La migrazione è una bella storia

Intervista a Giusi Nicolini

di Gabriella Grasso

 

Questa intervista è stata realizzata prima della nomina del nuovo governo italiano. 

 

A volte per restare umani bisogna compiere azioni apparentemente irragionevoli. Come occuparsi, nel bel mezzo della concitazione che accompagna uno sbarco di migranti, di un gatto.

Prima di lasciare il Sudan l’ultimo pensiero di Sama è stato quello di salvare Timo, il suo micio preferito. Lo ha nascosto bene sotto gli abiti e ha attraversato con lui il mare. In che condizioni, lo
possiamo immaginare. All’arrivo a Lampedusa, i due sono stati separati, come previsto dalle
normative sanitarie.

Ma davanti al pianto disperato di una bambina sopravvissuta, il senso di umanità può anche imporsi sulle regole. Così, grazie all’intervento di Giusi Nicolini, allora sindaco dell’isola, a Sama è stata fatta una promessa: il gatto sarebbe rimasto in quarantena in Sicilia, poi le sarebbe stato restituito.

Quattro mesi dopo, in tempo per il Natale, Timo si è ricongiunto alla sua piccola padrona, che nel frattempo aveva raggiunto la famiglia in Germania.

Questa storia (vera) è diventata, grazie alla penna di Miriam Dubini, un libro per bambini intitolato Il viaggio di Sama e Timo (Battello a Vapore), pubblicazione sostenuta dall’ong Amref nell’ambito del progetto Voci di Confine – La migrazione è una bella storia, che si pone l’obiettivo di cambiare la narrazione corrente del fenomeno migratorio.

Giusi Nicolini, che da un anno non è più sindaco ma non ha mai smesso di occuparsi di migrazione, ha di recente partecipato a un viaggio con Amref (che è la più grande organizzazione sanitaria
africana, impegnata in 35 Paesi a sud del Sahara) per testimoniare un progetto dedicato ai profughi
del Sud Sudan ospitati in Uganda, Paese indicato dall’ong come un esempio di accoglienza.
L’abbiamo incontrata.

Il progetto Voci di confine di Amref ha come obiettivo quello di cambiare il modo di raccontare la migrazione. Si tratta davvero di una priorità?

Sì. Sappiamo tutti – basta guardare i dati – che la tanto paventata invasione non c’è, non c’è mai stata e probabilmente non ci sarà mai, soprattutto perché chi sbarca in Italia o in Grecia non vuole fermarsi in questi Paesi, ma entrare in Europa. E se pensiamo a quanta capacità di accoglienza ha ancora il nostro Continente…

Lei è sicura che questa capacità di accoglienza ci sia?

Certo che c’è. Lo dicono i dati sul calo demografico, sulla ripresa dello sviluppo dei nostri Paesi
(Italia inclusa), lo dicono le tante attività che i migranti svolgono, purtroppo spesso in nero, e che in
loro assenza nessuno svolgerebbe. Non si può negare che l’immigrazione causi dei problemi, ma vanno governati. Perché i disagi provocati dagli arrivi indiscriminati e incontrollati nei tempi e nei numeri, sono sicuramente maggiori. A suscitare paura è soprattutto la visibilità degli sbarchi: altre modalità di arrivo – maggiori in termini numerici, ma invisibili – non possono essere utilizzate per parlare di invasione. Se non governati, gli sbarchi determinano un’oggettiva condizione emergenziale e io l’ho vissuta sulla mia pelle a Lampedusa. Quando in un’isola piccola come la mia arrivano in una notte più di mille persone che hanno bisogno di tutto, e tu hai a disposizione un solo centro di accoglienza dotato di 400 posti, la situazione è davvero difficile. E se questo clima emergenziale diventa la prassi, allora la comunità ne risente. Soprattutto perché le piccole isole vivono di turismo e non possono permettere che la loro immagine venga compromessa. A Lampedusa negli ultimi 20 anni il flusso turistico ha subito alti e bassi. Il crollo c’è stato nel 2011 quando, in coincidenza con le Primavere Arabe, quasi settemila ragazzi tunisini (un numero superiore a quello degli abitanti, che sono 5.800) vennero abbandonati per strada. Una condizione di degrado e barbarie che determinò il crollo delle presenze turistiche e fece scattare negli abitanti la paura per la sopravvivenza. Ma siamo riusciti a interrompere questo circolo vizioso e il turismo è risalito, fino all’exploit del 2016.

