La scrittura autobiografica è un luogo di incontro

Appuntamento con Teatro Utile, ai Filodrammatici di Milano, l’11 giugno

di Gabriella Grasso

Leggeranno le loro storie un po’ in italiano, un po’ nelle altre lingue in cui le hanno scritte, cioè francese e inglese. Italiani e stranieri. Insieme. Uno accanto all’altro.

Sarà il momento in cui restituiremo al pubblico il lavoro che ci ha impegnati per quasi due mesi, il risultato del laboratorio “La scrittura autobiografica come luogo di incontro” che ho condotto all’interno del progetto Teatro Utile dell’Accademia dei Filodrammatici, giunto quest’anno alla sesta edizione. Sarà emozionante, credo. Per me di sicuro. Ma andiamo per ordine.

Per cominciare c’è stato un bando pubblico, aperto dall’Accademia dei Filodrammatici a drammaturghi, attori, registi, operatori sociali e giornalisti. Otto le persone selezionate: sette italiani e una giovane donna che, pur vivendo in Italia da una vita, è nata sull’isola di Mauritius. Insieme, per tre giorni, abbiamo sperimentato in maniera intensiva la scrittura autobiografica: per capire cosa vuol dire riconnettersi con la propria memoria, trovare le parole per dirla, scoprire il piacere della condivisione. Una prima occasione di incontro tra storie diverse (ognuna con la sua unicità), ma tutte importanti allo stesso modo. Un viaggio di gruppo, potremmo definirlo.

Al quale, nelle settimane successive, si sono uniti altri compagni, provenienti dal Mali, dalla Guinea, dalla Costa
d’Avorio, dalla Sierra Leone e dal Togo. Undici di loro sono richiedenti asilo ospitati dal Centro di Accoglienza Straordinaria della Croce Rossa di via Corelli e via Aquila, a Milano. Uno è un mediatore culturale che in Italia vive da anni e lavora proprio per la Croce Rossa.

Intorno al tavolo, però, con il quaderno davanti e la penna in mano, siamo tutti uguali. Esseri umani. Portatori di storie. Le nostre, ma non solo: perché il racconto autobiografico è sempre corale.

La seconda parte di questo viaggio collettivo è iniziata un lunedì pomeriggio, con me che spiego cosa andremo a fare.

Sono circondata da sguardi che mescolano curiosità e diffidenza. Dico che racconteremo le nostre storie. Le espressioni restano fisse. Il mediatore interviene: mi ricorda che, se uso il termine “storie”, il pensiero dei nostri nuovi compagni di viaggio va subito a La Storia, quella che dovranno raccontare alla Commissione che esaminerà la loro richiesta di asilo. Un appuntamento che deciderà del loro futuro. Una parola, dunque, che non può metterli a loro agio.

Provo a usarne altre, poi rinuncio. Agli sguardi perplessi agli inizi di un laboratorio, in fondo, sono abituata: chi non ha mai sperimentato la scrittura autobiografica, qualunque sia la sua cultura di provenienza, non riesce mai a immaginare cosa sarà chiamato a fare. Sa che dovrà mettersi in gioco: ma quanto e come? Abbandono le spiegazioni e li invito, subito, a mettersi in cammino.

Provare è l’unico modo per superare la diffidenza. Propongo una scrittura sul nome: che cosa significa, perché lo portano, quali racconti possono scaturire da quella parola che ognuno pronuncia quando tende la mano e si presenta al mondo? Ed è lì che accade quello che, ogni volta, mi sembra un miracolo.

Gli sguardi si ammorbidiscono, vedo le mani impugnare le penne, le teste chinarsi sui quaderni, l’inchiostro segnare i fogli. Per venti minuti. E anche chi si ferma prima dello scadere del tempo, quando si guarda intorno e vede gli altri così intenti a scrivere, dopo qualche secondo di riflessione ricomincia. Alla fine chiedo se qualcuno ha voglia di condividere ciò che ha prodotto. E le mani si alzano. Una dietro l’altra. Senza ritrosie.

È andata così, per cinque settimane. Abbiamo scritto e condiviso narrazioni in tre lingue diverse, affinché le storie di ciascuno potessero “attraversare” gli altri senza incontrare barriere linguistiche.

Abbiamo viaggiato per l’Italia e per l’Africa. Abbiamo scoperto nomi, luoghi, cibi. Abbiamo rivissuto esperienze del passato remoto e di quello prossimo. Abbiamo superato confini. E alla fine, quando i nostri appuntamenti di scrittura sono terminati e ho raccolto i commenti di tutti, questo ho scoperto: che quel titolo che avevo dato al laboratorio, La scrittura autobiografica come luogo di incontro, si era fatto realtà concreta.

Avevamo creato uno spazio protetto in cui ognuno di noi si era sentito una persona. Non un richiedente asilo, un africano, un europeo, un drammaturgo, un operatore sociale o un immigrato di lungo corso. Solo persone. Capaci di ascoltarsi ed entrare in relazione.

Con l’autorizzazione dei partecipanti al laboratorio, le storie dei nostri compagni di viaggio stranieri – il tema su cui Teatro Utile lavora da anni è proprio la migrazione – sono state cucite insieme e sono diventate drammaturgia. Coordinati da Tiziana Bergamaschi (ideatrice e responsabile del progetto Teatro Utile), quasi tutti gli autobiografi si sono messi a disposizione come “attori”. Per leggere i testi al pubblico, allargando così il cerchio e rendendo il “luogo di incontro” ancora più grande.

Succederà la sera dell’11 giugno nella palestra dell’Accademia dei Filodrammatici (info QUI). Di sicuro ci saranno incertezze, timidezze, emozioni, e pure qualche errore di pronuncia: ma per quel che ci riguarda, sarà comunque un piccolo successo.