DETROIT

SIDNEY, TOKYO, DETROIT: IL RACCONTO DI TRE CITTÀ

di Valeria Nicoletti, foto di Paolo Mazzo 

“Viaggiando ci si accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti”, così raccontava Marco Polo delle città invisibili che aveva esplorato, nel libro di Italo Calvino. Tra analogie e divergenze, tre città si raccontano, in immagini e parole, attraverso le traiettorie degli abitanti, il profilo degli edifici, le orbite dei microsistemi che si costituiscono intorno ai quartieri, ai teatri, alle icone cittadine, gli spostamenti che seguono inevitabilmente l’ascesa e il declino delle economie. Dopo la folla di turisti di Sidney e i torrenti d’asfalto di Tokyo, la prossima fermata è Detroit: qui a stupire l’obiettivo è l’assenza dell’elemento umano, in una metropoli quasi disabitata, dove a fare da landmark sono edifici simbolo della crisi e, tra gli abitanti, è cominciata un’inversione di rotta per tornare a popolare la città.

Detroit aspetta in silenzio. Quasi in attesa di un ritorno, di una chiave che gira nella toppa della porta. Come se l’esodo fosse stato imprevisto, subitaneo. Un divano abbandonato, una rete spezzata, un cancello socchiuso. Un paesaggio quasi lunare se non fosse per il sole che torna a riscaldare la città, come a controllare che non ci sia nessuno da svegliare. Detroit, capoluogo della contea del Wayne, nello stato del Michigan, capitale dell’industria automobilistica mondiale, città operaia, sembra essersi mutata in una città fantasma.

Negli Stati Uniti, paese dei grandi spazi, delle distese infinite, della serie ininterrotta di isolati, Detroit soffre la solitudine e lo spopolamento. Anche il traffico si defila tra una strada secondaria e un parcheggio. E gli stessi grattacieli industriali, come quelli della Fiat, quasi per discrezione, si ritirano in periferia.

Dopo la bancarotta del 2013, fenomeno unico al mondo nella sua tragicità, Detroit conta poco meno di 700.000 abitanti, circa la metà della popolazione negli anni Cinquanta. Interi quartieri sono disabitati e non sono pochi gli edifici ritenuti paesaggi in via d’estinzione. Intanto, quello che resta, quello che è stato impossibile portarsi dietro, aspetta una seconda chance nei magazzini dell’usato. Vecchie cucine, infissi, mobili logorati dall’uso, tutto in bella mostra per pochi dollari, mentre quelli che ne sono stati un tempo i contenitori rimangono sul ciglio della strada, vittime dell’abbandono, come esoscheletri privi di ogni ragion d’essere, senza una pur lontana speranza in un nuovo avvenire. La città, infatti, per ora non ha intenzione di finanziare la ristrutturazione di edifici che molto probabilmente resteranno disabitati.

Al contrario di Tokyo, dove l’elemento umano esonda come un fiume costretto dagli argini urbani, qui a Detroit l’uomo è assente, o meglio scivola nelle retrovie, si attarda in quei piani dove è rimasta accesa qualche luce, sembra fare un giro di ricognizione in una città espropriata. Gli edifici addormentati, per l’impossibilità di recarsi altrove, restano a fare da scenografia a un mondo sparito. Le strade ariose annegano nella solitudine. Le indicazioni, i cartelli, si sentono quasi beffati per non servire più a nulla. Interi quartieri sono in letargo e le illuminazioni, i lampioni stradali, continuano a seguire i consueti ritmi circadiani della città, quasi per inerzia.

 

Come in una selezione naturale, i più fortunati, i più ricchi sono andati via, al riparo, nei vicini sobborghi benestanti. Sono rimasti i derelitti, a cavarsela tra un’assistenza sanitaria insufficiente, un sistema scolastico inadeguato e un tasso di criminalità in aumento. In città si contano 40.000 edifici abbandonati, circa 114.00 lotti vacanti e, inevitabile conseguenza dei disastri moderni, una grottesca tendenza al ruin porn si è diffusa nei quartieri più conosciuti, una sorta di turismo delle catastrofi, delle rovine, per immortalarsi davanti alle saracinesche abbassate, alle recinzioni metalliche che ormai contengono solo cumuli di spazzatura, ai grattacieli spenti, al deserto umano.

Sono lontani i tempi in cui, distesa lungo il fiume omonimo, la vallata dove s’incunea la città di Detroit appariva come un miraggio, un’oasi, un luogo propizio all’insediamento, alla prosperità.

È stato un manipolo di cacciatori di pellicce, provenienti dalla Francia, o probabilmente dal vicino Canada francese, a fondare la città nel 1701, lungo la riva nord del fiume, che collegava il lago St. Claire al lago Erie, nella regione dei Grandi Laghi, tra il Québec e i territori colonizzati britannici. Sulla fine del 1800, la città vive forse il suo periodo più grandioso: Henry Ford comincia a produrre automobili nel 1896 e nel 1904 nasce il celebre Model T. Detroit diventa la capitale dell’industria automobilistica statunitense, dove anche un operaio può permettersi un’auto. Cinquant’anni dopo è un’altra eccellenza a inorgoglire la città: nel 1959 nasce la Motown Records, l’etichetta discografica di Michael Jackson, Marvin Gaye, Stevie Wonder. Un vero e proprio genere musicale si fa largo con il nome di Motown Sound, riconosciuto e imitato in tutto il mondo.

