Song-do, Yachay: il paradosso della metropoli perfetta

In Corea del Sud, una prova di città stato

di Francesco Martone

Il Central Park è stretto tra una schiera di grattacieli in acciaio e vetro, dalle forme contorte, un’alta torre che svetta sul centro congressi Conventsia, una serie di gusci concavi in cemento che racchiuderanno l’avveniristico centro congressi. Dall’altra parte la città che cresce a vista d’occhio.

Il parco, costruito al centro della planimetria di Song-Do, ospita una colonia di caprioli portata lì da chissà dove. Piste in tartan l’attraversano, una vegetazione brulla, alberi che stentano a crescere in condizioni metereologiche estreme. Una rete di canali si dipana dal laghetto artificiale, ad imitazione di Venezia. Accanto all’Holiday Inn sta per sorgere uno scorcio di Amsterdam. Un’altra alta torre, la G-Tower, ospita le strutture di “governo” della Zona Economica Libera di Incheon (IFEZ – Incheon free Economic Zone), ed il Segretariato del Fondo Verde per il Clima, istituzione creata dalle Nazioni Unite per finanziare le politiche di adattamento e mitigazione al cambiamento climatico.

Song-do fu scelta dopo una serrata “querelle” diplomatica con la Germania e la Namibia, la prima pronta ad offrire una struttura completamente ecosostenibile a Bonn, già sede del segretariato della Convenzione Quadro dell’ONU sui Mutamenti Climatici, ed ex-capitale federale alla ricerca continua di una nuova identità.

Alla fine la spuntarono i coreani, ed ora Song-Do, ogni tre mesi ospita le riunioni del Consiglio dei Direttori del Fondo assieme ad una sparuta compagnia di delegati, osservatori, ed addetti a lavori. “I love GCF” c’è scritto sulle bandiere che costellano le lunghe e larghe “avenues”.

Tornare ogni tre mesi a Song-Do, è un’esperienza “in progress”: ogni volta appaiono nuovi edifici e la linea dell’orizzonte si riempie continuamente di una fitta rete di gru ed impalcature. Dietro al Conventsia qualche mese fa è stato inaugurato un enorme mall, “Triple Street”, nella parte di città dedicata alle imprese della biotech e della ricerca scientifica. Song-Do, è un cantiere a ritmo continuo, prototipo di “smart city” o città intelligente, con tutte le sue funzioni centralizzate, monitorate, e robotizzate. Si racconta che l’interno sistema di gestione automatizzato dei rifiuti per 35mila residenti può essere gestito da solo sette persone.

L’IFEZ  è composta di ben quattro zone economiche libere, con proprio statuto, leggi, e organismi di autogoverno, un incrocio tra polo tecnologico, accademico, paradiso fiscale, per attrarre investimenti e cervelli da ogni parte del globo.

Non a caso qualcuno definì Song-Do come l’arma estrema di una guerra commerciale che la Corea intendeva combattere in questo lato del Pianeta. La maggior parte dell’IFEZ, che si estende su una superficie di 290 chilometri quadrati è costruita su terreni sottratti al mare, un investimento per un totale di 41 miliardi di dollari. Un valore economico enorme per un luogo che ha un forte valore simbolico per la storia della Corea del Sud.

Incheon è a meno di cento chilometri dalla frontiera con la Corea del Nord, ed è stata teatro della più importante battaglia aeronavale della guerra di Corea, tra le forze delle Nazioni Unite comandate dal generale McArthur e l’esercito comunista, l’operazione “Chromite” che portò in due settimane alla conquista di Seul.

Non a caso al museo della città, tra pannelli che riproducono la vecchia Song-Do, ed i plastici che preannunciano la città del futuro – quella che verrà dopo questa ancora in costruzione –  alcuni pannelli spiegano chiaramente il perché Song-Do è stata prescelta per essere la città modello del liberismo sfrenato, e di un’idea di democrazia perfetta che nei fatti assomiglia sempre più drammaticamente ad una distopia raccontata da Ballard.

E’ dalla battaglia di Incheon che è partita la riscossa del mondo libero, della democrazia che va a braccetto con l’espansione smisurata del mercato, con il cerchio che si chiude quando quest’ultimo determina il primo e non viceversa. Un’iscrizione ricorda che lì, in un punto definito incastonato nel Central Park, il 15 settembre del 1950 le forze ONU arrivarono in quella che la storia ricorda come lo sbarco della “spiaggia azzurra”.

E la “IFEZ, Song-Do ed il Central Park riflettono l’impegno della Corea per creare un ambiente salutare, benefico e positivo per tutti gli abitanti del Pianeta. La Città Internazionale di Song-Do è al servizio dei cittadini della città di Incheon per contribuire alla prosperità economica ed alla promozione della pace sulla penisola coreana”.

Insomma anche l’IFEZ s’è creata il suo mito fondativo, tipo Romolo e Remo per la “città eterna” che si scontra con la realtà cruda della quotidianità di Song-Do, città semideserta, che fatica a costruirsi un’anima.

