Dietro la strage di Ankara

Le bombe non sono il gesto di uno squilibrato, non sono un incidente di percorso

di Valeria Mazzucchi, da Istanbul

Sono almeno 105 le vittime dell’attentato di ieri, sabato 10 ottobre 2015, durante la marcia per la pace ad Anakara organizzata da sindacati, gruppi pacifisti di sinistra e dal partito HDP. Le bombe sono scoppiate prima ancora che la marcia cominciasse e hanno tolto la vita a quasi cento persone che, nonostante la tensione in Turchia di quest’ultimo periodo, si erano ritrovate nella piazza di Ankara a sostegno della pace.
I nomi dei morti e dei feriti sono stati esposti fuori dagli ospedali della capitale per facilitare la ricerca delle notizie ai parenti e agli amici degli stessi.

I giornali di tutto il mondo hanno parlato del terribile attacco terroristico ad Ankara, e leader stranieri hanno espresso la loro indignazione per questo atto di odio. E certamente quello che é successo ieri é qualcosa di odioso e terribile, non solo per l’atto in sé, ma per il contesto in cui é stato realizzato.
Le bombe di Anakara non sono il gesto di uno squilibrato, non sono un incidente di percorso.

Ben prima di ieri, e ancor prima che il partito AKP del presidente Erdogan non ottenesse la maggioranza per governare, altre bombe erano esplose e altre persone erano state uccise in un altro corteo e in un’altra piazza, quella di Diyarbakir, la capitale identitaria e culturale curda di Turchia.
Il corteo pacifista segnava la fine della campagna elettorale dell’HDP, il partito democratico dei popoli copresieduto dal curdo Selhattin Demirtaş ed evidentemente già allora scomodo a qualcuno che temeva l’affermarsi di questa nuova formazione aperta a tutti: turchi, curdi, arabi, aleviti, omossessuali ed ecologisti.

Queste paure erano infatti ben fondate perché a causa dell’ingresso in parlamento dell’HDP, una nuova forza nel panorama politico turco, il partito di Erdoğan non ha ottenuto la maggioranza assoluta per governare.
Da questo momento il paese è sceso nel caos prendendo delle dimensioni di violenza e repressione che ricordano il passato più buio della storia turca.

Questa violenza ha visto le sue declinazioni più dure e drammatiche nel sud est della Turchia, dove in seguito all’attentato di Suruç, che causò la morte di 32 giovani, a luglio scorso, è ripreso il conflitto tra stato turco e PKK, il Partito Curdo dei Lavoratori.

In molti villaggi è stato imposto il coprifuoco, con divieto agli abitanti di uscire di casa, e accesso limitato a acqua e elettricità. Ai cecchini appostati sui tetti é stato dato l’ordine di fare fuoco su chiunque esce di casa fuori dagli orari stabiliti. Gli ordini sono stati seguiti con grande scrupolo, tanto che tra le ultime vittime c’é un’anziana donna di 85 anni.

Da mesi il governo turco porta avanti questa “operazione contro il terrorismo”, secondo una propaganda non nuova in cui si amalgama tutto: terrorismo, curdi, opposizione, e sotto il cui nome si reprime e si uccide indistintamente.
Su Youtube e sui social media (qualora non siano oscurati come in questo momento) si trovano video e immagini talmente aberranti da ricordare più la Siria che la Turchia, come siamo abituati a viverla.

Tra gli ultimi il video del cadavere di Hacı Lokman Birlik, un giovane curdo attaccato con una corda a una cammionetta della polizia e trascinato per le strade di Şırnak. O ancora, una sequenza dove un poliziotto punta la pistola alla tempia di un giornalista urlandogli che se filma lo ammazza. La foto di muri crivellati, carri armati e famiglie costrette a vivere nelle cantine di Nusaybin. Il viso di Ahmet Hakan, noto giornalista turco assalito e picchiato all’uscita del lavoro per le sue trasmissioni critiche verso Erdoğan.

Davanti a questi nuovi 97 morti, ultimo gesto di disprezzo verso quella popolazione che vuole e cerca la pace, è necessario guardare verso chi ha le responsabilità dirette e indirette.

In primo luogo verso i perpetratori e i responsabili di questo attentato, che non devono restare semplicemente congetture, indizi non seguiti, indagini protratte per mesi e mesi, e poi abbandondonate in qualche interminabile procedura.

In secondo luogo esiste una responsabilità indiretta di alcuni cittadini turchi. Perché nonostante una parte di loro, e si tratta soprattutto delle nuove generazioni, creda nell’ugualianza e nella fratellanza di tutti coloro che vivono sul territorio dello stato turco, un’altra parte continua a considerare con un diverso peso la morte di un turco e la morte di un curdo.

Benché l’opinione pubblica condivida l’orrore e la condanna verso degli attentati, rimane una buona fetta della popolazione che guarda con un certo distacco ai fatti di oggi in quanto riguardano ‘gli altri’, i curdi e i pro-curdi, e non ‘loro’, i turchi.

Infine, durante quest’ultima settimana, mentre i fatti sopra riportati accadevano in Turchia, il presidente Erdoğan incontrava i vertici europei a Bruxelles per elaborare e negoziare una strategia comune per i rifugiati. Secondo questi piani, l’Unione Europea dovrebbe fornire un supporto economico al governo turco per implementare nuovi campi profughi.

Il presidente turco ha a sua volta avanzato richieste, prima fra le quali, che la Turchia venga riconosciuta come paese terzo sicuro, cioè, secondo i criteri dell’Ue, uno stato che rispetta i diritti dell’uomo e condivide i valori dell’Unione.
Ora, se gli stati europei accettassero questa condizione legittimerebbero la politica portata avanti in quest’ultimi mesi dal governo turco.

In questo panorama complesso, in cui oltre alle tensioni interne, si aggiunge il ruolo chiave che la Turchia gioca oggi come zona di cerniera tra l’Europa e il Medio Oriente, restano le 97 vittime di Anakara, morte perché chiedevano la pace.