Riprendiamo la città. Intercultura, il mostro

Ovvero, di come si gira un film sui mostri tirando su e giù una zip

di Tommaso Santagostino

Preludio
Alla fine della giornata una di noi invia sulla chat di gruppo delle foto fatte ad alcune pagine di un libro. In una di queste un passo è messo in evidenza:
Mostro? Sfinge, bestia e ragazza; centauro, maschio e cavallo; liocorno, chimera, corpo composito e mischiato; dove e come individuare il luogo della saldatura o della cesura, il solco dove il legame si annoda e si stringe, la cicatrice dove si congiungono le labbra, la destra e la sinistra, l’alto e il basso, ma anche l’angelo e la bestia, il vincitore vanitoso, modesto o vendicatore e l’umile o ripugnante vittima, l’inerte e il vivente, il miserabile e lo straricco, la piattezza stupida e la follia viva, il genio e l’imbecille, il padrone e lo schiavo, l’imperatore e il pagliaccio. Mostro, certo, ma normale. Quale parvenza scostare, ora, per conoscere il punto di congiunzione?
(Michel Serres, Le Tiers-Instruit, François Bourin, Paris 1991; trad. Il mantello di Arlecchino, Marsilio, Venezia 1992)

Antropologia? Sì, no, forse
Facciamo un passo indietro. Molti ci chiedono provocatoriamente: state facendo antropologia? Nei nostri articoli non c’è una tesi di fondo né il nostro lavoro vuole spiegare l’intercultura e ci guardiamo bene dal dire se essa sia un fenomeno positivo o meno.

Il gruppo, come forse ormai sapete, non è composto da sole antropologhe e antropologi, quindi dovendo rispondere alla domanda diremmo sì, in fondo tutti noi facciamo antropologia. Quando ci fermiamo ad ascoltare le storie degli altri e magari a nostra volta le raccontiamo ad altri, e quando non paghi mescoliamo queste storie con le nostre storie e via così in un calderone senza fine!

Eh già..sappiatelo, gli antropologi amano la circolarità (ben poco le rette vie), i circoli (ovviamente viziosi) e i circoletti (“rossi”, come un giornalista sportivo soleva denotare i colpi degni di nota dei giocatori nei match di tennis). Rendere esplicite le pratiche e le visioni intorno ai mondi di cui implicitamente e quotidianamente ciascuno di noi è portatore è uno dei modi in cui possiamo raccontare l’intercultura.

In questi mesi non abbiamo lavorato a una tesi, abbiamo bensì giocato intorno a quella tensione che ci ha guidato nella raccolta di storie di vita che non sono storie di supereroi o personaggi buoni da raccontare, ma sono in fin dei conti storie alla portata di tutti. Tutti coloro che hanno curiosità di scoprire come si può vivere oggi a Milano. Intercultura a Milano per l’appunto è quello che rispondiamo a chi ci chiede quale sia il tema del nostro film. Milano nel nostro racconto non differisce da altri contesti urbani poiché in primo luogo è uno spazio di possibilità in cui avventurarsi.

Non sono necessarie patenti o autorizzazioni. Stiamo costruendo un racconto che nasce in primo luogo dalla capacità di creare relazioni e siamo convinti che tutti siano provvisti di questa potenzialità relazionale. Perciò il lavoro sui cui ci siamo concentrati in questi mesi e che abbiamo cercato di raccontarvi finora è stato rivolto soprattutto a esplicitare tali potenzialità, rendendoci maggiormente consapevoli del nostro agire e del nostro stare-nel-mondo. La tensione dell’antropologo è un mero artificio che ci aiuta a colmare con ironia alcuni dubbi esistenziali e a metterci in cammino per cercare delle tracce.

Sotto il sole di piazza Tirana
Attenzione però, è bene ricordarlo, noi stiamo realizzando un film. E come diavolo si gira un film? Questa domanda ora si fa sempre più ingombrante e aleggia sul gruppo come un avvoltoio. Qualcuno di noi ha già fatto esperienza di cosa implichi avere un’idea e svilupparla attraverso una sequenza di immagini seguendo uno schema narrativo oppure di come si sviluppi un’idea filmica avendo a disposizione ore di riprese realizzate.

