Un Lampo a ciel sereno

Esperienze e criticità di un laboratorio etnografico sulle alterpolitiche

di Silvia Pitzalis e Giacomo Pozzi

In questa testo ci riferiamo alle persone usando il femminile al posto del più comune maschile, ad
esempio troverete “noi tutte” al posto di “noi tutti”. Perché? Beh, perché no?

Le narrazioni dovrebbero essere coerenti. Dovrebbero indicare un cammino, illuminare i bivi, segnalare gli ostacoli. Far perdere il lettore dentro una tempesta controllata di parole. E il lettore dovrebbe rinunciare alla sua bussola con tranquillità, affidandosi completamente perché consapevole il filo della narrazione è tessuto con maestria da qualcuno di cui si fida: lo scrittore.

C’è solo un caso in cui questa fiducia può crollare. Quando lo scrittore è tanto dubbioso da non voler prendersi la responsabilità di condurre per mano il lettore. O meglio, invita il lettore a farsi la sua propria opinione e a scegliere se credere o meno. Questo accade spesso, nel caso delle narrazioni etnografiche; ed è ancora più vero quando si tenta di fare un resoconto auto-etnografico di una propria esperienza.

Questo è ciò che ci accingiamo a fare. Come Laboratorio Lampo – che definizione strana! Fa pensare a provette e molecole più che a diari di campo e convinzioni politiche – siamo stati invitati dalla redazione di QCT a curare una serie di articoli narrativi che partissero dalla nostra esperienza.

Abbiamo accettato con piacere, ma pieni di dubbi. Innanzitutto perché ogni volta che qualcuna si pone nei nostri confronti con una definizione singolare e collettiva allo stesso tempo (Lampo, vi piacerebbe…), riemergono dubbi esistenziali rispetto alla nostra reale presenza, se non il rifiuto totale di etichette ingabbianti che rischino di minare l’essenza variegata ed eterogenea delle nostre esperienze. In secondo luogo, perché questo ci costringe a narrarci, a porre in forma scritta il nostro essere mondo, ad esplicitare i punti di forza e le criticità che hanno caratterizzato il nostro percorso. A nessuno piace guardarsi allo specchio troppo a lungo e da troppo vicino. Ma andiamo con ordine.

Chi siamo?
La prima sorpresa nel rispondere a questo quesito è che siamo un soggetto che ha una sua (breve) storia. Ce ne siamo resi conto scavando nella memoria dei nostri pc, negli archivi digitali delle nostre e-mail, oltre che nelle nostre memorie. I primi scambi epistolari riportano al marzo del 2014. Eravamo un piccolo gruppo di ricercatrici (studentesse, dottorande e attiviste) provenienti da differenti zone di Italia che orbitavano attorno al centro sociale Xm 24 e che avevano sede a Bologna. Avevamo recentemente seguito un seminario organizzato dal LEMS (Laboratorio di Etnografia sui Movimenti Sociali) all’Università di Modena. Il convegno esplorava la questione della militanza nello studio etnografico dei movimenti sociali. Qualcuna di noi li studiava, qualcuno ne faceva parte, alcune era implicata in entrambi i processi. Così ci siamo sentite parte di quel più ampio discorso relativo al ruolo della soggettività politica della ricercatrice nella produzione sociale del sapere. Quel seminario ci stimolò a riflettere ulteriormente sulla questione e decidemmo di lanciare una call for paper, dedicata esclusivamente a studentesse e ricercatrici non strutturate, che ampliasse la riflessione, dedicando maggior attenzione a quelle pratiche politiche che non potevano (o non volevano) essere pensate unicamente all’interno della categoria dei movimenti sociali. Il convegno si tenne all’Università di Bologna il 20 Giugno del 2014. Fu un convegno partecipato, contro ogni aspettativa, e fecondo.

Da quell’incontro nacque una fucina critica di idee e azioni denominato in forma condivisa Lampo: Laboratorio Multidisciplinare sulle Politiche dal basso. Un nome che inizialmente ebbe la funzione temporanea di essere un riferimento comune tra di noi, senza ancora assumere il carattere di definizione pubblica. Quasi ad esorcizzare la paura di definirci fin dall’inizio come qualcosa e non come qualcos’altro. In questo gruppo studiose afferenti a diversi ambiti disciplinari trovarono uno spazio per dare concretezza agli spunti riflessivi emersi dall’incontro e rafforzare la collaborazione tra loro.