Nel video che testimonia il suo viaggio con Amref lei afferma che in Uganda: “La questione migratoria è stata introiettata nelle strategie di sviluppo del Paese”. Sembra suggerire che lo stesso può essere fatto in Italia…

Non solo può, ma deve essere fatto. A maggior ragione in un Paese sviluppato come il nostro. Quando la ricca Germania diede asilo a un milione di siriani ci sembrò incredibile. Eppure l’Uganda, un Paese povero, di profughi ne accoglie un milione e mezzo, in prevalenza provenienti dal Sud Sudan. L’Europa si rifiuta di accettare un dato di fatto: le migrazioni forzate sono inarrestabili e possono essere contrastate solo andando a erodere le ragioni che le determinano, dunque mettendo in atto politiche di pace e di sviluppo. Lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”, così banalmente utilizzato, dev’essere concretizzato in maniera seria da tutta la comunità internazionale: parlare di pace significa, per esempio, bloccare la vendita di armi. Questo è l’unico modo per arrestare i flussi. Ma trattandosi, in ogni caso, di politiche di lungo termine, anche se iniziassimo oggi i risultati non sarebbero comunque immediati. Quindi i migranti continueranno ad arrivare. Questo non vuol dire rassegnarsi, ma capire che si tratta di fenomeni che vanno governati: non ci sono muri, barriere, fili spinati che tengano. Bisogna assumere la migrazione nei programmi nazionali di sviluppo. E va fatto in grande scala. Lampedusa, in piccolo, ha dimostrato che è possibile, organizzando gli sbarchi e rafforzando i servizi. Nel video del mio viaggio in Uganda io traccio un’analogia, per quanto forzata, tra quel Paese e Lampedusa per quanto riguarda l’umanità e l’organizzazione dell’accoglienza. Nel 2015 ho partecipato a una missione Onu sul confine balcanico e lì, invece, ho visto cose terribili. Intere famiglie siriane, con disabili e anziani, accolti con i mitra spianati, toccati solo con le canne dei fucili. A un’accoglienza organizzata, però, si arriva quando si prende atto del fatto che non ci si trova davanti a un terremoto o un’alluvione, ma a un fenomeno che si presenta tutti i giorni, anche quando i media non lo raccontano».

Lei non è più sindaco da un anno. Nel frattempo gli sbarchi in Italia sono notevolmente diminuiti (del 78% nel 2018). Cosa succede, oggi, nella sua isola?

Ciò che accade a Lampedusa è, anche in questo caso, la cartina di tornasole di quanto avviene nel Mediterraneo. Da quando non sono più sindaco, e con l’accordo per me discutibile che il governo Gentiloni ha siglato con la Libia, gli arrivi sull’isola sono calati, soprattutto quelli dall’Africa subsahariana. In compenso sono diverse migliaia le persone sbarcate nell’ultimo anno dalla Tunisia, dato che il monitoraggio su quella rotta si è indebolito. Ricordiamo che in seguito al naufragio del 3 ottobre del 2013, che avvenne a 500 metri dalla costa, si decise di rinforzare i controlli in mare e iniziò l’operazione Mare Nostrum. Quando questa terminò, furono le ong a presidiare il mare, con un’azione che era di denuncia e di supplenza delle istituzioni. Quindi per anni gli sbarchi sono avvenuti prevalentemente attraverso le motovedette che effettuavano il soccorso al largo. Ora si è tornati alla situazione pre-Mare Nostrum: i migranti arrivano autonomamente su piccole imbarcazioni dalla Tunisia, rischiando meno perché il viaggio è più breve.

Quale le sembra, oggi, la posizione dell’opinione pubblica rispetto al fenomeno migratorio?

