Il navigante cosmopolita

L’incredibile storia di Ove Joensen che partì dalle Fær Øer per arrivare a Copenaghen e “baciare la statua della Sirenetta”

di Nicolò Cesa

Ho sempre pensato che – per quanto possa essere curioso e disposto a perdersi per le strade del mondo – un viaggiatore non potrà mai raggiungere il livello di conoscenza del genere umano che hanno i contadini ed i naviganti. Uomini che si portano la geografia del mondo sul volto, nelle crepe e nei solchi sulla pelle disegnate dal più grande e ostinato artista di sempre: il tempo. Assidui studiosi della disciplina della terra, conoscono gli invisibili meccanismi della vita meglio di qualsiasi filosofo e di qualsiasi viaggiatore. Per questo mi hanno sempre affascinato.
Nel 2011 mi trovavo a Tórshavn, Isole Fær Øer. Un arcipelago di 18 isole nel mezzo dell’oceano Atlantico, tra la Scozia, l’Islanda e la Norvegia. Terra di pescatori e marinai. Terra di vento e torba. Grigio e verde. Nemmeno il rosso di un frutto, cresciuto all’improvviso, che possa salvare quegli uomini dalla realtà. Ma l’albero dell’umana bellezza, si sa, riesce a crescere anche (forse soprattutto) negli ambienti più ostili, dove la speranza lascia il posto all’azione, alla fatica e alla costruzione della felicità.

Ove Joensen è stato uno dei frutti di questa terra. Veniva da Nòlsoy, un villaggio di circa 200 anime barcollanti, in balia delle stagioni e della – eventuale – benevolenza del mare. Nemmeno una macchina, solo un piccolo supermarket e una schiera di case colorate, ognuna con vista sull’oceano, quasi a ricordare agli abitanti che da certe condanne non si sfugge. Eppure il mare, come tutte le umane condanne, può essere persino un’opportunità. Ove lo sapeva fin da piccolo, fin da quando, a soli 12 anni, iniziò a costruirsi una piccola imbarcazione con cui era solito costeggiare le rive dell’isola. Iniziava così a prendere le distanze, a toccare con mano le recinzioni che legavano la sua esistenza a quel grande scoglio in mezzo al nulla che chiamano isola. Fino a quando un giorno, all’età di 27 anni, Ove decide di abbandonare il villaggio e di andare alla scoperta del mondo. Si imbarca come marinaio su diverse imbarcazioni. Erano gli anni ’80, e sembrava che tutti gli uomini del mondo si fossero messi d’accordo sullo stile: ciuffo leggero sbarazzino e baffo imponente. Lo si vede in una foto scattata alle Fiji, mentre suona la fisarmonica – bicchiere di whisky sotto la sedia – circondato da donne e uomini danzanti. Cosmopolitismo e provincia, edonismo e goffaggine.
Nel frattempo semina figli in giro per il mondo come sogni (due a Copenaghen e uno alle Fiji), fino a che un giorno fa l’incontro che gli cambia la vita. Incontra Colin Quincey, il primo uomo al mondo a compiere una traversata a remi dalla Nuova Zelanda all’Australia. Un viaggio di 2700 km in 63 giorni e 7 ore. Ove, mentre ascolta il racconto di Colin, ha dei flashback: la barca costruita da bambino, i momenti in solitaria accanto alle coste di Nòlsoy, le notti da adolescente in barca con il padre pescatore. Decide anche lui di compiere un’impresa. Torna a Tórshavn e inizia a costruire una barca. Il suo obiettivo è quello di partire dalle Fær Øer e arrivare a Copenaghen, per “baciare la statua della Sirenetta”. Il piano è quello di percorrere, remando, 30 miglia al giorno.

Siamo nel 1984. La barca, a cui Ove da il nome di Diana Victoria, è pronta. C’è tutto il necessario per stare via un mese: succo di arancia, acqua e carne secca. Per combattere la solitudine, Ove porta con se Jessica, un gatto bianco.

Partono il 14 luglio. Dopo una settimana, però, Ove è costretto a chiedere aiuto. La Diana Victoria è stata danneggiata e all’altezza della costa delle Isole Shetland, a nord della Scozia, Ove viene soccorso e portato in salvo. È distrutto. Il suo sogno è rimasto ancorato ai fondali dell’Atlantico. Una foto sul The Shetland Times lo ritrae sorridente, con in braccio Jessica, salva.
Mentre è alle Shetland Ove non perde le abitudini che aveva acquisito in giro per il mondo. Sorseggia Whisky scozzese in compagnia dei marinai e pensa al suo ritorno in patria.
Alle Fær Øer i giornali iniziano a parlare di questa impresa fallita. Quando torna, Ove, incontra visi diffidenti. Qualcuno inizia persino a sospettare che, in realtà, sia una specie di ciarlatano. Una sorta di copia non originale di se stesso, come la paccottiglia che si trova in certe fiere di paese.