Alcuni fra noi, inutile negarlo, hanno abbandonato l’impresa. Qualcosa deve essere andato storto. Prima di partire per le vacanze estive ci domandavamo sotto il sole di piazza Tirana, mentre l’asfalto si scioglieva sotto i nostri piedi provocandoci scompensi psicofisici e allucinazioni, per quali motivi nel corso di questi mesi ci sia stata una serie di abbandoni rispetto al gruppo originario. Parliamo troppo difficile? Fuor di dubbio, maledetta accademia! Forse semplicemente alcuni si aspettavano di imparare a usare le videocamere e cimentarsi nelle riprese sin dall’inizio e invece noi ci siamo persi in giochi di ruolo e disegni. Altri hanno visto cambiare i loro percorsi di vita, e hanno dovuto “tagliare” inevitabilmente qualcosa, e la scelta a volte è proprio ricaduta sulla partecipazione a Potlach. Se aggiungiamo, però, che abbiamo perso per strada soprattutto persone originarie da altri paesi ci sentiamo mortificati, perché a venir meno sono stati proprio gli emblemi della nostra cara intercultura.

Non è un buon segno, ma interrogando noi stessi su queste defezioni ci accorgiamo che la difficoltà di condividere un percorso collettivo in grado di attivare una comunicazione fra tutti i componenti ci fa entrare dalla porta principale nella questione filmica. Cosa diremo e come lo diremo non potranno più essere due facce d’una stessa medaglia, dovremo avere le idee chiare su ciò che stiamo cercando perché d’ora in avanti non saremo più chiamati a riflettere e discutere, ma dovremo prendere in mano le videocamere e girare non più come mero esercizio ma con un obiettivo preciso.

La memoria collettiva di Potlach ci svela il mostro interculturale
Il primo passo per schiarirci le idee è quello di scavare nella memoria di Potlach. Ci accorgiamo che il lavoro di questi mesi ha dato fra gli altri un frutto molto importante, una memoria comune da interrogare. Come saremo chiamati più avanti a prendere visione delle ore del nostro girato per assemblare le immagini del nostro film, ora dobbiamo guardare a ciò che è stato fatto in questi mesi per costruirne le basi.

Dispositivo multimediale d’elezione in questa fase sono gli innumerevoli post-it appiccicati ovunque (su cartelloni, sulle mani, sui muri..) designati a fare da supporto colorato alle nostre riflessioni. In poche parole ci aiutiamo ad osservare i nostri pensieri.

Durante la ricognizione nella memoria collettiva di Potlach, sui cartelloni man mano prendono forma le premesse su cui ci stiamo muovendo e che è bene esplicitare con il fine di delineare un elemento di “appartenenza”: l’approccio relativistico con il quale abbiamo scelto di descrivere l’intercultura nella sua accezione inclusiva, plurale e valorizzatrice della diversità.

Intercultura appunto, il nostro caro oggetto di ricerca si frantuma in mille pezzi (o in mille post-it) ogni qualvolta cerchiamo di manipolarlo in funzione di una sua descrizione oppure di definirlo per poterne fare uso. Per questo motivo decidiamo di utilizzare il termine “interculturale” al posto di intercultura per riuscire meglio a dar conto di questa natura effimera. Dobbiamo quindi focalizzare l’attenzione su alcune costanti che compongono l’interculturalità, sette per la precisione. Ecco che i nostri manifesti invasi da piccoli cartoncini appiccicosi delineano l’intercultura come un fenomeno che riguarda relazioni fra persone (1), che racconta di trasformazioni in corso (2), che è transitoria per definizione (3), che abita con grande facilità l’ambivalenza (4), che può comportare una progettualità politica dalle mille sfumature (5), che non può prescindere dalla dimensione del valore (6) e che dipende sempre dalla differenza o somiglianza di famiglia che decidiamo di mettere al centro della nostra analisi (7).

Non so se nel leggere queste parole riuscite anche a voi a scorgere il mastodontico mostro evocato. Provate a indovinare. Sì, ha mille teste, è allo stesso tempo sfinge, ragazza e maschio ed è pressappoco inaffrontabile a meno di non venirne a patti, creatura effimera e affascinante! Dipende da come guardiamo il mostro: intercultura è allo stesso tempo un processo di rappresentazione e di relazione che getta luce sulla costruzione contemporanea del modo in cui le persone si rappresentano nei confronti di se stesse e del mondo che abitano; intercultura è anche politica del quotidiano, ovvero legittima aspirazione al cambiamento, con le scelte che si compiono nei confronti del “sé-mondo”. L’interculturale ci attraversa, non ha una provenienza geografica, e da questa posizione implicata, ovvero che riguarda tutti, noi osserviamo e cerchiamo di raccontare ciò che siamo.