L’ex ministro degli interni Minniti ha ottenuto grande popolarità con la sua azione contro gli sbarchi, ma non mi pare che questa si sia tradotta in successo elettorale per il Pd. In ogni caso, il fatto che vediamo meno morti sulle nostre coste, non vuol dire che non ci siano. I migranti finiscono prima nelle mani delle organizzazioni criminali e poi nei centri di detenzione libici, che sappiamo essere dei lager dove non esiste il rispetto dei diritti umani: molti di loro muoiono ancora prima di prendere il mare. La situazione è devastante. La posizione dell’opinione pubblica si può leggere dai risultati elettorali del 4 marzo: hanno vinto coloro che parlano di respingimenti, anche se l’azione di Minniti andava tutto sommato nella stessa direzione. Alla luce di questo direi che, più che fermare la cosiddetta invasione o controllare i flussi migratori, la priorità è combattere la paura.

Sembrerebbe però che nemmeno il suo lavoro come Sindaco sia stato premiato dagli elettori…

È vero, ma lo è altrettanto che sindaci che hanno posizioni simili alle mie, per esempio Leoluca Orlando a Palermo, hanno vinto. Credo sinceramente che le elezioni – locali e nazionali, con le dovute differenze – non si vincano sul tema delle migrazioni, ma su quelli dell’economia, dello sviluppo e degli interessi sul piano locale. La migrazione viene strumentalizzata, spesso fornendo solo una copertura alle reali dinamiche per cui le persone ti votano o meno.

A volte ho l’impressione che chi affronta il viaggio verso l’Europa non sappia esattamente cosa troverà a destinazione. I Paesi di origine informano poco i cittadini sulle reali difficoltà che troveranno, forse perché le rimesse fanno comodo. Lei cosa ne pensa?

Una maggiore informazione servirebbe forse a ridurre il flusso migratorio, ma solo leggermente. Queste persone scappano da situazioni durissime e pesanti. Poi, certo, in un Paese come il Senegal le rimesse garantiscono più introiti dell’agricoltura, quindi sicuramente non c’è interesse a scoraggiare i viaggi. Però le rimesse possono essere anche uno strumento per minimizzare le migrazioni di tipo economico: se un cittadino senegalese viene qui a lavorare e riesce a mandare a casa ciò che serve per la sussistenza del suo nucleo familiare allargato, nessun altro della famiglia partirà. Ecco perché servirebbero, oltre a politiche di asilo più umane, anche politiche migratorie in generale. Bisogna stare attenti, però, a non considerare i migranti come una massa indistinta: ognuno di loro ha una storia e una motivazione. Ci sono ragazzi che non hanno mai visto il mondo e rischiano la vita anche per questo. Se fossero liberi di viaggiare e poi tornare a casa, la situazione sarebbe diversa. Conosco un giovane eritreo che è sbarcato a Lampedusa nel 2007 ed è riuscito a laurearsi in Agraria. Vorrebbe tornare nel suo Paese per avviare un’azienda agricola e contribuire allo sviluppo locale, ma non può farlo perché finirebbe in prigione. I conflitti, la povertà, la mancanza di libertà sono tutti fattori che vanno considerati.

A chi giudica persone come lei “buoniste” cosa risponderebbe?

Innanzitutto non lo considero un insulto, semmai una brutta parola: perché le persone cattive non sono definite “cattiviste”? Ciò detto, in un tempo storico in cui trionfano i peggiori sentimenti, io non mi preoccuperei tanto della proliferazione del buonismo, quanto del dilagare dell’egoismo nazionale. Dimentichiamo che la globalizzazione può diventare un’opportunità solo se gli Stati (con i loro Nord e i loro Sud) e le periferie si mettono insieme per affrontare le sfide che essa pone. Non possiamo tornare indietro, azzerare il progresso tecnologico e lo sviluppo che hanno fatto del mondo un Villaggio Globale. Dobbiamo iniziare a pensarci tutti abitanti dello stesso Pianeta, ragionando insieme in termini di solidarietà, tutela dell’ambiente, sviluppo sostenibile. Per rispondere alla sua domanda, comunque, se mi dicono che sono buona io sorrido. E ringrazio.