I Balcani occidentali alla prova dei profughi

Da una parte, la grande solidarietà delle società
macedone, serba e croata.
Dall’altra, un basso livello di strumentalizzazione politica.
Dall’Est una lezione per il resto dell’Europa?

di Francesca Rolandi

Per la prima volta quest’anno le società dei Balcani occidentali si sono confrontate con un massiccio ingresso di rifugiati provenienti soprattutto da Siria, Iraq e Afghanistan che dall’inizio dell’anno, ma in particolare negli ultimi mesi, ha portato più di 170.000 persone ad attraversare la penisola balcanica.

In realtà già da tempo la traiettoria Grecia-Macedonia-Serbia-Ungheria rappresentava il corridoio d’ingresso privilegiato in Europa via terra dalla Turchia, ma le società attraversate da questo fenomeno ne avevano una percezione minima.

I profughi transitavano a migliaia, ma in gran parte sotto la gestione di reti criminali, che li guidavano da una parte all’altra della penisola. E, non di rado, rappresentavano anche una possibilità di guadagno per le stremate località di frontiera o per quelle – in genere disagiate – dove si trovavano i centri di accoglienza: i negozi iniziavano a vendere più acqua, i locali ad affittare case e i taxisti a cominciare un lucroso business. Sia la politica che la società civile, però, tendenzialmente ignoravano questo fenomeno, aiutati dal fatto che il transito era piuttosto rapido e che il numero di persone che cercavano realmente accoglienza in quei paesi irrisorio.

Poi è arrivata la crisi. Con lo spostamento dei flussi dal Mediterraneo alla rotta terrestre, che ha provocato, come in un puzzle, la chiusura alternata delle frontiere e si sono verificati i primi blocchi.

Partendo dalla Macedonia, che ha chiuso la frontiera nella seconda metà di agosto usando i lacrimogeni contro i profughi che premevano per entrare, fino all’Ungheria che ha portato a termine la recinzione di filo spinato al confine con la Serbia, spostando il flusso più a Ovest, in direzione della Croazia, da dove i richiedenti asilo hanno comunque continuato ad entrare in Ungheria, almeno fino alla dichiarata chiusura della frontiera da parte di Budapest tra il 16 e il 17 ottobre.
 

Profughi e migranti in Macedonia. Foto: IFRC via Flickr in CC

 
I paesi della ex Jugoslavia si sono trovati così in mezzo a una fisarmonica che alternativamente premeva e chiudeva. La loro reazione era vista da tutti come un’incognita, dal momento che negli ultimi decenni queste società sono rimaste estranee ai grandi flussi migratori in entrata e piuttosto avevano prodotto flussi migratori in uscita, a iniziare dagli anni della guerra per arrivare fino alle migliaia di richieste di asilo che negli ultimi anni sono state presentate dai cittadini di Serbia, Macedonia, Albania e Kosovo nei paesi del Nord Europa.

I paesi dei Balcani occidentali, inoltre, sono tra i più bianchi dell’Europa, dove il rapporto con l’Altro, extra-europeo, era praticamente assente almeno dall’inizio della guerra.

Ai tempi della Jugoslavia socialista, leader dei Paesi Non allineati, alcuni contatti erano esistiti, ruotando principalmente intorno all’ingresso in Jugoslavia di studenti provenienti da paesi asiatici e africani e all’invio di tecnici e personale specializzato jugoslavo per progetti edili, in paesi partner. Nulla che possa però essere paragonato a un flusso di dimensioni quali quelle odierne. Se a questo si uniscono la presenza di movimenti di estrema destra in tutti questi paesi, l’abitudine alla retorica nazionalista , l’islamofobia che alcuni movimenti sventolato come un continuum della reazione alla dominazione ottomana, gli elementi per un’esplosione xenofoba c’erano tutti. Per una Pegida balcanica, che avrebbe potuto portare in piazza migliaia di persone. O per reazioni di rifiuto palese, come quella della Chiesa bulgara, che ha chiesto al governo di impedire l’ulteriore ingresso di profughi musulmani. E invece questo non è successo.

A partire dalla frontiera di Gevgelija, tra Macedonia e Grecia, la società civile si è mobilitata, dando buona prova di sé.

La popolazione della povera Macedonia, divisa da tensioni politiche e nazionali, si è impegnata nella raccolta di aiuti, che, a fronte della pessima gestione governativa, ha rappresentato l’unica forma di supporto interno per i profughi. Qui, storie come quella di Lence Zdravkin, l’angelo custode della stazione di Veles, che da ormai due anni aiuta instancabilmente i profughi, hanno bilanciato l’immagine tetra che di sé avevano offerto le istituzioni governative – la polizia macedone è in genere ricordata dai profughi come la più brutale.
 

