Gaza: c’è un giudice a L’Aia?

Sul ruolo della Corte penale internazionale in Palestina

di Vito Todeschini

Il 18 maggio 2018 il Consiglio dei diritti umani dell’ONU ha approvato la creazione di una commissione di inchiesta con l’obiettivo di far luce sulle responsabilità per le decine di morti e le migliaia di feriti causate dalle forze di sicurezza israeliane a Gaza durante le manifestazioni che hanno preceduto il settantesimo anniversario della Nakba.

Come quelle seguite alle operazioni Piombo fuso e Margine protettivo, è probabile che anche questa nuova inchiesta sia destinata a non avere alcun esito concreto. A risultati diversi potrebbe invece portare un’eventuale indagine della Corte penale internazionale (CPI), del cui Statuto la Palestina è divenuta parte nel gennaio 2015.

In generale la CPI ha giurisdizione su quattro categorie di crimini internazionali: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e il crimine di aggressione.

Soggetti a tale giurisdizione sono i cittadini di uno Stato che sia parte dello Statuto della CPI oppure qualsiasi individuo, anche straniero, che commetta uno dei suddetti crimini sul territorio di tale Stato. Ne consegue che la CPI, in linea di principio, può giudicare i crimini commessi sia da palestinesi che da israeliani a Gaza e in Cisgiordania.

Prima di iniziare un’indagine il Procuratore della CPI deve svolgere un esame preliminare al fine di valutare quattro fattori:

(1) se, in base agli elementi a disposizione, si possa ragionevolmente concludere che dei crimini su cui la CPI ha giurisdizione siano stati commessi;
(2) se siano già state avviate delle indagini effettive da parte dello Stato accusato dei crimini;
(3) se i supposti crimini siano sufficientemente gravi in termini di portata e natura da meritare un giudizio di fronte alla CPI;
(4) se esistano ragioni per le quali un’indagine risulterebbe in contrasto con gli interessi della giustizia. Ognuno di questi fattori è essenziale perchè un’investigazione possa essere aperta. In una decisione del dicembre 2014, ad esempio, il Procuratore Fatou Bensouda aveva concluso che l’incidente avvenuto nel 2010 durante l’abbordaggio della Mavi Marmara, in cui dieci attivisti turchi persero la vita, non soddisfaceva il requisito di gravità richiesto dallo Statuto della CPI.

Aprire il fuoco contro persone disarmate nel corso di una manifestazione costituisce un uso ingiustificato della forza secondo le convenzioni sui diritti umani e un crimine di guerra quando avvenga nel corso di un conflitto armato. Le convenzioni sui diritti umani limitano la facoltà delle forze di sicurezza di usare armi potenzialmente letali solamente contro chi rappresenti un pericolo imminente per l’incolumità altrui.

Ogni uso potenzialmente letale della forza deve essere strettamente necessario e inevitabile (ad esempio perchè non è possibile effettuare un arresto), nonché proporzionato al pericolo e in grado di minimizzare i danni alla persona (sparando per ferire e non per uccidere).

È inoltre richiesto che le armi di per sé non letali, come cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e proiettili di gomma, siano utilizzati in maniera tale da non portare ad esiti fatali (vedi il soffocamento di una neonata palestinese a causa dei gas lacrimogeni) o danni permanenti come l’accecamento, una conseguenza frequente legata all’uso dei proiettili di gomma.

Le convenzioni sui diritti umani vietano quindi di sparare contro dei manifestanti che, pur compiendo atti di violenza, non rappresentino un pericolo imminente per gli agenti o per altre persone.

Nel caso di Gaza le forze di sicurezza israeliane non avrebbero dovuto usare armi da fuoco contro quei dimostranti palestinesi che tentavano di avvicinarsi al confine e superare la barriera, essendo in grado di respingerli con altri mezzi. Le immagini dei cecchini che colpiscono i manifestanti in fuga sono un’ulteriore dimostrazione del carattere illegale dell’uso della forza da parte delle forze israeliane.

L’argomento utilizzato da Israele per giustificare l’uso della forza a Gaza, tuttavia, è che le dimostrazioni sono parte integrante del conflitto armato con Hamas, ragion per cui le azioni delle proprie forze di sicurezza sarebbero governate non dalle convenzioni sui diritti umani (la cui applicazione in tale contesto è categoricamente rifiutata da Israele) ma dal diritto dei conflitti armati, il quale pone vincoli meno stringenti all’uso della forza.

La regola di base nei conflitti armati è che i civili non possono essere attaccati direttamente a meno che non prendano parte diretta alle ostilità, perdendo così l’immunità dagli attacchi. Per l’intera durata della sua partecipazione al conflitto, infatti, un civile può essere attaccato e ucciso esattamente come qualsiasi membro delle forze armate di uno Stato, ed è questa l’ottica impiegata da Israele nei confronti di chiunque appartenga ad Hamas.

A detta di Israele, inoltre, l’uso della violenza da parte dei dimostranti palestinesi sarebbe funzionale alle operazioni militari di Hamas e costituirebbe un pericolo imminente per la sicurezza nazionale, motivo per il quale diverrebbe lecito usare la forza contro coloro che tentano di danneggiare o varcare la barriera di separazione con la Striscia.

