Perché in Italia non esistono (ancora) le etnie

L’idea di questo articolo nasce da una domanda di un mio studente maliano in un corso di lingua italiana per richiedenti asilo: “Maestra, ma in Italia esistono le etnie?”.

 

di Francesca Messineo

La diversità che aiuta a pensare

Il tema del giorno era la diversità linguistica in Italia e nei paesi di origine degli studenti. Abbiamo parlato delle minoranze linguistiche in Italia, come quella Arbereshe composta da albanesi stanziatisi in Italia secoli fa – quando il loro paese veniva progressivamente conquistato dall’impero ottomano – delle nostre regioni autonome e della diversità dialettale italiana.

Quando la parola è passata a loro mi hanno raccontato del Mali dove il bambarà è lingua ufficiale ma il francese rimane importante nell’amministrazione pubblica e in altri contesti prestigiosi. Della Costa d’Avorio, della Guinea Conakry e del Benin, dove le lingue parlate localmente sono tantissime e – proprio per questo – è stato scelto il francese come lingua veicolare ed ufficiale dello stato, dei media, della scuola e delle professioni.

In Nigeria ci sono tante lingue, le più importanti sono quelle degli Yoruba, degli Hausa-Fulani e degli Igbo, le tre etnie maggioritarie, ma tutti parlano il pidgin english e comunque l’identità si definisce in rapporto alla religione molto prima che alla lingua. Mi hanno descritto la Guinea Bissau dove si parla mandinka, creolo e portoghese, lingua ufficiale parlata solo dal 14% della popolazione. Può sembrare ingiusto, quasi una prepotenza ma i ragazzi ci scherzano su: “Tutti capiamo i portoghesi, sono loro che non capiscono noi!”.

In Gambia la lingua ufficiale è l’inglese ma la popolazione mischia broken english con woolof, fula e mandinka. Poi mi hanno consigliato di studiare fula, perché con questa macro-lingua suddivisa a sua volta in molti dialetti locali potrei comunicare con un incredibile numero di persone nell’Africa Occidentale, dopo viene il mandinka e solo in terza posizione si colloca il bambarà, parlato prevalentemente all’interno del Mali. Mi hanno parlato di un’educazione e una vita plurilingue e di alcuni tentativi delle istituzioni di introdurre lo studio delle lingue madri nelle scuole.

Dalla lingua all’etnia

Per gli studenti l’associazione lingua-etnia in Africa è una cosa naturale e scontata, loro si riconoscono nell’appartenenza ad un gruppo etnico e la lingua ne è il simbolo più immediato. Lo stesso binomio lo applichiamo anche in Occidente quando pensiamo all’Africa, alle sue tradizioni culturali e ai suoi conflitti. Ma cosa succede con l’Europa? Perché un paradigma normalizzato in un continente risulta un’idea astrusa e irrazionale in un altro?

Noi insegnanti siamo spesso rivestiti, da noi stessi e dai nostri studenti, di una sorta di responsabilità morale non sempre facile da rispettare “devo saper rispondere in modo appropriato a ogni domanda”. In una classe interculturale questo è ancora più difficile perché devo farlo con rispetto e sensibilità, senza che le mie idee personali prevalgano su un approccio descrittivo e in un italiano semplice.

“Maestra, in Italia esistono le etnie?” è una domanda che non ha travato una risposta preconfezionata nella mia mente, eppure ho studiato antropologia e scienze sociali per tanti anni.

Ho cercato di spiegare che in Italia non parliamo di etnie se non in relazione ai gruppi di – recente – immigrazione, che però le differenze culturali e linguistiche ci sono eccome, sole le chiamiamo in un altro modo. Forse la maggior parte degli studenti era soddisfatta da questa risposta, ma io no. Questa domanda mi ha fatto riflettere a lungo, ho sentito il bisogno di informarmi, ho chiesto ad amici, ho fatto ricerche online e ho letto dei libri.

La semplicità di questa domanda mi ha investito come una forza destabilizzante potentissima per via delle sue, non desiderate, implicazioni politiche. L’intento dello studente non era contrastare e criticare questa Europa che accoglie e respinge, che offre ai migranti un letto, del cibo scadente e persino una piccola diaria ma erige continuamente nuove barriere e contribuisce da secoli all’impoverimento e alla diffusione della violenza nei paesi loro d’origine. Le implicazioni politiche insite nell’applicare l’idea di etnia all’Italia o all’Europa. La potenza del linguaggio che crea, significa, attribuisce e nega valore.

Tutto questo faceva fumare il mio cervello perché colpiva dritto e forte all’inconscio collettivo dei nostri “paesi avanzati”.