I mostri siamo noi

Fra i colori fluo dei post-it emergono le tracce dei mesi passati ad indicarci una direzione. Ci accorgiamo che il processo interculturale rimanda costantemente a una tensione tra ciò che è simile e dissimile a noi.

Il primo ambito, la somiglianza, ha a che fare con il diritto alla indifferenza, con l’identificazione, con lo sguardo verso il sé e l’intimità culturale (sentirsi a proprio agio in un contesto sociale significa poter passare inosservato, nel senso che la nostra presenza non è un dato straordinario ma in qualche modo consuetudine, il che comporta un immaginario e pratiche condivise con la collettività); il secondo, la differenza, ha a che fare con il diritto a distinguersi, con il rivolgere questa distinzione verso gli altri e con l’indossare una o più maschere culturali.

Raccontandoci quelle volte in cui in prima persona siamo stati attraversati da questa tensione ci accorgiamo che il nostro mostro, visto da questa prospettiva, non sta mai fermo, ma oscilla in continuazione fra ciò che è a lui (cioè a noi) simile e ciò che è dissimile. Quindi se possiamo affermare che l’intercultura siamo noi viene facile fare due più due e concludere che questro mostro.. siamo proprio noi! Sulla natura del mostro (e su ciascuna delle sue mille facce) è stata costruita l’ipotesi di ricerca che ci guiderà d’ora in avanti: nell’interculturalità coabitano elementi in apparente opposizione, nell’interazione fra queste forze si genera un campo d’azione che si configura come continuum fra ciò che uguale e diverso. Obiezioni: uguale a chi e diverso da cosa? ma questo poi accade veramente o è solo un’idea nemmeno tanto buona? e se invece questa dinamica appartenesse realmente alle persone, allora come si esprime nelle loro vite? soprattutto, come è possibile spiegarlo? Sono tutte domande vicine all’esperienza di ciascuno di noi. E sono queste domande che ci consentono di scavare nel nostro repertorio personale per selezionare tutti quei momenti in cui abbiamo sperimentato la tensione tra simile e dissimile. Una volta selezionati sarà tempo di restituirli visivamente per cominciare a dare una struttura allo schema narrativo del film. Il progetto di ricerca-azione sta diventando un modello guida che a sua volta si scioglierà in una successione temporale di immagini. Quello che stiamo vivendo e sperimentando come gruppo sta assumendo la connotazione di un film, ma tranquilli non ci vedrete sul grande schermo.

Ciak si gira
Una cerniera, una costante. Ecco di cosa parlerà il nostro film. Ci siamo accorti che l’ambivalenza dell’intercultura, questa terra di mezzo in cui tutti ci siamo imbattuti prima o poi oscillando nel mare che la circonda e solca, ha un’immagine costante. E’ l’immagine di una cerniera.

In maniera letterale la cerniera è simbolo del cambio d’abito che rimanda quotidianamente alla pluralità di ruoli che ognuno di noi concretamente indossa e abita nel mondo; metaforicamente è la soglia dove non si è già più ciò che si era prima e non ancora quel che si sarà. Ci sembra una bella e sensata immagine per dare corpo alla nostre riflessioni e anche una forma al mostro prodigioso, nel senso del film.

Ora sappiamo cosa dobbiamo andare a cercare: è maledettamente facile e difficile allo stesso tempo, perché dove c’è una cerniera c’è sempre anche una persona che la apre e la chiude traghettando se stessa e gli altri nel proprio mondo, ogni volta simile e dissimile a se stesso. E ogni cerniera è una soglia che ci consente di essere trasportati in quel mondo attraverso le parole, i gesti e le emozioni di quelli che adesso sappiamo saranno i nostri protagonisti. O meglio, non sappiamo ancora come si chiameranno, che faccia avranno, ma sappiamo che per trovarli dovremo farci largo, di cerniera in cerniera, facendo attenzione a non rimanere incastrati.

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