.
Per l’attento osservatore del caso di quello tsunami, il livello impressionante delle perdite – decine di migliaia di vittime – era significativo tanto quanto l’inedita manifestazione di solidarietà, con tutti quei miliardi di dollari donati. Piangevamo i loro morti, ma intanto celebravamo la nostra generosità. La forza di quell’evento stava nella rara combinazione di tragedia della distruzione e pathos dell’aiuto.
Tali disastri ora fanno parte della nostra esperienza delle cose di questo mondo, come ne fanno parte anche le organizzazioni di assistenza, le operazioni di soccorso e gli interventi umanitari.
Siamo ormai abituati allo spettacolo della sofferenza e all’esposizione globale del soccorso. Possiamo definire tale paesaggio morale «umanitarismo». Anche se spesso liquidato come una semplice forma di espansione di un’umanità considerata naturale e associata in maniera innata alla nostra condizione di umani, l’umanitarismo è un’invenzione relativamente recente e foriera di complesse questioni politiche ed etiche. Ragione umanitaria parla di tale invenzione e delle sue complicazioni.
L’umanitarismo ci è diventato familiare attraverso gli eventi catastrofici, le cui immagini vengono disseminate ovunque dai media, ma riguarda anche situazioni più ordinarie e vicine a noi.
È infatti una forma di governo che si concentra sulle vittime di povertà, di mancanza di alloggio, di disoccupazione e di esilio, oltre che di disastri, carestie, epidemie e guerre. Insomma, riguarda ogni situazione affetta da precarietà. Riguarda anche organizzazioni non governative, agenzie internazionali, Stati e singoli individui. Chiama in causa empatia, tecnologie, medici, operatori logistici.
I suoi luoghi di azione sono cliniche per i poveri, campi profughi, centri di amministrazione sociale dove vengono ricevuti gli immigrati senza documenti in regola e guarnigioni militari dove vengono accolte le vittime di terremoto. Gli studi di caso che ho raccolto in Ragione umanitaria rappresentano un tentativo di descrivere questo governo dei precari nei diversi modi in cui si è manifestato negli ultimi due decenni.
La prima parte riguarda politiche sociali e figure in Francia, mentre la seconda esplora casi da Sudafrica, Venezuela, Palestina e Iraq, con una transizione che si concentra sulla circolazione transnazionale fra Terzo Mondo ed Europa. Simili accostamenti pongono almeno due domande.
La prima: qual è il grado di specificità del caso francese?
In effetti, alcune delle più importanti organizzazioni umanitarie sono state fondate in Francia, i governi francesi nominano spesso segretari agli affari umanitari e la Francia ha avuto un ruolo centrale nella promozione di politiche umanitarie nelle istituzioni internazionali, incluse le Nazioni Unite.
È ben noto che la Francia ha una lunga tradizione di organizzazioni caritatevoli private legate agli ordini cristiani e di politiche di solidarietà pubblica poi tradotte in previdenza sociale, sanità pubblica e, più recentemente, nella copertura sanitaria universale, tutti elementi poi confluiti in una configurazione relativamente specifica di valori morali e politici condivisi. Ecco allora spiegata la singolarità del rapporto tra Francia e umanitarismo.
Tuttavia, i fenomeni che descrivo e analizzo negli studi di caso vanno al di là dei confini nazionali entro cui si manifestano. La tensione fra compassione e repressione, i problemi posti dal fatto di mobilitare l’empatia piuttosto che riconoscere diritti, e i pregiudizi verso i dominati e le loro conseguenze sul modo in cui essi vengono trattati hanno un alto grado di generalità che li rende rilevanti rispetto a contesti variegati. Le configurazioni possono essere diverse, ma i processi sono simili.
Seconda domanda: quanto è coerente questo accostamento di casi così geograficamente diversi fra loro?
La serie iniziale di capitoli si svolge in Francia e riguarda la gestione da parte di questo Paese delle persone svantaggiate, in seguito gli studi riguardanti il Sudafrica, il Venezuela e la Palestina si concentrano su tre scenari umanitari paradigmatici – che sono, rispettivamente, epidemie, disastri e conflitti –, mentre il capitolo finale illustra i legami ambigui fra gli operatori umanitari e le forze armate in interventi militari come quello in Iraq.