Dopo le razze. Una prospettiva storica

Tra corsi e ricorsi la comunità scientifica ha da tempo stabilito che all’interno della specie umana le razze non esistono, in quanto non ci sono variazioni genetiche rilevanti tra i vari gruppi umani. Questo concetto fondamentale è ben illustrato nel saggio di Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza “Storia e geografia dei geni umani” (1994) o – per chi fosse interessato a una versione più leggera e divulgativa – in questo articolo de “Il Post”: .

Così entra in auge sempre più il concetto di etnia il quale si riferisce non a caratteri fisici e innati dei “tipi umani” ma alla loro differenze culturali e linguistiche. Negli USA la tradizione culturalista dell’antropologia (Franz Boas e allievi) e della sociologia (Scuola di Chicago) fanno proprio e riempiono di significato questo modello di analisi: rintracciando elementi culturali “oggettivi” e origine storica dei gruppi umani, descrivono la multi-etnica società americana contemporanea in cui convivono italiani, afro-americani, portoricani, chicani e molti altri. Anche le Nazioni Unite si servono di questo termine nella Dichiarazione dei Diritti delle persone appartenenti a minoranze (1992) le quali possono avere carattere religioso, linguistico, nazionale o etnico.

Negli anni ’70 la rivoluzione interpretativa colpisce le scienze sociali, si parla di identità e di   “agency”, cioè dell’essere umano come agente attivo nelle dinamiche culturali, capace di interagire, modificare e sfruttare a proprio vantaggio i paradigmi culturali condivisi.

L’idea di etnia si arricchisce attraverso l’analisi dei processi di interazione storica, sociale e simbolica tra gruppi umani e la consapevolezza che la percezione della propria identità si basa sull’altrui diversità. Diventa chiaro che l’etnia così come molti altri concetti normativi della vita socio-culturale non sono neutri e descrittivi ma hanno sempre valore strumentale e relazionale.

Da qui alle teorie decostruttive il passo è breve, nel 1985 Amselle e M’Boloko pubblicano “L’invenzione dell’etnia” e affermano che etnia è un termine i cui significati variano enormemente a seconda dei contesti storici e sociali e che il suo potenziale esplicativo si può comprendere solo considerandolo come una “categoria storica” immersa nella dialettica tra globale e locale. Come in Africa, dove le amministrazioni coloniali hanno intrappolato identità fluide e mutevoli in statiche “etichette etniche”. Per un breve panoramica sul pensiero di Amselle è possibile leggere questa intervista.

Divisi tra popoli ed etnie

Già Bernardi nel 1977 aveva evidenziato l’ambiguità del concetto di etnia, applicato di volta in volta alla parentela, alla politica, al territorio, alla cultura o alla demografia. Tuttavia se accettiamo l’accezione comune di questo termine ogni popolo che condivida un origine territoriale, una lingua e specifici tratti culturali può essere definito come gruppo etnico.

C’è quindi un’identità di fondo tra l’idea di popolo e quella di etnia. D’altronde è celebre l’affermazione attribuita a Max Weber “un gruppo etnico è semplicemente una nazione senza stato”. La logica ci offre questa conclusione ma l’intuito la disconosce immediatamente: se così fosse le minoranze spagnole (baschi, catalani e galiziani) sarebbero a tutti gli effetti dei gruppi etnici nel cuore della moderna Europa.

Tutta questa questione può sembrare una sottigliezza lessicale, un gioco di parole per sociologi e intellettuali, ma non è così. Etnia è un parola potente perché evoca alterità. Il plusvalore non è conoscitivo, è etico e politico e risiede nel significato inconscio che le attribuiamo: “etnia è tradizione, etnia è un rapporto sociale a-storico e pre-politico”.

Riconoscendo un valore differente all’identità nazionale e a quella etnica rinforziamo un pregiudizio che si consolida nella vera e propria stigmatizzazione di culture che riteniamo inferiori alle nostre. Questa connotazione dispregiativa viene sottolineata anche da Fabietti, uno dei massimi esponenti dell’antropologia italiana, nel suo libro “L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco” (1995).

Per esempio, per comprendere le guerre africane si ricorre continuamente all’idea di conflitto etnico. L’atroce guerra civile ruandese (1994) altro non è che l’odio tra due etnie rivali (Huto e Tutsi) portato alle sue più estreme conseguenze. In questo modo è possibile liquidare velocemente il problema.

Ma se invece di gruppi etnici parlassimo di gruppi sociali cosa succederebbe? Gli Huto e i Tutsi acquisirebbero improvvisamente spessore, complessità e storicità.

Le cause della guerra non sarebbero più individuate in un atavico odio etnico ma nella contrapposizione sociale tra gruppi in lotta per il potere e per l’utilizzo delle risorse. L’instabilità nigeriana smetterebbe di essere considerata come conseguenza del radicalismo religioso o di un mal riuscito federalismo etnico e si potrebbe affrontare il problema della corruzione, della spartizione delle rendite petrolifere e di come uno stato ricco e popoloso si ritrovi sull’orlo del collasso.