Eppure ogni tanto i solerti pianificatori ci provano a renderla attrattiva, con tour all-inclusive, manifestazioni culturali, navigazione dei canali, ma il ritmo delle costruzioni è di gran lunga più veloce ed inarrestabile del flusso di nuovi cittadini. Così la città resta semideserta, giorno e notte, tra edifici nuovi e lotti ancora da edificare.

Ogni tanto spunta qualche comitiva di “turisti” che arrivano con la efficientissima e semivuota linea di metropolitana dal centro di Seul, con le loro macchine fotografiche, ammirati dal sogno del futuro, o semplicemente attratti in un safari di “celebrità” giacché pare che almeno per le star della televisione Song-Do sia diventata una novella Beverly Hills.

Della vecchia Song-Do resta un pugno di karaoke bar, e club con improbabili insegne al neon. Addossati su una collina, quella del Parco del Memoriale della battaglia di Incheon, costellano la salita verso il monastero buddista di Heungryunsa dalla cui cima si può dominare l’intera città.

La città è cablata, ci si può connettere su banda larga ovunque, ed è stata progettata per essere esempio di metropoli “verde” ad impatto zero e zero emissioni di carbonio. Il diavolo però è nei dettagli, si dice, giacché quell’energia pulita viene prodotta da centrali che sfruttano il ciclo delle maree, a costo di gravi danni agli ecosistemi marini.

Una di queste centrali –  la più grande al mondo, quella di Siwha –   era stata anche certificata dal Clean Development Mechanism (CDM) , meccanismo previsto dal Protocollo di Kyoto per ridurre le emissioni e generare crediti di carbonio.  Se ciò non bastasse, Song-Do è costruita su un enorme terrapieno di 6.5 kilometri quadrati, sferzato dal vento gelido e battuto dal sole caldo d’estate, che ha soppiantato un ecosistema delicatissimo, rifugio di ben 11 specie di uccelli migratori, tra cui la Platalea Minor, minacciata di estinzione.

E’ il paradosso tra “Green Economy” di cui la città vuole essere esempio a livello globale e la delicatezza degli equilibri ecologici che gli abitanti di Song-Do, vivono ogni giorno, respirando il pulviscolo fitto che inquina l’aria. Già, perché dalla vicina Cina arrivano quotidianamente particelle tossiche ed inquinanti che spesso raggiungono livelli di guardia, al punto che una volta fu chiesto ai funzionari del Fondo Verde di restare chiusi tappati dentro casa per ben tre giorni.

Ironia della sorte. “Smart city” or “stupid city” quindi?  Di certo città immaginate a misura d’uomo nelle quali però gli abitanti vengono trattati come pedine di un sistema di ingegneria sociale ed economica, un meccanismo di controllo capillare e di securitizzazione dello spazio urbano.

Agglomerati urbani, o meglio zone extraterritoriali come Song-Do, stanno ormai costellando la geografia dell’esclusione e dell’inclusione in ogni continente.

Città intelligenti, zone di libero scambio, aree economiche tax-free fino all’estremo delle “charter cities” un’invenzione nata dalla mente contorta di un economista nordamericano, tale Paul Romer, che immaginava città fondate da imprese multinazionali, con proprie forze di polizia, costituzioni, plasmate secondo l’interesse di chi vuole investire nelle sue “maquiladoras”.

Non a caso le prime “charter cities” sono state immaginate in Honduras, nel contesto di tre Regioni Speciali di Sviluppo, e guarda caso i primi fondi per i lavori della prima città modello sono arrivati proprio dalla Corea del Sud.  C’è chi addirittura ha immaginato la creazione “refugee cities” una sorta di zone economiche libere all’interno dei più grandi campi profughi sparsi in giro per il mondo, al fine di agevolare investimenti per la creazione di posti di lavoro ed il miglioramento delle condizioni di vita di chi ci vive. 

Il ragionamento è semplice, classico della logica win-win, l’essenza della cultura e della pratica neoliberista: trasformare i rifugiati da onere a beneficio, da drenaggio di risorse pubbliche e fonte di conflitto sociale a “generatori produttivi” di reddito, lavoro e investimenti esteri.

Questi luoghi/non-luoghi sono territori di nuova frontiera e ridisegnano oggi le mappe della sovranità, la ridefiniscono, sono l’ultima superfetazione del liberismo selvaggio, del capitalismo estrattivista che estrae valore dal territorio, dall’immaginario, e dalla alterazione radicale dei paesaggi e degli ecosistemi, trasformandoli in merci da immettere sui mercati globali.

Si crea così una ragnatela parallela di sovranità e di potere politico ed economico, di “governance” sottratta al pubblico scrutinio, uno spazio di potere creato dalle infrastrutture stesse, come spiega Keller Easterly nel suo saggio omonimo prodotto nel 2014. In questa cornice si sviluppa la “smart city”, parallelamente alla crescita di internet e la minaturizzazione dell’elettronica. Nel suo “Against Smart Cities” nel 2013, Adam Greenfeld spiega come il concetto di smart city in effetti sia nato proprio dalle menti di imprese quali IBM o CISCO, piuttosto che da qualche pianificatore urbano. 

