Oltre la guerra – capitolo 5

La Colombia, tra processo di pace ed elezioni

di Lorenza Strano

Un viaggio virtuale nella Colombia che resiste. Ogni episodio darà voce a uno dei municipi de Los Montes de Maria, in cui i sopravvissuti al logorante conflitto parlano di sé, dei loro talenti, della loro resilienza. Video, foto e audio cercheranno di tramettere l’immensa accoglienza della gente, tra scene di vita quotidiana, emergerà quel lato della storia poco raccontato, quello delle “vittime” che non si arrendono ai ricordi di dolore.

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Capitolo 5 – Colosò

Durante l’astio Colombia-Venezuela inviò la sua prima lettera al presidente colombiano. La risposta arrivò inaspettatamente da Uribe.

Da quel momento, il poeta Annibal, diviso tra la piccola stanza circondata dal legno e l’amore spassionato per la campagna non smise di scrivere lettere per qualsiasi tema di interesse pubblico.

Al piccolo municipio di Colosó arrivarono le parole del presidente: “Ojalá todas las personas fueran como tu, que se atrevien a opinar al gobierno”.
Non ricorda l’anno ma sa che era l’inizio dell’astio tra Uribe e Chávez e che grazie alla sua lettera la Colombia non si mise contro un paese fratello.

Durante il conflitto colombiano ha scritto molte lettere sulle necessità del suo paesino e qualche tempo fa ha anche scritto al presidente colombiano Santos, invitandolo ad aiutare i fratelli venezuelani, creando corridoi per far studiare i giovani nelle istituzioni colombiane.

La gente resta sorpresa dal fatto che rispondano direttamente alle sue lettere dall’alto dei palazzi bogotani, che gli inviino persino gli auguri di Natale.

Annibal sorride, dice di essere semplice, interessato alle cause politiche sociali ed è questo secondo lui il segreto dietro quelle risposte. Lui che non ha mai frequentato la scuola, ha imparato a scrivere da solo nei ritagli di tregua che il campo da coltivare gli dava.

La prima musa ispiratrice una ragazza di Chalán di cui si innamorò, con cui sbocciò l’amore che poi svanì quando lei si trasferì.

Non l’ha più rivista, sa che è diventata folle. Lui adesso ha 75 anni, poesie, versi, scritti tutti racchiusi in una cartellina che il tempo ha ingiallito ma con la stessa voglia di sempre. Posso essere innamorato ma sto lì, posso avere fame ma sto lì a scrivere, il sogno è continuare a scrivere.

Nemmeno durante il conflitto smise di scrivere. Si allontanò dalla chiesa, limitò gli spostamenti ma mai lasciò la scrittura.

“Ciò che mi dava la forza era il pensiero che se mi uccidevano era per il mio lavoro, era per andare a cercare la yuca, andando e tornando dal monte. Questo mi dava forza. Tutti se ne sono andati ma io sono rimasto nonostante la paura, un giorno sembrava tutto stesse per cadere sopra le nostre teste ma le responsabilità mi hanno fatto restare, sarei morto qui nel camino verso il monte ma mai fuori da qui”.

In quel monte ha vissuto momenti di tensione quando un poliziotto lo fermò pensando non fosse del luogo, lo portò in caserma come facevano con tutte le nuove facce. Annibal raccontò di essere un contadino che si dedicava alla poesia allora fu invitato a recitarne alcune.

Il poliziotto estasiato gli chiese di cercarlo quando avrebbe pubblicato la sua raccolta perché di sicuro l’avrebbe comprata. Adesso il sogno è poter pubblicare il libro e chissà se Annibal rintraccerà l’ufficiale per vendergli la sua copia.

Oggi ha anche una pagina su twitter e facebook con le quali tenta di influenzare il dibattito pubblico, dalla semplicità della sua casa nei monti.

Il prete come falso positivo

Nato a Colosó, si rifugia a Corosal, una vita dedicata agli altri che riesce sempre a dare anche in mezzo alla cruda assurdità della violenza umana. Per lui la chiesa non è solo parole ma fatti che cambiano la vita delle persone. Una volta tornato comincia a cercare opportunità per una chiesa inclusiva, motore di cambiamento.