L’onestà intellettuale ci invita dunque ad accettare il fatto che “o chiamiamo etnie tutti i gruppi umani, oppure rinunciamo ad utilizzare un termine che non ci dice nulla che non sia già contenuto di volta in volta nel concetto di popolo, casta o classe sociale” (Sciortino, 2008). D’altra parte però le diverse identità etniche sono percepite come reali e concrete da tutti coloro che vi si riconoscono e non è certo possibile liquidare questo fenomeno in nome della sua scarsa precisione storico-antropologica.

Che vinca il più forte!

La maggior parte delle identità etniche africane affonda le sue radici in epoca coloniale: le potenze europee avevano l’esigenza politica ed economica di controllare il territorio e la popolazione. Era necessario organizzare i possedimenti imponendo procedure burocratiche, stabilità territoriale e il massiccio sfruttamento delle risorse e della popolazione.

Per rendere effettivo questo modello amministrativo si fece largo uso di intermediari locali, persone o gruppi selezionati arbitrariamente ed investiti di un potere nuovo, autorizzati a consumare gli avanzi del banchetto coloniale.

E’ in questo momento storico che il potere politico comincia ad identificarsi con l’etnia. Tornando all’esempio emblematico del Ruanda, in epoca pre-coloniale Tutsi e Huto condividano già lingua, territorio, religione e tradizioni culturali, la principale differenza consisteva nel loro ruolo economico: i Tutsi (detentori della ricchezza) erano proprietari di bestiame, gli Huto si dedicavano a coltivare la terra.

I due gruppi sociali avevano anche un buon margine di mobilità interna e i matrimoni misti erano numerosi, niente faceva presagire la futura polarizzazione etnica. Con l’avvento del potere coloniale belga fu introdotta nel 1926 una carta d’identità in cui era indicata l’appartenenza etnica, così i Tutsi vennero cooptatati come notabili e amministratori mentre la maggioranza Huto fu condannata ai lavori forzati.

Un frattura nei rapporti sociali senza possibilità di ripensamento, la cristallizzazione dell’identità e l’estremizzazione della disuguaglianza condussero alle drammatiche guerre “etniche” della regione dei Grandi Laghi.

L’etnicità o il tribalismo, latenti nei rapporti politici coloniali, esplodono con massimo vigore al momento dell’indipendenza. La decolonizzazione avviene in continuità con il passato: le élite  locali che collaboravano con le potenze straniere vengono incaricate della formazione dei nuovi apparati statali indipendenti. Questi leader rifiutano di riconoscere il pluralismo e le dinamiche della competizione politica democratica e le istanze minoritarie o localistiche vengono additate come “tribali”.

Sciortino, grande conoscitore della storia africana, afferma: “Quanto più regimi a partito unico o militari hanno impedito la formazione e l’espressione del dissenso, tanto più l’eticità è diventata forma e strumento di competizione, conflitto e dissenso politico” (2008). Una volta consolidato questo sistema, l’etnia diventa un elemento simbolico fondamentale nei giochi di potere in seno alle élite stesse, una sovrastruttura indispensabile per gestire la spartizione spesso violenta delle risorse, aizzare la popolazione allo scontro e oliare i meccanismi del clientelismo.

Etnie a casa nostra

Riflettendo su questi processi, dare peso alla dimensione storica del concetto di etnia al di fuori dell’ambito accademico non sembra più un vezzo da intellettuali. Da fenomenico pre-storico e tradizionale l’etnicità diventa una vitalissima e modernissima maschera dietro cui si nascondono interessi politico-economici di respiro internazionale.

C’è di più, se guardiamo con attenzione dietro la maschera possiamo addirittura scorgere l’ombra dell’attuale retorica nazional-popolare della nostra Italia. Potere politico svuotato di legittimità, sempre più lontano dalla popolazione e dalle istanze democratiche, gestione clientelare delle risorse… sono mali che ci colpiscono da vicino, senza bisogno di attraversare mari e deserti.

Aggiungiamo l’elemento identitario che da noi si manifesta quotidianamente in termini di “popolo” e “nazionalità” – basta pensare al famoso “prima gli italiani” di Salvini – ma che si concede sempre più spesso a una sensualità etnico-razziale, con il neo-presidente della regione Lombardia Fontana che dichiara: “dobbiamo fare delle scelte: decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società deve continuare a esistere o la nostra società deve essere cancellata” (corriere.it, 15 gennaio 2018).

Forse la torsione è completa, le nostre élite politiche più bieche prendono esempio dai colleghi d’oltremare. Giocare sul sentimento di appartenenza, sull’etnicità di un gruppo diventa un modo per accaparrarsi e mantenere il potere.