E Song-do quest’è: la quintessenza di quella “global city” studiata da Saskia Sassen, una città con edifici con controllo automatico delle condizioni climatiche, accesso computerizzato, sensori sparsi dovunque nelle reti fognarie, sulle strade, nelle discariche per attivare i sistemi di gestione centralizzata, il “cervello” della città, pianificata nei suoi minimi dettagli dallo studio Kohn Pedersen Fox che di fatto la consegnerà chiavi in mano, “city in a box” alla maniera di IKEA, progettata fin nei minimi dettagli,  all’IFEZ.  40 miliardi di dollari e voilà ecco la città intelligente su commissione e su misura.

Il senso di incompiutezza che ti assale quando arrivi a Song-Do è la sensazione straniante di essere in un luogo ancora in fase di definizione, sospeso tra lo ieri ed il domani, che però non ammette comportamenti non pianificati, non predisposti, non predeterminati.

Sul futuro di Song-Do non incombono solo il pulviscolo che arriva da oltre confine, o le centinaia di telecamere a circuito chiuso che spuntano d’ogni dove, ma l’innalzamento del livello dei mari dovuto al “climate change” che dovrebbero – si stima – coprire sotto un metro d’acqua l’intera città nel giro di pochi decenni.

Neanche il tempo per sviluppare una propria anima, che pare che per farlo una città nuova abbia bisogno dello spazio di un paio di generazioni, più o meno 70 anni.

YACHAY

E’ le stessa sensazione, su scala ridotta, che pervade chi visita la città gemella di Song-Do, posta all’altro capo dell’Oceano, precisamente sulle Ande ecuadoriane, dietro il cimitero della cittadina di Urcucuì, nel cantone di Imbabura a  Nord di Quito.

L’allora presidente dell’Ecuador Rafael Correa visitò Incheon e Song-Do nel 2009 e si innamorò dell’idea. Da allora Ecuador e IFEZ hanno stretto un accordo di cooperazione per la pianificazione ex-novo di Yachay, citta della conoscenza, sorta su un territorio sacro per le comunità indigene.

Venne istituita all’uopo una zona economica libera, ZEDE, Zona Especial de Desarrollo Economico, con regime fiscale a sé, creato appositamente per attirare investimenti esteri.

Il punto è che Yachay è destinata nei fatti a restare una sorta di cattedrale nel deserto, disconnessa completamente dal sistema produttivo ed economico del paese.

Nelle intenzioni dell’allora presidente Rafael Correa, l’obiettivo era quello di “consolidare la prima città pianificata del paese, come ecosistema di imprese di alta tecnologia, dove convivono armonicamente un’università di classe mondiale, istituti pubblici e privati di ricerca e sviluppo tecnologico, e imprese tecnologiche che contribuiscono al cambio di matrice produttiva del paese”.

Yachay la vedi da lontano dopo qualche ora di auto lungo tornanti e rettilinei attraverso le valli andine.

Si scorge dalla cima di una collina una scritta in lettere bianche, alla maniera di Hollywood, con il simbolo, un uomo stilizzato a forma di “y” con le braccia protese al cielo. L’idea sarebbe stata quella di creare una città fatta a cerchi concentrici, il nucleo rappresentato dalla città della conoscenza, la ricerca scientifica, e poi – a raggiera – la città della tecnologia, quella delle università, quella dello sviluppo sostenibile, nell’illusione di creare un ponte tra conoscenze ancestrali e sviluppo tecnologico di punta.

Non a caso, un mural scrostato della piazza centrale di Urcucuì rappresenta figure sciamaniche, storici eroi dell’epopea indigena quali Ruminhaui, che avrebbero dovuto dare ispirazione ai nuovi tecnocrati della revolucion ciudadana, quella del Socialismo del XXI secolo.

Quindi, Yachay resterà probabilmente un sogno incompiuto, visti gli alti costi ed il dispendio di risorse finanziarie ormai assai scarse nell’Ecuador dell’era post-petrolifera.

Doveva, rappresentare il simbolo della trasformazione della matrice produttiva del paese, la transizione dal petrolio all’economia verde, o bio-economia, attraverso lo sfruttamento della biodiversità della foresta Amazzonica e lo sviluppo delle nanotecnologie come improbabile chiave di sviluppo sociale e di lotta alla povertà.

Resteranno forse un campus oggi frequentato da professori attratti da lauti pacchetti salariali, e qualche laboratorio utilizzato da imprese cinesi o russe per ricerche nel settore energetico.

Il resto un cantiere in corso, nel mezzo del nulla, in condizioni atmosferiche estreme, proprio come Song-Do, mentre le centinaia di milioni di dollari investite per quest’impresa avrebbero potuto senz’altro essere destinate al rafforzamento del sistema accademico e di ricerca esistente nel paese. Benvenuti nel futuro.