Pro-vita. Ma di chi?

“Di’ agli uomini che restiamo” è una rubrica per tutti, ma in onore delle donne. Specialmente quelle che non hanno permesso che le lasciassero indietro. Quelle che hanno detto “Vengo anche io, e ci vengo alle mie condizioni.” E anche per quelle che invece sono state lasciate a casa, come le mogli del racconto di Raymund Carver. È anche per loro, perché non sono da sole. E perché spero che un giorno potranno raggiungerci.

di Elena Esposto

Qualche tempo fa Roma si è svegliata un po’ meno femminista e un po’ più medioevale, quando in città sono apparsi i manifesti che paragonavano l’aborto al femminicidio.

Lasciando da parte giudizi di valore e di efficacia della campagna possiamo notare la bizzarra ironia di chi, con la sua cieca ideologia, finisce per dare un messaggio opposto a quello cercato.

Perché, se l’aborto non è la principale causa di femminicidio nel mondo, è innegabile che contribuisca alla morte di un elevato numero di donne ogni anno. Secondo una ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità solo nel 2008 47.000 donne sono morte a causa di complicazioni sopravvenute in seguito ad aborti definiti a rischio.

Sempre secondo stime dell’Oms ogni anno nel mondo vengono praticati 25 milioni di aborti a rischio (su 56 milioni totali), il 97% dei quali in Africa, Asia e America Latina.

Con l’espressione aborti a rischio si indicano tutte quelle interruzioni di gravidanza praticate da personale non medico o in ambienti che non rispecchiano gli standard medici e di igiene minimi.

Quello che gli anti abortisti non riescono a capire è che è proprio l’aborto a rischio ad essere pericoloso per la vita della madre.

Secondo l’Oms il tasso di mortalità materna causato da queste operazioni oscilla tra il 4,7 e 13,2%. Quando parliamo di “madre”, poi, non intendiamo solo la madre del feto abortito. Non dobbiamo dimenticare che spesso le donne che ricorrono ad aborto sono già madri di altri figli e magari, come accade in molti Paesi, sono le uniche responsabili della famiglia.

Un’altra conseguenza degli aborti a rischio è che circa 7 milioni di donne ogni anno vengono ammesse in ospedale a causa di complicazioni. Queste vanno dall’aborto incompleto (mancata totale espulsione del feto), all’emorragia, passando per infezioni, perforazioni uterine e danni ai genitali o agli organi interni a causa degli strumenti utilizzati.

Sempre secondo il report dell’Oms il motivo principale per il quale si rende necessario ricorrere ad aborti in condizioni non sicure sono le leggi restrittive che penalizzano l’interruzione volontaria di gravidanza.

È emblematico che 3 aborti su 4 praticati in Africa e in America Latina avvengano in condizioni rischiose, dal momento che la legislazione della maggior parte dei Paesi in questi due continenti penalizzano l’aborto, ad eccezione dei casi dove questo è necessario salvare la vita o la salute della madre. Dei 54 stati africani solo quattro (Capo Verde, San Tomé e Principe, Tunisia e Sud Africa) consentono l’interruzione di gravidanza su richiesta della madre, a patto che essa venga effettuata in ospedale, con personale competente ed entro un certo limite di settimane dal concepimento. Per quanto riguarda l’America Latina e i Caraibi, su 35 Stati, solo 3 (Cuba, Guyana e Uruguay) garantiscono questo diritto.

I sostenitori della propaganda anti aborto, e che si battono perché esso torni ad essere illegale, dovrebbero avere ben chiari questi fatti prima di lanciarsi in battaglie pro-vita che si rivelano essere invece pro-morte. Senza considerare il fatto che cancellare le leggi che tutelano il diritto di scelta delle donne e proibire l’aborto in tutte le circostanze non estirperebbe il fenomeno.

Proibire non significa eliminare, se la storia e l’economia ci hanno insegnato qualcosa. Così come il proibizionismo non impediva la vendita alcolici e l’illegalità delle droghe non impedisce ai gruppi criminali di continuare a fatturare miliardi sul mercato nero, allo stesso modo scagliarsi contro le norme che disciplinano l’interruzione volontaria di gravidanza non impedirà alle donne di abortire comunque, anche a rischio della loro vita.

Prendiamo ad esempio il Brasile, dove l’aborto è permesso solo nei casi in cui la vita della madre sia in pericolo, il feto sia malformato o se la gravidanza è frutto di uno stupro. In caso contrario colui o colei che operino l’interruzione della gravidanza sono punita con la reclusione da uno a quattro anni. La pena aumenta nel caso in cui non si sia prima ottenuto il consenso della donna, o se questa dovesse soffrire gravi complicazioni o morire, o se ha meno di quattordici anni. La donna che pratichi l’aborto su sé stessa o dia il proprio consenso perché qualcun altro lo faccia può ricevere una pena che va dall’anno ai tra anni di reclusione.

Questa legislazione non impedisce che in Brasile vengano praticati ogni anno circa 500.000 aborti clandestini (per alcuni questa cifra arriverebbe a un milione, ma è molto difficile definirne la reale portata dal momento che, essendo un fenomeno sommerso, non ci sono dati ufficiali). Quale che sia il numero totale di aborti illegali praticati nel paese, il Ministero della Salute ha stimato che ogni anni 200.000 donne vengono ricoverate in ospedale in seguito a complicazioni mentre per 500 donne all’anno l’esperienza termina con il decesso.

Non solo gli aborti clandestini sono spesso praticati in situazioni igienico sanitarie pessime, ma avvengono anche in “cliniche” gestite da gruppi criminali senza scrupoli.

La severità della pena, se non serve come deterrente per l’aborto, di sicuro incentiva chi porta avanti queste pratiche illegali a cercare di nasconderne le tracce nel caso di complicazioni o morte della donna, come nel caso di Jandira dos Santos Cruz, trovata fatta a pezzi dopo essersi recata in una clinica per abortire illegalmente. Il sospetto della polizia è che in seguito a complicazioni e possibile morte durante l’operazione i responsabili avessero deciso di occultarne le prove. Al cadavere, tra le altre cose, erano state tagliate le mani e asportati i denti, forse nel tentativo di renderne impossibile l’identificazione.

La penalizzazione dell’aborto non solo costringe le donne a interrompere la gravidanza nell’illegalità, in condizioni igienico-sanitarie carenti, quando non del tutto assenti, che possono risultare in gravi danni per la salute o addirittura nel decesso, ma le mette anche alla mercé dei criminali che offrono questo genere di servizio.

Questo va dalla richiesta di somme esorbitanti, possibilità di ricatto o addirittura, come nel caso di Jandira dos Santos Cruz, alla brutalizzazione e occultamento del cadavere in caso di morte.

In definitiva, se la cifra di 56 milioni di aborti all’anno fa rabbrividire i pro-vita che considerano ogni aborto un omicidio, e se è veramente di vita che vogliamo parlare, allora parliamo anche di quelle 40.000 donne che muoiono ogni anno per aver abortito in condizioni disumane. Se quello che ci interessa è la vita vera, e non la mera ideologia, allora la crociata contro le leggi che disciplinano l’aborto è il peggior modo per dimostrarlo.