La bancarotta è ufficialmente terminata l’11 dicembre 2014, a mezzanotte. E, anche se Detroit sembra immersa in un silenzio surreale, i superstiti hanno cominciato a invertire la rotta, tornando a ripopolare zone della città cadute in abbandono. Nonostante i tagli ai servizi e ai finanziamenti, sono stati aperti tre nuovi casinò e anche il complesso monumentale del Renaissance Center, sede mondiale della General Motors, fondata da Ford, è stato riaperto. È un’iniziativa tutta cittadina quella che cerca di scrollarsi di dosso la retorica della ripresa, la commiserazione di un continente intero e prova a rimettere in moto gli spazi urbani, i quartieri fantasma, gli edifici lasciati a se stessi.

 

Una volontà in bilico tra i racconti della crisi, ancora tanto, troppo vicina, e le promesse di rinascita, sempre tanto, troppo lente. In sordina, come se non volesse destare l’attenzione, alimentare le aspettative, Detroit riparte. Le luci si riaccendono. Sono le nuove piccole imprese tecnologiche che attirano qui lavoratori più giovani, ma anche tutto un inedito fermento artistico, interessato alla possibilità di occupare spazi ed edifici a bassissimo prezzo. La metropoli si rimette in carreggiata, come riconquistata dalla favola del sogno americano, dell’individuo che riparte da zero e costruisce la sua fortuna.

Intanto, come se le utopie potessero sbocciare proprio in quei luoghi dove c’è rimasto ben poco da perdere, il governo del Michigan ha invitato i rifugiati e i migranti a ripopolare gli edifici abbandonati, con una politica che avvantaggia l’insediamento di nuovi americani.

AAA nuovi abitanti cercasi, fa sapere il Michigan, soprattutto se si tratta di immigrati qualificati o di lavoratori stagionali, per far ripartire l’agricoltura e l’industria. C’è stata la rassegnazione, lo smarrimento, ora c’è chi ha voglia di rimboccarsi le maniche e fare. Qualsiasi cosa, ma fare. Un esempio emblematico, l’impresa Shinola, marchio di lusso che produce orologi, biciclette e articoli in pelle, interamente made in Detroit. O ancora, le direttive economiche del governo che, lungi dal voler alimentare una nuova Silicon Valley, preferisce puntare sulle piccole e medie imprese.

Uno skate scivola su un viale, da solo. Una luce torna ad accendersi dietro gli infissi arrugginiti. Detroit resta sospesa, tra il fiume e i grandi laghi, tra la brezza gelida dal Canada e un timido sole d’inverno. È impossibile riconoscersi nella metropoli spavalda di un tempo, lo spettro della bancarotta aleggia ancora sulla città ma inizia a farsi strada la voglia di lasciarsi alle spalle un’eredità ingombrante, di ripartire e tornare per un attimo a sentirsi come la vecchia ruggente Motown.

 

Foto tratte da https://www.behance.net/gallery/13030665/Detroit-The-Silent-City

 

Valeria Nicoletti (1987), giornalista, da Parigi, racconta di viaggi, fauna metropolitana e letteratura contemporanea. Ha un blog: auventmauvais.wordpress.com.

Paolo Mazzo è nato a Padova, vive e lavora a Milano. Fotografo professionista dal 1993, è socio di F38F – Famiglia Trentotto Fotografi (con Francesco Di Loreto e Mimo Visconti), che produce fotografie pubblicitarie, editoriali e di architettura. Autore di progetti fotografici a sfondo sociale o urbano, ha prodotto lavori sulla rigenerazione culturale di una dimenticata città mineraria  (Arsia, Croatia, work in progress); sul popolo profugo Sahrawi  in Algeria (“Voci distanti dal Mare”, Napoli 1998; “Il Coraggio di essere un popolo”, Reggio Emilia 2002); oltre all’analisi urbanistica della città in cui vive (in F. Oliva, L’urbanistica di Milano, Hoepli editore, Milano 2002; e  A. Arcidiacono, L. Pogliani (a cura di), Milano al futuro, et al./edizioni, Milano 2011); fino al progetto Company Town, di recente esposto a Londra, dove analizza lo sviluppo e la genesi di città cresciute attorno a importanti insediamenti produttivi (p.e. Zlin in Repubblica Ceca, Batovany in Slovaccchia o Nowa Huta in Polonia). Dal 2002 collabora con gli atelier del primo e del sesto anno all’Accademia di Architettura di Mendrisio ed è dal 2007 coordinatore della ISSI, l’international summer school di Ivrea, che si occupa dei temi della città di Olivetti in trasformazione. Ha tenuto lezioni e workshop allo IUAV, al politecnico di Milano e di Torino e alla scuola umanitaria di fotografia di Milano C.F.P. Bauer. Ha vinto il  “Marco Bastianelli- Opera Prima“ premio nel 2010 con il lavoro “Radici di ferro”, un progetto sul primo insediamento delle acciaierie Falck a Dongo (Como)

 

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