Profughi e migranti in Serbia. Foto: IFRC via Flickr in CC

 
Risalendo verso nord, anche la Serbia si è distinta per le mobilitazioni della società civile che hanno avuto il loro fulcro intorno alla stazione di Belgrado, dove un network di Ong ha azzardato anche azioni dal significato simbolico, come l’organizzazione di una colazione con i rifugiati. Sia nella capitali che in città minori investite dal flusso, team di medici hanno provveduto alle necessità della popolazione in movimento, mentre volontari hanno distribuito cibo senza sosta e si sono occupati anche di attività importanti ma non emergenziali, come la creazione di spazi gioco per i bambini. Il premier serbo Aleksandar Vučić ha a più riprese ripetuto che la Serbia non avrebbe costruito un muro al confine con la Macedonia, affermato la necessità di approcciare in modo umano la questione e, con furbizia, sottolineato che in Serbia i cosiddetti “valori europei” hanno trovato casa più che in altri paesi che dell’Unione Europea sono parte.

Anche la Croazia si è mobilitata in fretta, sia attraverso le grandi sigle che con la raccolta di donazioni dal basso, che hanno trovato un’ampia risposta da parte della popolazione, tanto che dopo pochi giorni le scorte di materiale raccolto hanno superato le necessità.

A queste si sono aggiunte anche le donazioni dalla vicina Bosnia, dove la società civile ha rimarcato a più riprese l’esperienza comune della guerra. La polizia croata ha agito in modo particolarmente amichevole con i rifugiati , sono state diffuse immagini di membri delle forze dell’ordine che tenevano in braccio i bambini e il Ministro dell’Interno Ostojić ha accolto personalmente i profughi alla frontiera. Le tensioni tra Croazia e Serbia, iniziate con l’accusa di Zagabria a Belgrado di aver deliberatamente indirizzato tutto il flusso verso la Croazia e poi montate in un’escalation che ha portato alla chiusura della frontiera, hanno risvegliato ricordi sinistri, ma, in realtà, sono più legate ai rapporti bilaterali tra i due paesi che agli odierni movimenti di persone.
 

Profughi e migranti al confine tra Serbia e Croazia. Foto: Fotomovimiento via Flickr in CC

 
Sicuramente per i governi di Serbia e Croazia la crisi dei profughi ha rappresentato un’occasione per lavare la propria immagine agli occhi dell’Europa, in particolare attraverso il paragone costante con l’atteggiamento di chiusura del governo ungherese, un’operazione nella quale si è distinto particolarmente il premier serbo Vučić, che sconta un passato nell’ultranazionalista partito serbo.

Ma la reazione alla crisi è stata anche una prova di civiltà, sia per la mobilitazione civile, sia per il numero estremamente contenuto di manifestazioni xenofobe che si sono verificate.

Da un lato, inoltre, non si può ignorare che in paesi dove fette di popolazione più larghe che in Europa occidentale vivono sotto il livello di povertà la solidarietà abbia un valore maggiore. Dall’altro, va sottolineato come, in comunità dove una parte della cittadinanza ha vissuto – personalmente o da vicino – delle esperienze di profuganza, il processo di auto-riconoscimento in una popolazione in fuga si sia attivato spontaneamente.

Come ha commentato Jacques Rupnik, professore presso il centro parigino di ricerca CERI, ed ex consigliere di Vaclav Havel, si è verificato un «ironico ribaltamento». Mentre, dopo il 1989, i paesi dell’Europa orientale avevano fornito un modello di transizione pacifica alla democrazia, la Jugoslavia precipitava in una guerra fratricida.

Oggi, invece, i paesi della ex Jugoslavia stanno offrendo l’esempio di un comportamento umano verso i profughi, mentre nell’Europa centrale si annidano i falchi. Falchi che ovviamente esistono anche come conseguenza delle ambiguità dell’Ue.

Al di là di differenti attitudini, quello su cui forse bisognerebbe riflettere è che nei paesi dell’area dell’ex Jugoslavia non esistono partiti che hanno costruito sull’odio verso chi arriva da lontano la propria fortuna politica, che la questione dei profughi non ha ancora ricevuto un netto colore politico e che è stata usata solo marginalmente come elemento di scontro tra governi e opposizioni.

Tutto ciò ha fatto sì che, per ora, le derive xenofobe siano state evitate e che i profughi venissero in genere percepiti come individui in fuga e in transito che non rappresentano un problema per le popolazioni locali, e non come il rischio di una ipotetica penetrazione islamica o, peggio, come una minaccia alla sicurezza. Che una lezione per una volta ci possa venire dall’Est?