TTIP, fallimento di una guerra commerciale

Il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel ha dichiarato che “Il TTIP di fatto è fallito” a causa dei tanti punti di disaccordo tra Unione Europea e Stati Uniti.

Di Clara Capelli

Il TTIP di fatto è fallito”, queste sarebbero state le parole del vicecancelliere tedesco e leader della SPD Sigmar Gabriel durante un’intervista per il canale ZDF. Parole pesanti che hanno subito fatto il giro del web, prontamente riprese da diverse testate.

Molti sono stati colti di sorpresa, ma Gabriel non ha fatto altro che dare voce ai sospetti che da mesi si addensano sull’esito dei negoziati per il trattato di liberalizzazione economica tra Unione Europea e Stati Uniti, iniziati nel 2013 e giunti nel luglio 2016 al 14esimo round senza concludere granché.

Sia l’Unione Europea sia gli Stati Uniti si trovano in una fase politica delicatissima.

La Brexit ha avuto conseguenze non trascurabili sui negoziati, l’uscita di scena di un attore politico-economico chiave e le trattative degli accordi economici tra Regno Unito e UE (un processo lungo e dall’esito incerto, come ha per altro precisato lo stesso Primo Ministro Theresa May) hanno creato un clima di profonda incertezza, cui si aggiungono le domande sugli esiti elettorali di Francia e Germania nel 2017.

Dall’altra parte, gli USA sono in piena campagna elettorale per le presidenziali e sia Donald Trump sia Bernie Sanders hanno aspramente criticato i trattati di liberalizzazione economica (in particolare il TPP, tra USA e altri 11 Paesi del Pacifico), mettendo in difficoltà Hillary Clinton che ne è invece una fervente sostenitrice. Il riferimento è soprattutto alle delocalizzazioni avvenute a partire dal 1995 nel quadro del NAFTA (introdotto durante il primo mandato di Bill Clinton), le quali secondo molti economisti avrebbero determinato importanti perdite in termini di posti di lavoro, solo parzialmente compensati da mal pagati impieghi nel settore dei servizi a basso valore aggiunto, i cosiddetti McJobs.

Oltre alla difficile congiuntura politica, i punti di disaccordo – come ha sottolineato Gabriel nel corso dell’intervista, sono diversi – cosa che emerge piuttosto chiaramente anche dall’analisi dei documenti resi noti da Greenpeace il 2 maggio scorso (ne abbiamo parlato qui).

I buchi da riempire e i temi “ancora da discutere” sono davvero molti, soprattutto se si pensa che i negoziati sono in corso da 3 anni.

Gabriel ha motivato la sua affermazione spiegando che “come europei non possiamo accettare passivamente le richieste americane”, ribadendo quanto la posizione del premier francese Manuel Valls, che a fine giugno dichiarò “Nessun accordo di libero scambio dovrebbe essere concluso se non rispetta gli interessi dell’Unione“.

I due leader politici hanno sollevato un punto chiave che emergeva già dalle oltre 200 pagine pubblicate da Greenpeace: l’inconciliabilità tra posizioni europee e statunitensi: se le prime pongono l’accento su dettagli da precisare con minuzia per tenere in piedi una complicata architettura di interessi nazionali, le seconde insistono su una visione più aggressiva del commercio e del business e su uno snellimento delle procedure.

I bracci di ferro più tesi si possono osservare nei testi negoziali in merito all’agricoltura – nessuna delle due parti vuole rinunciare alle proprie fette di mercato facilitando la vita alla concorrenza – e alla finanza, che gli USA vogliono sottrarre alla disciplina del TTIP.

È un peccato che a commentare e analizzare tutto ciò non ci siano Fernand Braudel e Carlo Cipolla.

Chissà che magnifica narrazione ci avrebbero potuto offrire, con gli imprenditori e gli AD delle big companies al posto dei mercanti e i lobbysti al posto dei sensali. Come un quadro di Van Eyck, ma con il completo dal taglio di sartoria, le cifre sulla camicia e uno smartphone per tasca.

Con buona pace dei sostenitori del TTIP, il fallimento osservato da Gabriel è il segno incontestabile che se anche il libero mercato esistesse in natura come molti di loro credono, non sarebbe ciò che questi nuovi mercanti vogliono. “Cultura ci vuole” diceva Edmodo Berselli a proposito delle leggi economiche.

Quello che emerge da un’analisi approfondita e costante dei negoziati, è invece una sorta di nuova legge della giungla, dove chi è già più forte vuole mantenere i suoi privilegi e magari racimolarne altri e chi si sente minacciato invoca regole che possano proteggerlo. Più simile a una puntata di House of Cards e a un do ut des di favori fra lobby che non al sistema teorizzato da Adam Smith, uno degli autori meno compresi e più impropriamente citati di tutta la storia dell’economia.

Sarebbe questo il modello economico che dovrebbe risollevare le economie europee e statunitensi dalla crisi?

Questa è la prima domanda che ci si dovrebbe porre, anziché continuare a liquidare con sufficienza – anche quando gli argomenti non sono abbastanza solidi né raffinati – il lavoro che la società civile ha fatto in questi anni in opposizione ai contenuti e alle modalità negoziali del TTIP e di altri meno noti trattati di liberalizzazione economica come il CETA (tra UE e CANADA) e il TiSA. Quello cui stiamo assistendo è una guerra economica, non una riforma dall’esito univocamente positivo. E le guerre, si sa, sono sempre un fallimento.

 

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