In quanto studiose in una posizione marginale nel contesto accademico, rivendicammo la liminarità della nostra condizione come uno strumento che permettesse il proliferare di discorsi e riflessioni originali e alternativi. Per quasi un anno ci incontrammo regolarmente per condividere le nostre ricerche e riflettere sulle tematiche comuni che mano a mano emergevano dal confronto. Questo processo fu portato avanti con molte difficoltà. Alcune di noi non vivevano più a Bologna, altre si erano trasferite, altre viaggiavano per il mondo conducendo ricerche o militando. Tuttavia, in forma rizomatica, continuammo a esserci, e a rivendicare la nostra presenza.
A più di due anni da quell’incontro, data anche l’urgenza di elaborare una riflessione critica sui fatti che lo scenario contemporaneo ci impone, abbiamo proposto recentemente di continuare a riflettere sul terreno delle produzioni politiche dal basso, attraverso l’organizzazione di un convegno che si è tenuto il 22 ottobre del 2016 presso l’Università di Milano-Bicocca.

Nel seminario bolognese del 2014 le produzioni politiche dal basso erano state definite in forma condivisa come tattiche “di base” (Montaldi 1971; Quadrelli 2007), “popolari” (Lanternari 1983) o “subalterne” (Gramsci 1975). Azioni e pratiche politiche localmente e storicamente determinate, poste in essere da segmenti della popolazione percepiti come “periferici” (de Certeau 2005) rispetto alla distribuzione sociale del potere.

Nostro interesse era continuare a interrogarci su come queste esperienze ridefinissero il “politico” e quali fossero le declinazioni all’interno degli scenari contemporanei, globali e locali. Per raggiungere questi obiettivi ritenemmo opportuno porre l’attenzione sulle modalità con cui gli attori sociali modificano le prassi politiche. L’intento fu interpretare e comprendere i tentativi di queste pratiche di rigenerare il sistema economico, sociale e politico, così come i loro fallimenti. Svelare, infine, come queste agency, tramite la costruzione della cittadinanza come spazio vissuto e come processo dialogico, permettessero l’apertura verso forme di immaginari umani “altri”.

Quali strumenti?

L’etnografia è stato lo strumento che ci ha caratterizzate tutte fin dal principio, così come la multi-disciplinarità delle teorie e degli approcci da noi utilizzati. Abbiamo inteso la ricerca come una pratica conoscitiva condotta al fianco di persone che contribuiscono ad essa e la influenzano, all’interno di uno spazio condiviso e dialogico. Siamo convinte che proprio la qualità del confronto, basata quanto più possibile su rapporti non ambigui, ma anzi il più possibile espliciti, permetta la nascita di relazioni durature tra ricercatrici, collaboratrici e contesti di ricerca.

Questo consente la “restituzione” intesa come fase finale del processo etnografico, ovvero il ritorno del frutto delle ricerche a disposizione di chi li ha permessi e performati.
Potremmo asserire dunque che l’etnografia sia il tentativo di restituire, in forma scritta, storie narrate, più o meno inventate (Clifford 1993). La ricercatrice, consapevole della finzione insita nel racconto etnografico, diventa dunque artefice e complice di questa costruzione, implicata in un flusso di pratiche, dialoghi, silenzi e omissioni in divenire.

Ella ha dalla sua il potere dell’interpretazione e dell’autorità, consapevole che il sapere che sarà in grado di produrre non potrà mai essere totalmente oggettivo e completamente epurato dalla presenza della sua autrice. Operando delle scelte, l’etnografa decide chi considerare nell’analisi e chi estromettere, da quale punto di vista osservare il fenomeno che sta analizzando. Questo processo è messo in atto sulla base dei principi, delle ideologie e delle conoscenze di cui la ricercatrice è portatrice. La comprensione etnografica che ne deriva risulta, dunque, un’impresa pratica: un tentativo di costruzione di senso attraverso l’immersione nelle pratiche quotidiane altrui (Ligi 2009).

La riflessione – che si protrasse per quasi due anni di lavoro condiviso, precario e frammentato – ci suggerì che, allo scopo di una comprensione profonda, fosse più opportuno concentrarsi sulla concretizzazione delle nostre esperienze di attivismo e di ricerca piuttosto che sulla definizione di queste pratiche. Il lavoro di preparazione invitò così l’emersione di un senso condiviso e contraddittorio di queste alterpolitiche, come la trama di un tessuto problematico che mostra, da un lato, trappole e strettoie, dall’altro le potenzialità emancipatorie di un percorso critico.