L’ipotesi centrale che tiene insieme questi vari mondi è che sono inseriti nello stesso tipo di governo umanitario, che si tratti di poveri e immigrati irregolari nel nord o di orfani dell’Aids e di sfollati di un’inondazione nel sud, con giudizi e categorizzazioni morali comparabili, sviluppi analoghi di comunità morali e meccanismi di esclusione, e con conseguenze equivalenti in termini di negazione di voci e storie. Osservare da vicino questi scenari distanti tra loro attraverso la stessa lente è fondamentale per capire le questioni più ampie in gioco nelle nostre economie morali.
La tesi di fondo di questo libro è che, nel nostro mondo, l’umanitarismo è diventato una forza potente.
La sua diffusione è così vasta che le lacrime versate dal primo ministro cinese sulla devastazione della provincia del Sichuan hanno aumentato la sua popolarità, proprio come l’apparente indifferenza del presidente degli Stati Uniti rispetto alle tragiche conseguenze dell’uragano Katrina ha dimostrato quanto fossero vacui i suoi proclami elettorali di conservatorismo compassionevole.
Il richiamo all’umanitarismo è così potente da servire come base di legittimazione per azioni militari, ufficialmente lanciate per proteggere popolazioni in pericolo (a volte precedendo opzioni alternative come in Kosovo o costruendo ad arte prove come in Kuwait), o può essere addirittura usata, come nel caso di Augusto Pinochet in Gran Bretagna o di Maurice Papon in Francia, per dispensare persone accusate o condannate di crimini contro l’umanità dal confronto con la giustizia e con la punizione.
È questa la forza globale e discontinua che tento di analizzare in questo libro. Il 2010 è iniziato con lo spaventoso terremoto di Haiti, che ha provocato una notevole reazione globale, soprattutto in Francia e Stati Uniti.
Abbiamo infatti assistito a una gara fra i due Paesi, i cui governi e le cui popolazioni rivaleggiavano in generosità con le vittime, mandando truppe, medici, beni e denaro, mentre nascevano sospetti su interessi diversi dalla pura benevolenza nei confronti di una nazione che è stata prima oppressa dalla Francia e poi sfruttata dagli Stati Uniti.
Tale emulazione era stata certamente innescata dalla buona fede, e non dobbiamo sminuire l’impegno altruistico e gli sforzi caritatevoli di singoli individui, organizzazioni, chiese e anche dei governi coinvolti nella gestione dei feriti prima e negli sforzi per la ricostruzione poi.
Ma non dobbiamo neanche sottrarci dal riflettere su quale fosse l’utilità di cotanta generosità.
Per un breve momento abbiamo avuto l’illusione di condividere una comune condizione umana. Potevamo così permetterci di dimenticare che solamente il 6% dei richiedenti asilo haitiani ottiene lo status di rifugiati in Francia, rappresentando uno dei tassi nazionali più bassi, ben al di sotto di coloro che arrivano da Paesi apparentemente in pace; oppure potevamo così permetterci di dimenticare che, nelle liste di persone da espellere dell’U.S. Immigration and Customs Enforcement Agency, erano presenti trentamila haitiani. Il cataclisma sembrava far dimenticare lo sfruttamento prima francese e poi statunitense dell’isola. La nostra risposta a tutto questo rappresentava una promessa di riparazione e una speranza di riconciliazione.
Nelle società contemporanee, dove le disuguaglianze hanno raggiunto un livello senza precedenti, l’umanitarismo ispira la fantasia di una comunità morale globale ancora realizzabile e la fiducia in una solidarietà con potere di redenzione.
Una simile immagine secolare di comunione e redenzione implica l’improvvisa consapevolezza di una condizione umana fondamentalmente diseguale e della necessità etica di non rimanere passivi, in nome della solidarietà, per quanto effimera sia questa consapevolezza, e per quanto limitato sia l’impatto di tale necessità.
L’umanitarismo ha questa notevole forza: colma in maniera fugace e illusoria le contraddizioni del nostro mondo, rendendo l’intollerabilità delle sue ingiustizie in qualche modo tollerabile. E da ciò deriva la sua capacità di produrre consenso.
Ecco dunque quella forza dei deboli – moralmente motivata, politicamente ambigua e profondamente paradossale – che propongo di chiamare ragione umanitaria.