Oggi con vari aiuti ricevuti, ha realizzato un grande sogno: un piccolo granello di sabbia lo chiama lui, assistenza educativa e psicologica a 322 famiglie del paesino.

“Seguiamo la parte educativa di bambini e ragazzi, cerchiamo di radicare la povertà spirituale e materiale. Difendendo i loro diritti, cambiamo Colosó”.

Il pastore Daniel sa che anche i piccoli, nonostante non siano annoverati tra le vittime dirette del conflitto, considerati la generazione della pace, hanno vissuto i loro traumi.

Se i genitori hanno sofferto è inevitabile una ripercussione emotiva. Sono tanti i casi di famiglie lacerate dalle perdite tragiche e dall’assenza.

Per questo il centro cerca di recuperare i migliori ricordi dell’infanzia che non siano la vita vagabonda, l’abbandono forzato di amici e abitudini. Arriva il momento in cui chiedono cosa sia successo e trovano risposte al centro di padre Daniel.

La migliore ricompensa del suo lavoro è un bambino felice, confessa. Lui sa quanto a volte si faccia attendere la felicità. Dai suoi occhi si percepisce una sofferenza che tenta di nascondere al mondo e ai bambini. Racconta dei suoi giorni passati in carcere, gli occhi si fanno sempre più lucidi.

Era uno dei 70 falsi positivi che quel giorno di tanti anni fa, la polizia accusò ingiustamente. Due mesi e cinque giorni sul pavimento del carcere gli hanno insegnato a perdonare. Non è stato facile ammette, una volta libero se vedeva poliziotti si nascondeva e la notte era preda di incubi.

Al centro la persona e il nucleo familiare, la necessità di dialogo e l’urgenza della verità. Con queste certezze padre Daniel vuole ripartire da Colosó, un posto speciale dove rimanere senza nessun rimorso né rimpianto.

IL PROFESSORE DI COLOSÓ

Insegna storia da moltissimi anni tanto da essere conosciuto come “Il professore di Colosó”, non ha mai abbandonato la scuola nemmeno durante il conflitto.

Con voce dolce, il suo animo sensibile si lascia scoprire nel salotto di una casa piena di libri mentre si abbandona al movimento della sedia a dondolo, tipica degli scenari montemariani.

Condivide i ricordi, gli vengono in mente con una chiarezza che lascia trasparire un velo di tristezza e al tempo stesso la serenità di un cielo dopo la tempesta.

Racconta miti e leggende de Los Montes senza pensarci troppo su perché li sa a memoria. Da tempo custodisce un dizionario di costeño, una raccolta di vocaboli e espressioni conosciute solo nella costa che ama profondamente.

Persino durante il conflitto, quando tutta la famiglia andò via dal municipio, restò lì dov’era solo con la madre.

Alla domanda se sarebbe rimasto rispondeva: finché resta lei, resto io. Allo stesso modo rispondeva lei. Così restarono tutta la vita a Colosó, tra miliziani che davano false informazioni, morti e sparizioni.

Con lo sguardo tenero di un papà racconta che a volte nascevano storie d’amore clandestino tra studentesse e guerrilleros e lui era sempre lì pronto a dare consigli, a continuare con le sue lezioni. Passarono giorni difficili in cui si uccideva la gente per informazioni sbagliate e non verificate. La paura era così tanta che mai reagirono con forza ma si aiutavano sempre.

Oggi con tranquillità mi racconta di quando terrorizzati dalla guerrilla, dovevano inventarsi di tutto per trasmettere fiducia ai piccoli studenti.

Insieme hanno dato vita a piccoli atti di resistenza come nel giorno del bicentenario dell’indipendenza colombiana in cui, nonostante il divieto della guerrilla di esporre la bandiera colombiana, sono usciti fuori dalla scuola e hanno sfilato tutti insieme con grandi bandiere.

L’impegno per spiegare quello che è successo mai si spegnerà dentro il suo animo da professore innamorato della storia e dei monti.