La prima delle problematiche che in questo senso abbiamo ritenuto utile affrontare è stata la dicotomia efficacia/fallimento. Questo dualismo, infatti, ci sembra che informi l’intero panorama socio-politico e culturale attuale, dalle pratiche di attivismo politico al loro studio accademico, dalle relazioni sul campo alle nostre personali biografie. La dicotomia definisce il presente grazie ad una specifica visione della realtà che si fa funzionale ad una precisa idea di società.

La call for paper del convegno si è fondata dunque su questa prospettiva.
Ma ritorniamo ad oggi, sperando che il lettore si sia perso nella matassa di questa narrazione e da questo suo spaesamento ne nascano opinioni e dubbi.

Perché abbiamo deciso di raccontare tutto questo?
Innanzitutto per situare i lavori che verranno proposti nelle prossime settimane su QCT da alcuni membri del Laboratorio o da persone che hanno attraversato questa esperienza. In secondo luogo per scardinare la retorica della coerenza nei percorsi extra-accademici, o meglio, sulla soglia tra mondo accademico, precariato e attivismo, di riflessione critica. Dopo il convegno di ottobre 2016 Lampo si è ulteriormente frammentato.

Le eterogenee esperienze di vita e professionali che ci muovono costruiscono mondi frammentari, precari e dispersi. Eppure qualcosa nasce, qualcosa si muove e queste pagine ne sono un esempio. E rivendichiamo questa prospettiva, questa forma incerta di costruzione del sapere che proprio perché privo di un’essenza precisa e data a priori permette maggiore libertà al pensiero e alla critica. Con ruoli, tempi e spazi diversi, il Laboratorio stesso è forse divenuto una produzione politica, difficilmente inscrivibile nelle categorie sociali che vengono utilizzate nella tassonomia del mondo accademico.

Arrivando ora al quid di questa raccolta di interventi, vorremo brevemente introdurre i lavori delle prossime settimane. La caratteristica rizomatica (Deleuze e Guattari) del laboratorio si ripercuote sui temi delle ricerche dei suoi membri o di chi ha attraversato per breve tempo il gruppo. Come speriamo si sarà compreso, il nucleo tematico fondamentale rimane la riflessione sulla modalità di ricerca, più che sul tema stesso. Questa prospettiva è sicuramente un esito del metodo etnografico, che si fonda sullo studio approfondito di un preciso contesto locale e sulla possibilità di costruire delle reti di comparazioni a livello globale. Per questo abbiamo concordato con le editrici di dare alcune linee guida alle autrici.

Nello specifico si è chiesto di riflettere, a partire dall’esperienze del laboratorio, sul tema delle mobilitazioni politiche, sull’interazione tra ricercatrice e interlocutori e sul ruolo dell’urbano nel corso delle ricerche. Questi sono i temi comuni in cui si svilupperanno gli articoli che leggerete nelle prossime settimane su QCT. Cinque ricercatori racconteranno da vicino le loro esperienze di ricerca sul campo.

Cosimo Lisi porterà una riflessione sullo stato d’emergenza e i caratteri neocolonia della governance urbana della città di Parigi. Antonio Liguori, rifletterà sulla relazione tra gentrification e spazi di socialità a partire dal recente conflitto politico intorno al centro sociale Xm 24, nel quartiere della Bolognina a Bologna. Silvia Pitzalis ci racconterà della connessione tra mobilitazioni e catastrofi, emerse dalla sua lunga ricerca etnografica condotta nella bassa emiliana. Elisabetta Capelli, ci riporterà di nuovo a Bologna, per proporre una riflessione sul tema della partecipazione nel contesto delle grandi opere urbane a partire dal caso del “Passante di mezzo”. Infine Giacomo Pozzi, tesserà alcuni fili narrativi riguardo alle metodologie di ricerca del Laboratorio Lampo, a partire dalla sua esperienza di ricerca etnografica sugli sfratti e le occupazioni abitative nel contesto milanese.

Vi aspettiamo per i prossimi cinque martedì, qui su Q Code Town.

Il testo presentato è un bricolage che accoglie anche alcune parti scritte in forma condivisa dal Laboratorio Lampo nel corso delle sue esperienze. Le parti restanti sono state scritte da Silvia Pitzalis e Giacomo Pozzi. Le immagini sono di Giacomo Pozzi e ritraggono un muro parigino.

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