Tutti coloro che si sentono adulati e rincuorati da questa retorica non parteciperanno veramente alla spartizione della torta, si dovranno accontentare di una superiorità simbolica pagata al caro prezzo di una crescente conflittualità sociale.

Nel futuro prossimo, potremmo avere anche noi un dibattito pubblico incentrato sulle “etnie europee” o su un “tribalismo europeo” che contrapporrà protestanti, cristiani e ortodossi; lombardi e siciliani; londinesi, scozzesi e irlandesi. I potenti si godranno i loro privilegi e i poveri combatteranno tra di loro. E finalmente non ci sarà più una differenza gerarchica tra popoli ed etnie.

Cambiare l’aria

Dopo questo lungo percorso vorrei tornare tra i banchi della mia classe. Cosa farò se uno studente mi farà di nuovo questa difficile domanda? Nella mia testa molti concetti sono più chiari, più fruibili, più comprensibili ma non so ancora cosa gli risponderò. Una cosa è la teoria ben altra è la pratica.

Non potrò certo indossare i miei occhiali viola da maestrina e sciorinare una sfilza di autori che de-costruiscono un’idea nella quale tanti riconoscono la propria identità più intima, quella familiare della casa e degli affetti. Non potrò nemmeno dire che anche questa è una menzogna del colonialismo da cui ancora una volta sono stati raggirati o confessare le mie preoccupazioni per le sorti della politica italiana.

Forse potrei calzare i panni dell’educatrice materna e protettiva per convincerli che i gruppi etnici sono popoli e i popoli sono etnie, perché in fondo siamo tutti uguali… Ma questa sarebbe una semplificazione ingannevole, illusoria ed edulcorata di una realtà ingiusta che nessuno merita, tantomeno chi affronta tutti giorni con coraggio la complessità culturale di cui amiamo parlare in Occidente e vive dentro di sé le “emozioni ibride” della globalizzazione.

In fin dei conti l’unica cosa che posso fare è riflettere insieme a chi mi vive accanto, parlare di culture e di valori, cercare dei significati condivisi che ci avvicinino e ci accolgano.

All’università ho imparato che un buon antropologo deve coltivare l’empatia e minuziosamente cercare quei dettagli che gli schiudano la comprensione dell’altro come un orizzonte nuovo, come un raggio di sole sotto un cielo nero di tempesta.

Da insegnante e lavoratrice sociale ho imparato che l’ascolto viene prima, non devo per forza capire o essere d’accordo o immedesimarmi in chi ho davanti. Molte volte è sufficiente ascoltare, così ci veniamo incontro, costruiamo rispetto e inventiamo mondi nuovi dove la differenza è legittima.

Per alcuni l’etnia è l’equivalente di lingua, per altri è il proprio gruppo sociale o il proprio territorio, per altri ancora l’etnia non è importante perché si riconoscono nella loro nazione o in universalismo panafricano, per me l’etnia è un concetto politico ormai svuotato di un significato certo.

Nessuna di queste affermazioni è giusta o sbagliata, l’importante è farne un uso consapevole ed onesto, uno strumento per far valere la propria “agency”, cioè la propria capacità di usare le norme e le categorie culturali come strumento di affermazione umana e politica.

Ognuno a partire dal proprio punto di vista. Che sia la dignità della propria cultura, il riconoscimento della sofferenza dei popoli africani, il desiderio che il proprio paese si liberi dalle ingombranti inferenze estere ed internazionali, la consapevolezza che anche i nostri più interiorizzati modi di pensare sono frutto di rapporti storici di potere da cui rischiamo di rimanere schiacciati. Come si declina questo desiderio di giustizia economica, politica, storica ed intellettuale poco importa. L’importante è mettersi in gioco, aprire le finestre cambiare l’aria e fare spazio a idee e persone nuove.

 

 

Bibliografia

Amselle e M’Boloko “L’invenzione dell’etnia”, 1985, Meltemi

Bernardi “Sistemi sociali e politici dell’Africa Tradizionale”, 1977, Istituto Italo-Africano

Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza “Storia e geografia dei geni umani”, 1994, Adelphi

Fabietti “L’identità etnica”, 1995, Carocci

Sciortino “L’Africa in Guerra”, 2008, Baldini Castoldi Dalai

 

Sitografia

http://milano.corriere.it/notizie/politica/18_gennaio_15/attilio-fontana-immigrati-razza-bianca-difendere-candidato-centrodestra-regione-lombardia-bcf74404-f9e8-11e7-b7a0-515b75eef21a.shtml

http://host.uniroma3.it/riviste/romatrenews/page.php?page=Jean-Loup

https://www.ilpost.it/2017/07/16/perche-le-razze-non-esistono-scientificamente/#steps_7