Tali argomenti presentano una serie di punti deboli.

Primo: al di fuori di operazioni militari come Piombo fuso o Margine protettivo, la situazione a Gaza non è pacificamente classificabile come un conflitto armato a causa della mancanza di ostilità attive tra Hamas e Israele. In assenza di ostilità, il diritto internazionale riconosce una situazione di conflitto armato solo in caso di occupazione militare. Stante il rifiuto israeliano di riconoscere Gaza come territorio occupato diviene giuridicamente controverso sostenere l’esistenza di un conflitto armato a cui si applicano le regole meno stringenti sull’uso della forza.

Secondo: anche ammettendo che a Gaza vi sia un conflitto e che il diritto dei conflitti armati sia applicabile alle azioni delle forze di sicurezza israeliane, è difficilmente argomentabile che le manifestazioni possano inquadrarsi all’interno di un’operazione militare. A tal scopo si dovrebbe dimostrare l’esistenza non solo di un nesso diretto tra le proteste e il conflitto ma anche del vantaggio militare derivante dalle manifestazioni per una delle parti in conflitto. Affermare che le azioni di una massa di manifestanti per la maggior parte disarmati siano parte integrante di un’operazione organizzata da Hamas, volta ad acquisire un vantaggio militare nel conflitto, appare un salto logico notevole. A tali condizioni l’uso diretto della forza contro i manifestanti a Gaza costituisce una violazione grave del diritto dei conflitti armati ed equivale a un crimine di guerra.

Terzo: a differenza di quanto affermato dal Governo e dalla Corte suprema israeliani, l’esistenza di un conflitto armato non implica che tutte le azioni delle forze di sicurezza siano regolate dal diritto dei conflitti armati. Secondo varie istanze internazionali, come il Comitato internazionale della Croce Rossa e la Commissione africana per i diritti umani e dei popoli, il diritto dei conflitti armati regola l’uso della forza esclusivamente nel corso delle ostilità attive e delle operazioni militari vere e proprie.

Qualsiasi situazione che non abbia un nesso diretto con il conflitto, come appunto delle manifestazioni di protesta, è invece regolata dalle convenzioni sui diritti umani e dalle norme che governano in maniera più stringente l’uso della forza. Di conseguenza, pure ammettendo l’esistenza di un conflitto a Gaza, il diritto internazionale richiede che l’uso di armi potenzialmente letali da parte delle forze di sicurezza israeliane sia regolato dalle convenzioni sui diritti umani e non dal diritto dei conflitti armati.

In quanto violazioni gravi dei diritti umani e del diritto dei conflitti armati, le uccisioni di manifestanti a Gaza potrebbero quindi qualificarsi come crimini contro l’umanità e/o crimini di guerra ai sensi dello Statuto della CPI.

Perché il Procuratore possa procedere a un’indagine, tuttavia, si deve provare che Israele non intende investigare i crimini commessi oppure che eventuali investigazioni non abbiano lo scopo reale di accertare i fatti e identificare i responsabili.

Questo perché la CPI è un’istanza complementare alle giurisdizioni nazionali, la quale si attiva quando le autorità di uno Stato non intendano mettere sotto indagine gli autori di eventuali crimini internazionali. Un esame preliminare dei fatti di Gaza dovrà quindi attendere i risultati delle indagini israeliane e valutare se esse siano state condotte in modo efficace e con la genuina intenzione di accertare i fatti.

Al momento è in corso di svolgimento un esame preliminare riguardante sia gli insediamenti israeliani in Cisgiordania che i crimini commessi nel corso di Margine protettivo, l’operazione militare condotta a Gaza nell’estate 2014.

Lo stesso Governo palestinese ha recentemente sollecitato il Procuratore ad aprire un’investigazione formale sui crimini connessi all’espansione degli insediamenti. E come affermato da Bensouda, i recenti fatti di Gaza potrebbero divenire parte di tale esame.

I problemi che affliggono questa fase dei procedimenti, tuttavia, sono l’estrema lunghezza e l’indeterminatezza dei tempi di conclusione. L’esame preliminare riguardante la Palestina è stato infatti avviato nel gennaio 2015 e tuttora non è possibile prevederne la durata.

Come sottolineato da alcuni esperti, a complicare il quadro stanno la strenua opposizione di Israele a livello diplomatico nonché la mancanza di un convinto supporto da parte degli Stati europei e arabi. Ciò significa che qualsiasi risposta da parte della CPI non potrà che concretizzarsi in un futuro sicuramente non prossimo.

Nonostante le lentezze procedurali e gli ostacoli politici, la CPI rimane un meccanismo che potrebbe portare a ottenere giustizia per alcuni dei crimini commessi in Palestina ‒ dagli insediamenti illegali in Cisgiordania agli attacchi contro i civili a Gaza ‒ permettendo di condannare i vertici politici e militari di Israele e imponendo delle riparazioni nei confronti delle vittime.

Nella tragedia che ha accompagnato il settantesimo anniversario della Nakba, si può sperare che gli ulteriori crimini commessi a Gaza siano almeno d’impulso a un’accelerazione della giustizia internazionale.