Come nel racconto di Edgar Allan Poe, A Descent into the Maelström, dei 3 fratelli pescatori che durante una uscita di pesca si trovano risucchiati da un vortice nel bel mezzo dell’oceano. Due muoiono mentre il terzo, aggrappatosi ad un barile vuoto, riesce a salvarsi. Quest’ultimo, però, una volta a riva, si accorge di essere profondamente cambiato. I capelli ora sono grigi, il volto irriconoscibile. Nessuno dei suoi amici crede alla sua storia; nessuno lo riconosce. È un uomo differente. Il vortice del caos, l’esperienza di quel viaggio, lo ha cambiato per sempre.
Allo stesso modo Ove sa che da quel momento in poi, tutto sarebbe stato diverso. Gli eroi, quelli dei film americani, non sbagliano mai. Il primo tentativo deve essere quello giusto e vale il prezzo del biglietto. Ed invece lui ha fallito. Ha tentato un’impresa e, ad un certo punto, si è ritrovato a dover lanciare l’SOS, ammissione di un umiliazione che appartiene più agli umani che agli eroi di Hollywood.

Il 25 luglio del 1985 però Ove decide di ripartire, di riprovarci. Jessica nel frattempo è morta e per il secondo tentativo porta con se un altro gatto, Miss Hvannasund, che prende il nome del porto in cui è stata trovata e salvata.

Anche questa volta, però, qualcosa va storto; a tradirlo è il vento. Dopo due settimane è costretto a chiedere aiuto. Sempre alle Shetland. Del nuovo fallimento ora non ne parlano più solo i giornali delle Fær Øer, ma anche quelli delle Shetland. Per la seconda volta quell’uomo buffo, quell’idealista ostinato e incosciente, era stato salvato in mare, mentre cercava di compiere la stessa impresa impossibile.
Il 1986 è l’anno del terzo tentativo. Questa volta senza gatto ma in compagnia di un piccione; e l’11 di agosto, dopo 41 giorni di traversata, Ove riesce finalmente a raggiungere Copenaghen e a baciare la statua della Sirenetta.
Ad accoglierlo ci sono giornalisti, troupe televisive e un gruppo di faroesi che vivono a Copenaghen. Sembrano lontani i tempi degli SOS, delle vignette satiriche sui giornali e del chiacchiericcio velenoso dei compaesani. Ove ora è un eroe riconosciuto in patria. Eppure, è sempre lo stesso. Sotto la pelle cotta dal sale conserva la curiosità del bambino che costruiva la barca e che sognava di esplorare il mondo. Ora però ha un altro sogno, quello di utilizzare la sua fama per raccogliere fondi e costruire una piscina a Nòlsoy, il suo villaggio di cui non si è mai dimenticato. La notte stessa dell’arrivo festeggia e a un giornalista che gli chiede se fosse sposato, Ove risponde che “per adesso no.

Ma la notte è ancora lunga”. Dopo un’impresa di 1500 km remando, Ove sente che tutto ora è possibile; che tutto è più semplice. Ma dopo un anno dopo quell’impresa, a 38 anni, Ove annega nelle acque gelide del mare di novembre, mentre torna da una breve traversata di 5 chilometri, nelle sue Fær Øer.
Oggi è possibile vedere la Diana Victoria al museo di Nòlsoy.

Della sua storia mi avevano parlato i miei amici faroesi, qualche anno fa. Ci ho ripensato l’altro giorno, mentre ascoltavo un pezzo di Umberto Bindi, Per un piccolo eroe: “Voglio farti un monumento, per quei sogni andati a male; e per le battaglie perse voglio farti generale”. Così ho pensato al significato del concetto di eroismo. Ove è il Sisifo di Camus, l’uomo condannato dagli dei a spingere il masso su per la salita e a cominciare nuovamente, tutte le volte da capo. E c’è certamente dell’eroismo in questo eterno ricominciare, che accomuna tutti gli uomini del mondo. Ove è l’uomo che rifiuta la speranza ma senza per questo disperare. Colui che sa che altrimenti non si può fare e che in silenzio costruisce i mezzi, prepara le braccia alla fatica, per raggiungere i propri traguardi. L’uomo in rivolta spinto da quello sconfinato amor mundi – che solo certi naviganti e viaggiatori riescono a coltivare – a scagliarsi contro la natura tiranna; la cui storia di umana bellezza, colma di provincia e kósmos allo stesso tempo, ci aiuta a capire perché, in fondo, eroe ed eros hanno la stessa radice etimologica.

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